giovedì 25 dicembre 2008

venerdì 12 dicembre 2008

Non ci resta che piangere

La stragrande maggioranza delle persone è convinta, ancor oggi, che se uno, mentre guarda un panorama, chiude gli occhi, le figure luminose e colorate che egli vedeva continuino a sussistere né più né meno come quando egli aveva gli occhi aperti (1).

Quasi tutti gli animali e le piante si rapportano più o meno bene con quella parte della radiazione elettromagnetica, che noi esseri umani chiamiamo luce. Il rapporto più elementare, nella scala evolutiva, è la fotosensibilità, fenomeno presente nelle piante, nei batteri, e in molti animali unicellulari, come ad esempio le amebe. Elementare non significa imperfetto o deficiente: provate voi a vivere in un mondo completamente privo di vegetazione e poi vi accorgerete chi è il deficiente.
Gli animali pluricellulari si rapportano con la luce tramite particolari organi fotosensibili, chiamati ocelli, questi organi sono presenti per esempio nelle larve d’insetti, o accanto agli occhi composti negli insetti che hanno raggiunto lo stadio adulto. Un ocello ha la forma di una piccola coppa tappezzata esternamente da cellule fotosensibili e posteriormente da un pigmento nero, talvolta è presente anche una lente rudimentale.
Gli ocelli sono in grado di rivelare l’intensità della luce, ma non si ritiene possano formare immagini ben definite. In altre parole una struttura biologica dotata di fotorecettori, di schermo scuro e con forma a coppa, cioè un ocello, vedrebbe un’infinità di immagini confuse, cioè le vedrebbe se fosse connesso a un cervello in grado di vedere.
Da un punto di vista puramente fisico i raggi luminosi arrivano ai fotorecettori, posti all’interno dell’ocello, da tutte le direzioni e non solo dall'oggetto (l’eventuale preda o predatore) posto di fronte all'animale (il predatore o la preda), quindi per quanto riguarda la sopravvivenza dell’animale l’utilità dell’ocello è scarsa. E un po’ come il fenomeno che notiamo nelle giornate d’estate, quando gli intensi raggi solari riflettendosi sulle auto in movimento e filtrando attraverso le persiane disegnano sul soffitto di una stanza in penombra macchie colorate in movimento. Noi vediamo le macchie di colore scivolare sul soffitto della stanza e le leggiamo come ombre luminose di automobili che passano giù in strada. Ma un animale dotato di ocelli vede solo macchie di diversa intensità luminosa in movimento, e probabilmente la sua reazione istintiva è la difesa (allontanarsi o immobilizzarsi) o l’attacco (dirigersi verso la macchia luminosa in movimento).
Il perfezionamento evolutivo delle cellule fotosensibili in cellule nervose poste sulla parete interna dell’ocello porta gradatamente allo sviluppo della retina. A questo punto l’ocello si chiude quasi completamente generando l’occhio. Adesso la luce penetra nell’occhio attraverso un minuscolo forellino. I fori d’ingresso nell’occhio per far passare la luce possono essere uno o molteplici. Nel primo caso si parla di occhi semplici, nel secondo di occhi composti.
Gli occhi composti sono tipici degli insetti. Gli occhi composti sono situati ai lati del capo dell’insetto e le loro dimensioni sono proporzionali all'importanza della vista nell’economia di vita dell'insetto. L'occhio composto è formato da un gran numero di ocelli evoluti di forma allungata, chiamati ommatidi. Il numero degli ommatidi è uno dei fattori da cui dipende il potere risolutivo dell’occhio. Ad esempio, nelle libellule (che catturano le prede in volo) gli occhi composti sono enormi e occupano gran parte del capo, e sono formati da più di 28.000 ommatidi per occhio (per fare un paragone la mosca domestica ne possiede solo 4000).
In altre specie di insetti, per esempio alcune specie di formiche, gli occhi composti sono piccoli (talvolta con un solo ommatidio), e talvolta gli ommatidi possono mancare del tutto, come negli insetti che vivono sempre al buio (per esempio nelle grotte).
La visione generata dagli occhi composti è detta a mosaico, perché tanto maggiore è il numero degli ommatidi più l’immagine è dettagliata. È un po’ come il numero dei pixel e la risoluzione nell’immagine digitale.
È interessante notare che alcuni insetti sono sensibili a certi colori e ciechi ad altri, di conseguenza il loro spettro visibile è diverso da quello dell’uomo. Ad esempio l’ape reagisce alla radiazione elettromagnetica fino a una lunghezza d’onda di 297 nanometri, mentre è cieca a lunghezze d’onda superiori a 650 nanometri (il confine convenzionale tra il colore rosso e l’arancione). Non si deve pensare però che lo spettro visibile delle api sia composto di sette colori. Se Newton fosse stato un’ape avrebbe contato (sempre convenzionalmente) quattro colori: il colore A (650-500 nm), il colore B (500-480 nm), il colore C (480-400 nm), e il colore D (400-310 nm).
Gli occhi semplici possono essere con o senza lente. L’occhio privo di lente, chiamato stenoscopico, è simile nel funzionamento alla camera oscura. Un esempio biologico di occhio stenoscopico è quello del mollusco nautilo. Questo tipo di occhio comporta alcuni grossi problemi alla visione del mondo esterno.
Il primo problema è dato dal fenomeno della diffrazione. La diffrazione causa una sfocatura nell’immagine impressa sulla retina. Tale sfocatura aumenta tanto più il foro si riduce di diametro. Tuttavia per avere un’immagine nitida sulla retina il foro deve essere molto piccolo. Però se il foro è troppo piccolo la quantità di luce che passa all’interno dell’occhio è insufficiente per formare un’immagine chiara, in pratica un oggetto del mondo esterno (una possibile preda o un predatore) per essere visibile deve essere illuminato da una forte luce. Quindi si può immaginare un animale dotato di occhi stenoscopici stazionare in acque molto superficiali e solo di giorno.
Se si applica al forellino, praticato nella parete della camera oscura, una lente e sulla parete opposta si attacca una pellicola fotosensibile, la camera oscura si trasforma in una macchina fotografica. La pellicola fotosensibile è già presente nell’occhio stenoscopico (è la retina), manca solo la lente. L’occhio semplice dotato di lente si chiama occhio a camera.
L’occhio a camera è presente, in mille varianti e trasformazioni adattative, nei cordati, nei vertebrati, nei ragni saltatori, nei crostacei, negli insetti e anche in certe specie di meduse.
Scopo della lente, nell’occhio a camera, è di mettere a fuoco l’immagine del mondo esterno, sulla retina. Mettere a fuoco significa semplicemente flettere in modo opportuno i raggi luminosi provenienti dal mondo esterno in modo da farli convergere su uno stesso punto della retina.
Le prime lenti biologiche erano probabilmente sferiche, come quelle dei pesci attuali (la vita si è evoluta inizialmente nei mari). La lente sferica costruita dalla mano dell’uomo soffre del fenomeno fisico dell’aberrazione sferica: dati dei raggi paralleli diretti contro una lente più o meno sferica, questi sono deviati di più ai bordi della lente e meno al centro.
Il fisico James Clerk Maxwell scoprì, dopo una serie di esperimenti causati da una riflessione davanti a un piatto di aringhe a colazione, che gli occhi sferici dei pesci sono formati da un materiale non omogeneo. Tale materiale cambia di densità gradatamente dal centro alla periferia, dove ha un indice di rifrazione quasi uguale all’acqua. Questo materiale causa una differente deviazione dei raggi luminosi a seconda della zona della lente attraversata dal raggio, e un rallentamento della velocità della luce nella parte centrale, più densa, rispetto alla parte periferica della lente. Di fatto tutti i raggi luminosi passanti attraverso la lente sferica dell’occhio del pesce si focalizzano su uno stesso punto della retina, e quindi non c’è aberrazione sferica.
Allo stato attuale della ricerca paleontologica le prime testimonianze fossili di animali forniti di occhi a camera risalgono all’inizio dell’era Cambriana (circa 543 milioni di anni fa). Secondo una teoria formulata da Andrew Parker (2003) fu proprio l’invenzione dell’occhio a camera la causa dell’esplosione cambriana (la teoria dell’esplosione cambriana si deve a Stephen Jay Gould):

All’inzio del Cambriano [543 milioni di anni fa] comparvero negli oceani di tutto il globo trilobiti dotate di occhi e di zampe predatorie. Era nata la predazione attiva. [...] Durante il Precambriano i predatori di acque aperte erano quelle meduse che esploravano il mondo soprattutto attraverso il tatto. Un animale non ha alcuna possibilità di adattarsi al tatto, di impedire di essere toccato [...] L’esplosione cambriana riguarda esclusivamente le difese contro una predazione orientata dalla vista (2).

Secondo Parker una prova a sostegno della sua teoria è data dai fossili, i quali testimoniano che gli altri recettori sensoriali (tatto, olfatto, ecc.) si sono evoluti in modo graduale, prima e durante l’era Cambriana, mentre solo per l’occhio le evidenze paleontologiche mostrano un salto evolutivo all’inizio del Cambriano, con il repentino passaggio da un semplice tessuto di fotoricettori all’occhio a camera: «Questo balzo di efficienza è talmente spropositato da aver indotto Darwin a scegliere proprio l’occhio come la spina del fianco della teoria evolutiva» (3). Un’altra prova fornita da Parker è la seguente: un occhio privo di un tessuto nervoso abbastanza evoluto per rappresentare un’immagine del mondo esterno è inutile, quindi prima del salto evolutivo doveva essere già presente una rete nervosa e un certo spazio cerebrale abbastanza evoluto. Ma a che serve una rete nervosa e uno spazio cerebrale evoluto se l’animale non si rapporta in modo attivo con l’esterno? Quindi dovevano essere già presenti altri efficienti sensori, sviluppatisi prima del senso della vista, e quindi prima dell’esplosione cambriana. E infine la fotosensibilità che

è diversa dagli altri sensi a causa dello stimolo ad essa collegato, e cioè la luce. Nella maggior parte degli ambienti, la luce solare è presente, cosicché ogni animale vi lascia una sua firma ottica, la propria immagine. Questa immagine è già pronta per essere percepita. Perciò, per adattarsi alla vista, un animale deve sviluppare una risposta relativamente al proprio aspetto, sia essa una forma o un colore di avvertimento, un camuffamento o la tendenza a nascondersi dietro un riparo (4).

Per Parker «la luce è presente sulla Terra fin dalle sue origini; la vista è un adattamento alla luce e non esiste da sempre» (5). In altre parole il senso della vista, strettamente collegato all’evoluzione dell’occhio a camera, nasce in reazione ad uno stimolo non biologico ma fisico: la radiazione elettromagnetica; forse in risposta ad un innalzamento dell’intensità luminosa all’inizio del Cambriano. Dalle evidenze paleontologiche sembra che i cordati (antenati anche dell’uomo) presenti nel Cambriano fossero ciechi (ad esempio la Pikaia, rinvenuta in vari esemplari presso il sito di Burgess Shale datato al Cambriano medio, 505 milioni di anni fa, situato nel Yoho Parco Nazionale, presso le Montagne Rocciose, vicino la cittadina di Field in Columbia Britannica). Quindi si ipotizza che il primo occhio a camera (nei cordati) si sia evoluto in qualche fase interna al ramo dei cordati; la conclusione è che:

l’occhio non ha un’unica origine. Si è evoluto in più occasioni indipendenti, negli artropodi e nei cordati, e, a quanto pare, in epoche diverse della storia evolutiva [...] il phylum in cui per la prima volta sono comparsi gli occhi è quello degli artropodi (6).

Se le future testimonianze fossili non annulleranno questa teoria allora si dovrà ipotizzare un altro improvviso innalzamento dell’energia luminosa del Sole per spiegare il salto evolutivo e indipendente dell’occhio a camera nei cordati, o qualche altro fenomeno fisico.
Resta da risolvere il mistero dello sguardo della medusa. La medusa esiste da oltre 600 milioni di anni, ed è un animale praticamente trasparente, i raggi luminosi la attraversano quasi al 90%. Ma quando una medusa finisce sulla battigia e muore il suo corpo diventa rapidamente opaco, quindi la trasparenza è un adattamento necessario alla sopravvivenza nel mare (oggi come 600 milioni di anni fa). È stato osservato che le meduse catturate a grande profondità (750 metri sotto il livello del mare) hanno una trasparenza analoga a quelle raccolte quasi in superficie. Ma dov’è l’utilità della trasparenza in un mondo dove la radiazione luminosa è praticamente assente? A che scopo essere trasparenti in una stanza completamente al buio? Non basta, alcune specie di meduse possiedono ocelli e anche occhi a camera. Gli occhi a camera della medusa hanno un cristallino con un gradiente di rifrazione simile a quello dei pesci, quindi esente da aberrazione sferica.
Anche se occhi e ocelli si sono evoluti all’interno del ramo delle meduse rimane il fatto che le meduse sono prive di uno spazio cerebrale evoluto, quindi è un mistero la loro visione del mondo.
Ricapitolando: abbiamo una sofisticata macchina fotografica nelle mani di una creatura trasparente, chiusa all’interno di una stanza praticamente al buio. Ipotesi: forse la visione del mondo della medusa non coincide esattamente con quella dei maestri della fotografia.
Un’ultima domanda: i recettori degli artropodi all’inizio del Cambriano si sono coordinati per dare man forte al nuovo senso della vista, com’è che i recettori dei cordati sono rimasti con le mani in mano e lo sguardo perso nel vuoto?
Ora guardiamo il problema da un altro punto di vista. Al fisico Frederik W. Herschel (1738-1822) si deve il seguente esperimento: egli dispose vari termometri lungo un piano illuminato da uno spettro solare, e notò che i termometri posti al di fuori dello spettro solare, dalla parte del rosso, indicavano una temperatura maggiore rispetto agli altri posti sotto lo spettro solare.
Dunque vi sono dei raggi che non si vedono, e che il prisma devia, e scompone come quelli della luce; dunque nei fasci di luce solare, frammista alla luce rossa, gialla, verde e violetta, che colla sua miscela dà la luce bianca, vi è anche della «luce invisibile» (7).
Questa luce invisibile fu chiamata infrarosso. Un ultimo esperimento: se proiettiamo uno spettro solare sopra una lamina di nitrato d’argento l’annerimento che si verifica avviene anche al di là dello spettro, e questa volta dalla parte del colore violetto. E così che fu scoperta l’esistenza dell’ultravioletto.
È quindi lecito parlare di luce nera; una luce invisibile collocata al di là dei limiti dello spettro del visibile recepito dai nostri occhi.
Alla luce di queste esperienze si può affermare che la luce non era presente sulla Terra fin dalle sue origini. E concludere osservando che la luce è una conseguenza casuale dell’evoluzione dell’occhio (inteso come ricettore selettivo della radiazione elettromagnetica) e dello sviluppo del cervello:

Dobbiamo immaginarci un mondo esterno, in cui si trovano i corpi materiali, dotati di movimento, e di energia. Questo mondo dobbiamo pensarlo buio; privo di luce e di colore. I vari corpi debbono essere considerati come nubi di atomi che irradiano dell’energia, sotto forma di onde (o di fotoni, poco importa per il nostro scopo) di ogni lunghezza d’onda. Queste onde sono da considerarsi energia che si trasferisce da un corpo a un altro; perciò non sono né luminose, né colorate: sono tutte buio (8).

Un articolo scientifico di Bernard Soffer e David Lynch (9) pone in luce l’inconsistenza fisica della conclamata corrispondenza tra il picco della curva planckiana e lo spettro della luce visibile.
Max Planck (1858-1947) scoprì che un corpo opaco, portato all’incandescenza, emette radiazioni lungo tutto lo spettro elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi gamma, con un picco della curva più spostato verso il violetto quanto maggiore è la temperatura del corpo. Confrontando l’emissione di luce delle stelle alle varie lunghezze d’onda, con le curve di Planck, si può determinare la loro temperatura superficiale. Queste curve spiegano perché il Sole ha un massimo nel giallo-verde, corrispondente a una temperatura superficiale di circa 6000 gradi.
La massima sensibilità dell’occhio umano si ha verso i 555 nm (corrispondente a una luce di colore giallo-verde) proprio in corrispondenza con il picco della curva planckiana (560 nm), se espressa in funzione della lunghezza d’onda. Se però la stessa curva è disegnata in funzione della frequenza il massimo di emissione del Sole si ha nell’infrarosso (picco a 880 nm). E se la curva è espressa per numero di fotoni al secondo il picco si posiziona a 633 nm.
In altre parole il valore fisico della curva è dato dall’area della curva e non dalla curva stessa. Quindi la coincidenza tra il picco della curva planckiana e la massima sensibilità dell’occhio umano alla luce esiste solo quando la curva è espressa in funzione della lunghezza d’onda e non ha un significato fisico. Un altro colpo di piccone assestato al muro dell’antropocentrismo.
L’articolo di Bernard Soffer e David Lynch si conclude con un grafico degli spettri di trasmissione dell’acqua pura rilevati a diverse profondità (da un centimetro a dieci metri): le curve (prese a profondità a mano a mano maggiori) tendono sempre più ad avvicinarsi alla curva di sensibilità alla luce dell’occhio umano.
L’occhio a camera dei cordati si è formato grazie a uno strato d’acqua marina tra la lente e il Sole. Questo strato si è assottigliato nel corso del tempo, con la riduzione dei raggi ultravioletti grazie alla formazione dello scudo di ozono. L’occhio dei cordati e dei vertebrati conserva un sottilissimo velo d’acqua marina: il liquido lacrimale. Il cui effetto sarebbe simile, per la funzionalità dell’occhio nei vertebrati, a una goccia d’acqua che sparsa sopra un vetro finemente smerigliato lo rende trasparente (10).

Questo post è una sintesi di "Evoluzione di un senso" (da Opus incerta).

(1) Vasco Ronchi, «La Luce» in AAVV, Le opere e i giorni della creazione, Studium Christi, Roma, 1953, p. 47.
(2) Andrew Parker, In un batter d’occhio. La causa del più spettacolare evento nella storia della vita, (Zanichelli, 2005), p. 261.
(3) Andrew Parker, op. cit., p. 271.
(4) Andrew Parker, op. cit., p. 274.
(5) Andrew Parker, op. cit., p. 134.
(6) Andrew Parker, op. cit., p. 205.
(7) Vasco Ronchi, Storia della luce, (Laterza, 1983), p. 299.
(8) Vasco Ronchi, op. cit., p. 304.
(9) Bernard H. Soffer, David K. Lynch, «Some paradoxes, errors, and resolutions concerning the spectral optimization of human vision», in American Association of Physics Teachers, Vol. 67, No. 11, November 1999, pp. 946-953 (www.phys.ufl.edu/~hagen/phz4710/readings/AJPSofferLynch.pdf).
(10) Vasco Ronchi, «Sulla funzione ottica del liquido lacrimale», Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, estratto dal vol. IV, serie 6°, 2° sem., fasc. 10, Novembre 1926, in La genesi del «mondo apparente», (Leo S. Olschki, 1985), p.83.

venerdì 5 dicembre 2008

Kim and the Tramp

Correva l’anno 1846, e forse era una notte buia e tempestosa quella che vide per la prima volta nella storia di Firenze accendersi i lampioni a gas in una via dell'Oltrarno (per la cronaca Via Maggio). In illo tempore valeva il detto patti chiari amicizia lunga, e tra i patti che la Società erogatrice del gas doveva rispettare c’era quello che “si potesse leggere la Gazzetta di Firenze alla distanza di braccia 17 a 22 dalla fiammella del gaz” (1).
Molti fiorentini vollero fare la prova di persona (la Gazzetta quel giorno fu ben presto esaurita), e lo stesso Granduca Leopoldo II fu visto leggere una lettera sotto un lampione a gas. E’ facile, grazie a Wikipedia, risalire al valore del braccio fiorentino, che corrisponde a 0,583 metri, ne consegue che in Via Maggio già dall’anno 1846 si poteva leggere il giornale - o bere una gazzosa - alla distanza di almeno nove metri da un lampione a gas (anche se a questo punto una domanda sorge spontanea: quanti lampioni a gas furono piantati in Via Maggio in quell’anno memorabile?).
E per risparmiare il gas, e contemporaneamente controllare il bene operato della Società erogatrice del gas, il Comune decise di tenere spenti i lumi nelle notti di luna piena e di compilare un orario dell’accensione ed estinzione delle lanterne basato su una tavola del sorgere e tramontare della luna in loco, con una precisione tale che richiese il pagamento di Lire 80 ad un signore addetto all’Osservatorio delle Scuole Pie (strano ma vero, non fu istituita nessuna Commissione da sostituire successivamente con una Sotto-Commissione di controllo della prima).

Altri tempi, oggi usa illuminare le strade a lampioni alterni: uno acceso, uno spento (quello spento potrebbe anche essere finto). Vedi i vagabondi portatori di cani al guinzaglio nelle gelide mattine d’inverno muoversi a scatti tra la luce e l'oscurità, un'oscurità abbacinata dal barbaglio di luce persistente sulle retine degli occhi. E immersi in questa nebbia ottica tirano via e poi rallentano e di nuovo tirano via, nel tentativo quasi sempre disperato di far defecare il cane in prossimità di un lampione acceso (entro una distanza di braccia 17 a 22).

(1) G. Conti, Firenze Vecchia, 1899 (Giunti Marzocco, ristampa anastatica 1984), pag. 646.

domenica 30 novembre 2008

Realismo e forma urbana

Quando nel corso dell’Ottocento le spedizioni polari convinsero gli scienziati, al di là di ogni ragionevole dubbio e perplessità, che la Terra non assomiglia a una polpetta ma a uno sferoide lievemente schiacciato ai poli, e del fatto ne fecero partecipe il mondo, tale notizia cambiò per sempre la mentalità della gente, così che, per esempio, andare a vivere in Australia – o nelle Americhe - non sembrò più un fatto strano, innaturale, visto che su una quasi sfera stare qui o un po’ più in là è, relativamente parlando, la stessa cosa (il che non è per nulla vero se si ha la ventura di vivere su una polpetta).
Alla fine del secolo XVIII la misurazione del meridiano di Parigi impone come unità di misura universale un sottomultiplo del meridiano, il metro. La nuova unità di misura sostituisce le vecchie unità legate alla scala umana (il braccio, il piede, il pollice), così che “la misura degli spazi perde il riferimento ai movimenti umani” e “la prospettiva, che riguarda il controllo delle forme visibili, è assorbita nella geometria descrittiva di Monge, che rappresenta indifferentemente, su due dimensioni, tutto lo spazio tridimensionale” (1). La superficie terrestre, dove non era ancora passata la Storia ma solo la geografia, fu descritta e suddivisa in una griglia costante, orientata secondo i meridiani e i paralleli. I territori selvaggi, come un palcoscenico vuoto, erano così in attesa dei personaggi del mito e della Storia.
Nel frattempo il lavoro materiale, che dall’antichità fino alla fine del secolo XVIII era un accordo tra l’artigiano e il cliente, si spersonalizza e si trasforma in merce, e i clienti in consumatori: carne, stomaci e frattaglie e borse della spesa di carta riciclata o plastica, allevati per il benessere dell’industriale (tali e quali i polli che se non ci fossero i pollicultori ad allevarli razionalmente si sarebbero estinti da un bel dì, come ricordano gli onnivori ai vegetariani ignoranti).
A questo punto della Storia la città si era già trasformata in un teatro, con una divisione netta tra il privato, il dietro le quinte (le case, i palazzi, gli uffici, i ritrovi) e il suolo pubblico: “la pubblica via, il marciapiedi, dove ognuno si mescola con gli altri e non è più riconosciuto” (2).
Se all’inizio dell’Ottocento chi, dall’interno di un locale pubblico, guardando i passanti nella via poteva ancora indovinare, dai diversi atteggiamenti e vestiti, la categoria sociale di appartenenza di ogni singolo componente della folla, con il passare del tempo e il sopraggiungere della notte i diversi atteggiamenti e colori delle vesti si sarebbero uniformati nel grigio uniforme dell’Uomo della folla di E. A. Poe. E proprio allora in letteratura, e in seguito nell’arte figurativa, non viene più descritto il tipo sociale, la maschera, ma l’individuo, la persona unica ed irripetibile (come un mobile usato d'occasione?). Ecco un esempio di descrizione di un rigattiere, da un romanzo dell’epoca:

[...] e intanto arrancavo dolorosamente, quantunque il più veloce possibile, finché non capitai a passare dinanzi a una botteguccia, dov’era scritto che si acquistavano indumenti da donna e da uomo e che si facevano i prezzi migliori per cenci, ossa e grassume. Il padrone della bottega sedeva sulla porta in maniche di camicia, fumando; [...] Il signor Dolloby - Dolloby, almeno, era il nome scritto sulla porta - prese il panciotto, poggiò la pipa dritta contro lo stipite della soglia, entrò in bottega seguito da me, smoccolò con le dita le due candele, distese il panciotto sul banco e qui lo guardò, lo sollevò contro luce, tornò a guardarlo e disse alla fine:
- Cosa vi sembra che valga, via, questo corpettino?
- Oh, ve ne intendete di più voi, signore, - risposi con modestia.
- Non posso fare il compratore e il venditore insieme, - disse il signor Dolloby. - Fatemi una cifra per questo corpettino.
- Andrebbero trentasei soldi? - azzardai dopo qualche esitazione.
Il signor Dolloby l’arrotolò di nuovo e me lo tese: - Sarei un ladro in casa mia, - disse, - se ne offrissi diciotto (3).

E poche pagine dopo ecco un altro esempio di rigattiere:

- Oh che cosa vuoi? - ghignò il vecchio, con una cadenza selvaggia e lamentosa. - Santi occhi e santa carne, cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù gurù!
Mi prese un tale sbigottimento a queste parole, e specialmente alla ripetizione dell’ultima misteriosa che gli faceva in gola una specie di rantolo, che non seppi formare la risposta; al che il vecchio, sempre tenendomi per i capelli, ripeté:
- Oh che cosa vuoi? Santi occhi e santa carne, che cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù! - e stavolta se la strizzò di corpo con un’energia che gli fece sobbalzare gli occhi nella testa.
- Volevo sapere, - dissi tremando, - se comprereste una giacchetta.
- Oh, vediamo la giacchetta! - esclamò il vecchio. - Oh, santo cuore bruciato, mostraci la giacchetta! Santi occhi e santa carne, fuori la giacchetta! - Così dicendo staccò le sue mani tremanti, che parevano gli artigli di un uccellaccio, dai miei capelli; e s’inforcò un paio d’occhiali, per nulla decorativi, sui suoi occhi infiammati.
- Oh, quanto questa giacchetta? - esclamò il vecchio dopo che l’ebbe esaminata. - Oh! ... gurù!- quanto questa giacchetta?
- Mezza corona. - risposi, rimettendomi un po’.
- Oh, santi polmoni e fegato, - esclamò il vecchio, - no! Oh, santi occhi, no! Santa carne, no! Trentasei soldi. Gurù! (4)

Due figurine di rigattiere, una opposta l’altra, eppure le regole nel trattare gli affari sono le stesse. Questo realismo caricaturale, inteso come reazione alla spersonalizzazione (del lavoro e dell’unità di misura), era presente anche nella società del primo Ottocento. Ad esempio a Firenze certe persone più colorate di altre venivano immortalate in figurine, o addirittura in statuine di gesso che si vendevano liberamente per strada e decoravano i cassettoni.

Nel 1834 fra i più perseguitati era un tale, detto Zuccherino, che vendeva i biscottini e che aveva per male quando lo toccavano... sotto le reni [...] Un’altra vittima era un venditore di chicche, che quando passava tutti gli dicevano: - O becco! - poiché con questo bel nome soltanto era ormai conosciuto [...] C’era anche il Magnanino, che stava di bottega sull’angolo di Via de’ Cimatori, ubriaco puntualmente fino dalla mattina alle otto [...] Ponte era un ometto piccolo con una gran capelliera bianca, che andava sempre senza cappello come se avesse i calori anche d’inverno. Lo chiamavano Ponte, perché un giorno il vento gli portò il cappello in Arno, mentre attraversava il Ponte Santa Trinita: ed egli, stizzito, fece giuro di non portar mai più il cappello [...] Fra i tipi più curiosi e più buffi di cui si vendevano dai figurinai le caricature, i più noti erano Giorgino orefice del Ponte Vecchio, piccolo con le gambe torte, il viso lungo e una bazza smisurata; il principe Ruspoli, col collo lungo e d’una figura ridicolissima; il Michelagnoli, Commissario degli Innocenti chiamato per soprannome il re Erode, perché si diceva che le rendite le mangiasse tutte lui, e i fanciulli ivi ricoverati ne soffrissero [...] (5)

Era una reazione esasperata al grigio andante dell’Uomo della folla di Poe. E chi non riusciva proprio ad entrare nel nuovo mondo del lavoro, spersonalizzato e patentato (e al contempo aveva seri problemi ad usare la nuova unità di misura) non restava altro che emigrare nel Nuovo Mondo, e cangiarsi in un remoto:

Penso ora quanto fosse curioso, ma degno di Micawber, che, recandosi da Londra a Canterbury, parlasse come se andasse in capo al mondo, e, viaggiando dall’Inghilterra all’Australia, come se facesse una traversatina della Manica (6).

Mantenendo però sempre il cuore da questa parte dell’oceano:

Il signor Micawber può essere... non so nascondermi il fatto che probabilmente sarà... una pagina della Storia; e dovrà allora essere rappresentato nel paese che gli diede i natali e non gli diede un impiego! (7)

Parole profetiche per tanti cervelli in fuga (chi ha testa usi le gambe). Ma la figurina proletaria del mai rinunciatario signor Micawber verrà ben presto interiorizzata in personaggi psicologicamente approfonditi di impiegati inetti, fumatori incalliti, malati di noia, piattole introverse, su su (o giù giù) fino ad arrivare al film dell'industriale seduto su una panchina di un giardino qualunque, in una qualunque periferia post-industriale, che rimembra il suo tesssoro perduto per sempre.

(1) L. Benevolo, La città nella storia d’Europa (Economica Laterza, 1996), pag.163.
(2) L. Benevolo, op. cit., pag.178.
(3) C. Dickens, David Copperfield (Einaudi, traduzione di C. Pavese), pagg. 188-189.
(4) C. Dickens, op. cit., pagg. 192-193
(5) G. Conti, Firenze vecchia (1899, ristampa anastatica Giunti Marzocco 1984), pagg.470-471.
(6) C. Dickens, op. cit., pag. 805.
(7) C. Dickens, op. cit., pag. 808.

domenica 16 novembre 2008

Kim nella Terra di Mezzo



Ebbene sì, esiste proprio la Terra di mezzo, ed è piccola e abitata da anatre e conigli nani, si trova al confine tra Calenzano e Sesto Fiorentino ed è nota come Parco del Neto, e copre una superficie di appena 7 ettari (pensate, immaginate, come potrebbe essere un parco di 80 ettari).

La guida di “Firenze e Provincia” del Touring Club Italia (edizione 2005) compie imperturbata la sua opera di informazione e divulgazione sbrigandosela in due parole (ché una grande vasca decorativa ottagonale con absidi inscritte nei lati, originariamente ornata di sculture – manco ci sono più - , poco più in là già incalza): “Si lascia Sesto Fiorentino alla volta di Calenzano, imboccando, all’altezza dello stadio comunale, la via di Calenzano (provinciale 28), lungo la quale è la Villa Gamba “il Neto”, con giardino all’inglese del 1853” (TCI, p.618).

In ogni quartiere di città ci dovrebbe essere un giardino all’inglese, una terra di mezzo, come il Neto, che importa se gli alberelli, appena piantati, domani saranno piccolini e non faranno ombra neppure a un volpino nano, fra cent’anni ci sarà un ricco sottobosco, dove i cani (portati al guinzaglio) sgrufoleranno e scaveranno tra le foglie e il terriccio umide buche, e le radici saranno d’inciampo ai malaccorti e distratti. Certo, meglio uno stadio oggi che un parco domani. Anzi meglio un parco e lo stadio, meglio ancora un parco, uno stadio e un centro commerciale (e dai non siate ipocriti, meglio un parcheggio, lo stadio e un centro commerciale con tanti alberelli bonsai, ché i paperi non votano e i tifosi sì). E se poi lo stadio è fra le nuvole, anzi sembra proprio una nuvola, un nuvolone bianco di cemento armato che si vedrà e non si vedrà nascosto come sarà fra gli alberi del futuro parcheggio, che tanto vale non farlo proprio (il parco s’intende), ché anche i vespasiani devono essere ben visibili, poiché il tifo dei tifosi rientra tra le necessità fisiologiche del popolo che paga le tasse e vota (mentre i cani mica votano alle elezioni comunali e, infatti, a Sesto sparirà a breve il canile, e che i cani randagi si lecchino pure in quel posto), ma in fondo agli architetti deve essere lasciata facoltà di architetturare, comunque sia non sarà una nuova Disneyland, che orrore, ma semmai una Calciolandia in quel di Castello (punto)



(e a capo) Un cugino di Donald Duck sghignazza beato da qualche parte in mezzo allo stagno artificiale (che visto dall’alto ha il profilo di un’anatra ed è alimentato da acque sorgive). I calenzanesi e i sestesi donano alle anatre le molliche di pane (panem ai paperi e circen ai cristiani).

Al ritorno, in auto, Kim se ne sta con il muso appoggiato contro il mio ginocchio. Una radio locale, tra la pubblicità di lenzuola più bianche del bianco e banche canterine, c’informa del malore occorso al nostro Presidente del Consiglio, per fortuna, accanto c’era il suo medico personale. Guardiamo dal finestrino (il cielo è blu come in un racconto di Dickens). Che cosa mi dice di questo novembre? Era da un pezzo che non vedevamo un tempo così.

venerdì 7 novembre 2008

Ma Berlusconi è un comico o un umorista?

Devo fare una premessa – che farà anche le veci di un Disclaimer, cioè quel misto fra una dichiarazione d’alti valori e principi e un dirigenziale pararsi il culo, che solitamente si usa inserire (in alto o in basso) nei blog e nei siti web; la premessa si può riassumere in poche parole, anzi in una semplice affermazione: cg-cad non è un blog politico (se per politico s’intende di partito).
Dunque la domanda che funge da titolo a questo post non è demagogica, non è di parte, non è motivata da interessi di partito o addirittura da carità di Patria (più o meno pelosa), è una domanda neutra e oggettiva, senza secondi o terzi fini, una domanda che nasce dal desiderio di capire - se possibile nello spazio di questo post e nel tempo breve di questo pomeriggio d’autunno - se il nostro presidente del Consiglio è un umorista, un comico o semplicemente una persona arguta. Ecco il fatto, contingente, cioè uno dei tanti aneddoti che costellano la vita politica di Silvio Berlusconi:

(ANSA) - Moscow, November 6 - Italian Premier Silvio Berlusconi on Thursday called United States President-elect Barack Obama ''tanned''.
''Obama is young, handsome and also tanned, so he has all the qualities to agree with you,'' Berlusconi told Russian President Dmitry Medvedev.
As domestic opponents urged Berlusconi to issue an immediate apology, Berlusconi told a press conference that his ''tanned'' remark, construed by many as a gaffe, was ''a great compliment''. Berlusconi responded to a reporter's suggestion that the remark might be misunderstood by accusing his opponents of not having a sense of humour.
''God save us from imbeciles,'' he said.


E’ assodato, e si dovrà prenderlo come un assioma euclideo (ché altrimenti non sarà possibile proseguire nella lettura di questo post) il dato di fatto che B. è bravissimo a raccontare storie, è insomma un racconta storie (notare che ho scritto “racconta storie” e non raccontastorie che c’è una bella differenza, come bere il “caffè e latte” o bere il caffelatte; avrei potuto scrivere racconta-storie (che si pronuncia raccontastorie), per unire e nello stesso tempo dividere l’abilità di B. di raccontare le storie, e le storie, belle e brutte, che si lasciano raccontare da B., ma simili raffinatezze semantiche esulano dal contenuto di questo post, che, insomma, tratta di pasta e fagioli, o solo fagiuoli, con quel che segue), e visto che B. si è dichiarato fornito di sense of humour, al contrario degli imbecilli che non ridono delle sue battute, ma si fanno pure venire le borse agli occhi (oimena oimena, o che dirà di noi la gente), tanto vale quotare un maestro indiscusso nell’arte di raccontare storie:

La storia umoristica è tipicamente americana, la storia comica è inglese, la storia arguta è francese. L’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta, quello della storia comica o della storia arguta dal contenuto.
La storia umoristica può andare per le lunghe e uscire dal seminato quanto le pare, senza approdare sostanzialmente a nulla, mentre la storia comica e quella arguta devono essere brevi e avere una logica conclusione. (1)

E ancora:

La storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio. Il narratore di una storia umoristica deve fingere di non aver alcun sospetto circa la presenza di implicazioni buffe o divertenti in ciò che sta raccontando, mentre il narratore di una storia comica ti dice subito che si tratta di una delle cose più buffe che abbia mai sentito, dopodiché inizia a raccontare con grande trasporto ed è la prima persona a ridere alla fine della storia. E, talvolta, se ha successo, è così felice e soddisfatto da tornare più e più volte a ribadire il nocciolo della storia, facendo scorrere lo sguardo da una faccia all’altra per raccogliere consensi. Una scena davvero patetica. (2)

Ai nostri fini è sufficiente sottolineare le seguenti frasi: “l’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta” e “la storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio”, per dovere ammettere che B. non racconta storie umoristiche, e di conseguenza non è un umorista.
Resta da capire se B. è un comico o semplicemente una persona arguta.
Be’ il senso del comico è un po’ sottovalutato in Italia; eppure “comico” ha un significato più profondo di quello che solitamente gli si attribuisce.
Infatti, il comico confina con il tragico, come si vede bene nella maschera del grande Totò.
E la grande Flannery O’Connor, a proposito del suo romanzo La saggezza nel sangue affermava che è una storia comica. E non è una battuta. Per chiarire senza andare fuori tema quoto la citazione che Bruno Cicognani appose all’inizio della sua raccolta di novelle (3):

Che è l’uomo, o Signore, che Tu ne fai sì gran conto e volgi la Tua mente verso di lui,
che fin dal mattino continuamente l’osservi e a ogni istante lo scruti?
Fin a quando non distoglierai il Tuo sguardo da me, appena tanto ch’io possa inghiottire la mia saliva?
Giobbe, VII, 17, 18, 19.

C’è chi immagina (religiosamente) Giobbe, comico caduto in disgrazia, seduto sul monte di cenere della sua vita passata, e chi (laicamente) connette i neuroni alle immagini depositate nella memoria del ragionier Fantozzi con la salivazione a zero, e infine c’è chi in quel desiderio di potere inghiottire la saliva ci legge la tragedia dell’uomo mortale, giunto alla fine della vita.

Il discorso torna, al solito dipende dal punto di vista: il comico vive in prima persona gli eventi, e ride cattivo, mentre l’umorista ne è fintamente distaccato, e li descrive.
B. non è un comico, non è cattivo (lo disegnano così), non è mai caduto in disgrazia, non è un inferiore, non è un angariato (anche se si lamenta sempre di Giudici che lo perseguitano, quando non è occupato a raccontare ridente barzellette), di fatto si crede immortale.
A B. è sfuggito l’evento epocale, quindi c’è da temere che B. sia una persona normale, né comico né umorista, una semplice personcina arguta, uno spiritoso segnalibro messo tra le pagine della Storia.

(1) Mark Twain. Come raccontare una storia e l’arte di mentire (ed. Mattioli 1885), pag. 9.
(2) Op. cit., pag. 10
(3) Bruno Cicognani, Le novelle (ed. Vallecchi, 1955)

martedì 4 novembre 2008

Marinetti, se ci sei, batti un colpo!


Sulla rete è presente questo Manifesto che canta le connessioni.

Poi ci sono queste capsule del tempo che si moltiplicano, e spesso si perdono, nello spazio vuoto o nella memoria di un bambino. E spesso quando casualmente si ritrovano ci fanno fare il viso rosso, desiderare di non averle mai confezionate.

All'inizio del 1900, un gruppo di studentesse americane del Mount Holyoke college, in Massachusetts, sigillò una scatola di metallo destinata alle colleghe del lontano anno 2000. Una volta aperta, 100 anni e 20 minuti dopo (i minuti necessari ai fabbri per scardinarla), all'interno sono stati trovati un berretto universitario, programmi teatrali, una foto della classe 1900, alcune monete, un libretto d'esami e soprattutto un messaggio. "Se la scienza vi ha insegnato quello che molti credono sarà uno degli elementi più diffusi delle vostre conoscenze, ovvero il potere di comunicare con il mondo invisibile dal quale saremo osservando il vostro destino - recitava il testo - vi preghiamo di rispondere a questo messaggio" (1).

Una evidente connessione è con un bellissimo film di Carpenter - visto tempo fa, e di cui ora ricordo il titolo (Il Signore del Male) - dove c'è una squadra di ricercatori, tecnici, scienziati e operatori dell'occulto (cioè religiosi) che si insediano in una chiesa (appartenente alla confraternita del sonno; in pratica i frati pregano dormendo, e va be' questi sono speciali) al fine di studiare uno strano fluido verde (cioè il Male allo stato puro, un vero e proprio sciroppo di menta del Maligno), racchiuso in una capsula di cristallo chiusa ermeticamente. Tutti quelli che dormono (frati e laici) nei locali della chiesa fanno lo stesso sogno, che in realtà non è un sogno ma un messaggio trasmesso dal futuro.

Le studentesse americane del Mount Holyoke college e Carpenter potrebbero chiedere agli autori del Manifesto i diritti di ©.

Marinetti, se ci sei, batti un colpo.

Quadrati, triangoli e draghi quadrati

Nelle città degli umani qua e là fa capolino un ritaglio di verde. Alberi di città, tra un taglio e l’altro, fanno ombra ai passanti. Talvolta ci s’imbatte in giardini, con un laghetto dove nuotano neghittosi cigni e pesci rossi. Sotto i tetti e in alto sulle torri campanarie nidificano corvi e allocchi. I passerotti saltellano tra i piedi dei passanti a caccia grossa di briciole. Gli onnipresenti piccioni si becchettano avanzi e ruoli.
Anche nella nostra magica città esistono immensi spazi verdi dove si nascondono strane creature magiche (per qualche autoctono sono veri e propri mostri). Però qualche animaletto potrebbe vivere tranquillamente anche dentro una bolla di sapone, indifferente ai nostri concetti di alto e basso, davanti e dietro, sopra e sotto. Si potrebbe dire di questi animaletti che sono intrinsecamente assorti nei fatti loro. O forse che il loro metabolismo obbedisce alle regole di una geometria intrinseca.
Ma che vuol dire geometria intrinseca? Un rettangolo ha quattro angoli uguali, questo è un dato intrinseco al rettangolo. Ma se un rettangolo ha due lati verticali non è un dato intrinseco, poiché è necessario un sistema di riferimento per determinare quale direzione è da considerare verticale e quale orizzontale.
Anche voi volendo potete muovervi come un frattale intrinseco, e provare a mimare il suo comportamento. Per fare ciò dovete immaginarvi dentro uno spazio vuoto (o anche fuori di uno spazio pieno). Uno spazio privo di vincoli e punti di riferimento (alberi, case, torri, strade, colline, monti, segnali stradali, covoni di grano, spaventapasseri, ecc.) dove potete camminare liberamente. Una terra bruciata priva di cupi boschi frondosi, verdi colline ondulate e in lontananza campi di grano giallo, dove volano le albanelle; ma dove trovare un posto così? Potrebbe essere una spiaggia, davanti ad un nero mare cambriano.
Detto fatto, siete su quell’antica spiaggia (è giovedì) e siamo appena entrati nell’era Cambriana. All’improvviso un fulmine squarcia, per un istante, il cielo livido al tramonto; il rumore del tuono vi arriva all’orecchio stranamente attutito. Tanto per passare il tempo, nell’attesa d’immortale con la vostra macchina digitale il primo Eusthenopteron sulla battigia, decidete di fare un po’ di ginnastica intrinseca.
E come primo esercizio disegnate un quadrato camminando sulla sabbia. Dal guscio del trilobite, che avete appena mangiato (cotto in crosta), fate x passi avanzando dritti davanti a voi, poi girate a sinistra di 90° e avanzate di x passi, poi girate a sinistra di 90° e camminate per lo stesso numero di passi, infine girate un’ultima volta a sinistra di 90° e avanzate di un uguale numero di passi. Siete tornati al guscio del trilobite.
Come secondo esercizio provate a disegnare sulla sabbia (è meno faticoso) un semplice motivo frattale intrinseco. Disegnare un frattale a mano libera è semplice e complicato. Disegnare una Y è semplice: (1) disegnate una linea verticale; (2) girate a sinistra di 45°; (3) disegnate una linea lunga la metà della linea precedente; (4) tornate indietro al punto 2 e girate a destra di 45°; (5) disegnate una linea di lunghezza uguale alla linea disegnata al punto 3. Ora, trasformare la Y in un frattale intrinseco è invece assai complicato: dovete ripetere la procedura precedente partendo dagli estremi dei due bracci della Y, e tutte le volte le lunghezze delle tre linee, che formano il corpo delle Y, devono essere scalate della metà. Alla fine, dopo molte ripetizioni (e molte Y), vi avvicinerete al motivo frattale: un albero senza le foglie.
Per ottenere la curva di Koch a fiocco di neve dovete disegnare un triangolo equilatero, poi su ogni lato del triangolo disegnate una copia più piccola del triangolo di partenza, procedendo così fin che vi è possibile. Il risultato si avvicina a una figura geometrica frattale con un perimetro infinito, cioè due punti qualsiasi del perimetro, per quanto vicini, distano tra loro una distanza infinita. Anche se il perimetro misura una lunghezza infinita l’area racchiusa all’interno di questo triangolo è finita: 8/5 l’area del triangolo di partenza. Se si disegna sulla sabbia la curva di Koch non è facile riprodurre il frattale (ci vuole molta pazienza e precisione, e molto tempo a disposizione: tutto il tempo dell’era Cambriana).

Opus incerta

lunedì 3 novembre 2008

Ricordatevi di noi nell'anno 8113


We are food for worms, lads! Believe it or not. Each and every one of us in this room one day will stop breathing, turn cold, and die. Step forward and see these faces from the past. They were just like you are now. They believed they were destined for great things. Their eyes are full of hope. But you see, gentlemen, these boys are now fertilizing daffodils. If you listen real close, you will hear them whisper their legacy to you. Lean in. What do you hear? . Go on, lean in. Listen! You hear it? - Carpe - Hear it? - Carpe, Carpe diem! Seize the day, boys.
Make your lives extraordinary.

domenica 2 novembre 2008

In attesa dello zio d'Andromeda


"E’ maschio o femmina?" questa è la tipica domanda che un padrone di cane urla a un altro padrone di cane mai visto prima. Intanto i due cani si guardano, si annusano alla lontana, e tirano disperati il guinzaglio alla ricerca di un contatto, qualunque esso sia. E nonostante che l’anello di re Salomone non sia mai stato ritrovato si insiste a scandagliare il cielo stellato alla ricerca di un segnale di vita intelligente aliena. Anche se nell’improbabile, ma non impossibile, ipotesi di un contatto con gli alieni, noi (esseri umani) avremo a che fare con esseri pensanti che hanno meno in comune con noi di quanto noi abbiamo in comune con un ragno, e non solo a livello genetico (ché con i ragni abbiamo almeno un nonno materno in comune).
Charles Boys (l’autore di un testo classico della letteratura scientifica dell’Ottocento: Le bolle di sapone e le forze che le modellano) fece un esperimento con un ragno, un diapason e una mosca morta avvolta nella cera. Voleva scoprire se è possibile trarre in inganno i ragni. Dopo aver messo la mosca incerata su una foglia, fece vibrare il diapason e osservò i disperati tentativi del ragno di mangiare la mosca. Dopo aver tratto in inganno ripetutamente lo stesso ragno, Boys concluse che i ragni non imparano nulla dall’esperienza.
E noi, che non abbiamo nulla in comune, che non abbiamo mai mangiato la pappa assieme, di cosa parleremo con gli alieni? Del tempo che fa o delle ricorrenze di date di macelli? O di statali fannulloni e di studenti disperati ingannati dai baroni? Molto meglio tacere sorridendo, simulando così un minimo di intelligenza ed empatia.
Nel 1977 una commissione guidata da Carl Sagan ebbe l’incarico dal governo americano di interpellare "figure di rilievo mondiale, semiologi, pensatori, artisti, scienziati e scrittori di fantascienza chiedendo loro cosa poteva penetrare la coscienza di ascoltatori e spettatori inimmaginabili" (1). Il risultato fu il Voyager Golden Record , un disco fonografico inserito nelle due navicelle Voyager, lanciate nel 1977, e contenente suoni naturali e umani (per esempio il suono di un treno che passa accanto a un passaggio a livello), brani musicali, una breve frase di saluto in 55 lingue (compreso il sumerico e l’italiano, entrambe le frasi pronunciate da interpreti non di madrelingua) e 115 immagini. Una premessa necessaria e vincolante era (è) che gli alieni hanno le orecchie e occhi in grado di vedere nello spettro visibile. Che poi riescano a capire qualcosa del contenuto del disco è un altro discorso, comunque insieme al disco fu inserita nella navetta anche 1 testina di lettura e le istruzioni per l’uso, scritte in geroglifico.
Voyager 1 tra 40.000 anni sarà in prossimità dell'Orsa Minore, Voyager 2 in vista della costellazione di Andromeda. Abbiamo ancora un po’ di tempo per imparare a memoria una poesia di benvenuto.

(1) A. Weisman, Il mondo senza di noi (Einaudi), pag. 302

sabato 1 novembre 2008

Un'immagine in fuga (2)

Nel post precedente ho scritto che un’immagine vale 10000 parole (anche mille, è sottinteso, grazie), ma che però queste parole prima o poi bisognerà pronunciarle, anche se alle ciance logorroiche di tizio e alle articolate riflessioni di caio si preferisce un semplice sì o no.
Certo la realtà non si mostra in bianco e nero, ma in multicolor, almeno 16.777.216 colori. Ma infine si chiede solo di palesare un giudizio in merito all’immagine del post precedente. Anche perché il giudizio precede comunque le parole, tante o poche che siano. Infatti, il giudizio è già presente nella visione dell’immagine, non si scappa (dal giudizio, s’intende). C’è chi nell’immagine vede un mariuolo, chi un discolo da mettere sulla buona strada, chi ci vede uno zoom (un particolare) di una folla in fuga dai mutanti, licantropi, ponti in fiamme sul Tamigi, terremoti, inondazioni, trombe d’aria e banche canterine.
OK, ma esiste anche il pregiudizio, che cos'è? forse un giudizio che precede il giudizio presente nell'atto della visione?
C'è un romanzo di Saramago dove tutti gli esseri umani (meno uno) perdono la vista, solo che invece di "vedere" tutto nero vedono tutto bianco. Tutta la "realtà visibile" si cancella e affonda in un mare di nebbia. Ora, il pregiudizio è in pratica indistinguibile dal giudizio una volta esternato con le parole. Nel libro di Saramago tutti prendono consapevolezza di questa cecità (meno una persona) al giudizio, questa consapevolezza è come un virus. Quoto da Wikipedia:

In psicologia biologica, con il termine consapevolezza (inglese awareness) si intende la percezione e la reazione cognitiva di un animale al verificarsi di una certa condizione o di un evento. La consapevolezza non implica necessariamente la comprensione.

Torniamo all'immagine. E' possibile ricavare un contenuto oggettivo da un'immagine, quale essa sia, valido per tutti e in tutti i mondi presenti, passati e futuri? Insomma un fatto, un dato certo e misurabile con una tolleranza di errore (in più e in meno).
Io penso proprio di no. Un'immagine che si crede un fatto (non falsificabile) è un'immagine certo eroica ma anche morta, le immagini vive sono quelle in fuga, cioè quelle che hanno "paura" (o come ha detto Paolo Poli: al cinema e in guerra i posti in prima fila sono quelli peggiori).

Lo scopo di una nassa è di catturare i pesci e quando i pesci sono stati presi la nassa viene dimenticata. Lo scopo di una trappola per conigli è di catturare i conigli, catturati i conigli la trappola viene dimenticata. Lo scopo delle parole è di trasmettere idee, afferrate le idee, le parole vengono dimenticate. Dove posso trovare un uomo che ha dimenticato le parole? E' l'unico con cui mi piacerebbe parlare. (Walker Percy)

giovedì 30 ottobre 2008

Un'immagine in fuga

L’immagine di copertina dell’edizione integrale di Oliver Twist, edito nella collana “Biblioteca Economica Newton” (traduzione di Mario Martino), mostra un ragazzino in un frame di una corsa o rincorsa o fuga da qualcosa o da qualcuno; forse dalla miseria, dalla delinquenza di strada, da zie adottive (adottanti?) che vorrebbero rigenerarlo. Un ragazzino alla ricerca di territori abitati da indiani selvaggi e pirati e mutanti licantropi, ovvero di un semplice biglietto di sola andata per le rosse colline di Marte.

Un’immagine, come usa dire, vale diecimila parole, però queste parole prima o poi bisognerà pronunciarle, anche se alle ciance logorroiche di tizio e alle articolate riflessioni di caio sarebbe preferibile un semplice sì o no. Certo la realtà non si mostra in bianco e nero, ma in multicolor, almeno 16.777.216 colori. Ma infine si chiede solo di palesare un giudizio in merito (all’immagine). Anche perché il giudizio precede comunque le parole, tante o poche che siano. Infatti, il giudizio è già presente nella visione dell’immagine, non si scappa (dal giudizio, s’intende). C’è chi nell’immagine vede un mariuolo, chi un discolo da mettere sulla buona strada, chi vede uno zoom, un particolare di una folla in fuga dai mutanti, licantropi, ponti in fiamme sul Tamigi, terremoti, inondazioni, trombe d’aria e banche canterine.

Com’è che nella letteratura di lingua inglese c’è (quasi sempre) questa figurina di ragazzo in corsa, in fuga da qualcuno o da qualcosa? Da Charles Dickens a Mark Twain, da Bruce Springsteen a Walter Hill e Danny Boyle, ecc. Certe volte corre da solo, a piedi, in auto, in bicicletta, su un monopattino a rimorchio d'un furgoncino, sopra o sotto il treno (più raramente seduto dentro); altre volte corre in compagnia, di una ragazza, della famiglia tradizionale, allargata, ristretta; corre con la nonna e il gatto in una cesta, con l’amico, l’amica, un passante grullo per strada.

E com’è che la nostra letteratura, non tanto quella persa dietro i tartari e i grulli ma questa che pesa e pesa con il bilancino del farmacista il vissuto quotidiano di zoppine e smemorati, innamorati persi allucchettati, piccoli industriali panchinati, è sempre (quasi) ferma? Eppure si muovono queste immobili figurinette nere. Immobili in mobili scivolano lievi sotto i semafori gialli, fischiettando Yellow Submarine. Se una colpa c’è non è della letteratura o del cinema o della TV o della carta stampata e digitale e neppure di nonno Felice. E' certo, la colpa è della automobile che vive una vita autonoma e ‘sta volta ha deciso di passare col giallo; la colpa è delle macchine in genere, della tecnologia. E c’è chi mi dà conferma a questa teoria sbarazzina, il tapiro che solleva ambo le mani dal volante in un pio gesto di rassegnato fatalismo, e passa.
Le macchine sono tutte perfette e immortali, fino alla prossima rottamazione.

Ma anche nel nostro Bel Paese (accanto alle nostre banane caramellate e al nostro ossobuco di mela) esiste una minoranza di disperati che convinta che le manganellate in testa non aiutano a crescere e a maturare (e fanno pure male) liberamente sceglie la fuga.

La tramvia a Firenze: piccolo slogan con copyright

Un piccolo slogan contro la tramvia a Firenze, con copyright (che non me l'abbia a fregare Razzanelli). Si parte dalle seguenti premesse tutte vere, tutte false (come vi pare):

La tramvia è lenta, è un fatto. La velocità della tramvia è di circa 20 km/s mentre la velocità della metropolitana è di circa 45 km/s. Molto meglio la metropolitana, si arriva prima, e già che ci siamo interriamo pure il traffico veicolare lungo i viali (proposta del candidato del centro-destra alle elezioni del sindaco).

La tramvia è veloce, è un fatto. Le ruote di ferro della tramvia scorrendo rapide sulle rotaie provocano il distacco di microscopiche particelle ferrose che se respirate sono altamente pericolose per i bronchi dei non fumatori e per chi indossa lenti a contatto (fumatori e portatori di occhiali sono esenti).

La tramvia è rumorosa, è un fatto. Cercate un binario in aperta campagna e aspettate, alla distanza di un metro, il passaggio dell’InterCity e poi fatta l’esperienza pensatelo mentre corre lungo le strette vie del centro storico: una bomba.

La tramvia è silenziosa, è un fatto. Sarà così perniciosamente silenziosa che piomberà come un falco alle spalle dei poveri ciclisti (oddio chi la fa l’aspetti); cani ridotti a fette di mortadella causeranno insulti cardiaci o bestemmie ai padroni sprovvisti di guinzaglio.

Soprattutto la tramvia è un pugno nell’occhio. E’ PKG (Puro Kattivo Gusto). Alla fine la parola passa ai critici d’arte, visto che Firenze è città d’arte. Ma cos’è il Buon Gusto? Qui ci soccorre una pagina di critica d’arte che ha fatto, di fatto, scuola anche a Mondrian:

Devi liberarti per sempre dalla parola Immaginazione. Non ha niente a che fare con te. In nessun oggetto pratico od ornamentale dovrà esserci alcunché di incompatibile coi fatti. Se, di fatto, non cammini sui fiori, non ti sarà permesso di camminare sui fiori d’un tappeto; se, di fatto, non vedi mai strani uccelli e farfalle prendere dimora sulle nostre suppellettili, non ti sarà permesso di dipingerli lì; se, di fatto, non incontri mai quadrupedi che se ne vanno a spasso sui muri; non li si dovrà rappresentare su quegli stessi muri. Per tutti questi scopi dovrai invece usare combinazioni e variazioni, nei colori fondamentali, di rapporti matematici suscettibili di prova e dimostrazione. Questa è la nuova scoperta. Questi sono fatti. Questo è il Buon Gusto (1).

C’è mai stata la tramvia per le strade del centro di Firenze? No! Be’ sì, il tram, sì, ma già nel 1958 La Pira (Il Sindaco dei Fiorentini) la fece eliminare perché inutile, obsoleta e pericolosa. E anche questo è un fatto portato a difesa del No alla tramvia, ma pare che:

...fino al 1958, il tram [aveva] già "invaso" la piazza del Duomo seguendo lo stesso itinerario che oggi viene riproposto; nessun intellettuale fiorentino elevò all’epoca alcuna protesta e proprio il sindaco la Pira acconsentì a malincuore (come egli disse in un discorso al consiglio comunale di Firenze) alla dismissione della più importante ed estesa rete di tramvia urbana che ci fosse allora in Italia, a causa della necessità "di modernizzare la città, rendendola più accessibile all’uso dell’auto privata." (2)

Ma basta con le premesse e con i fatti, ecco lo slogan:

Se non cammini sui fiori non puoi veramente volere la tramvia a Firenze ©.

(1) Charles Dickens, Tempi difficili (Biblioteca Economica Newton) pag. 30.
(2) >Verso il referendum sulla tramvia di Firenze

domenica 19 ottobre 2008

Piero Calamandrei come George Orwell

Ho sempre pensato che alcuni scrittori italiani non hanno nulla da perdere nel confronto con i grandi scrittori contemporanei: Umberto Eco (il cane senza anima, straziato da una scienza bastarda, umile protagonista - con il grande assente Galileo - dell'Isola del giorno prima) con José Saramago (dal cane delle scalette di S. Crispim al cane delle lacrime, fino al cane Trovato); Flannery O'Connor con Federigo Tozzi e Bruno Cicognani; Sam Savage con Claudio Ciccarone (l'ho letto su La Repubblica); Walker Percy con ............ (va be' scrivete voi un nome al posto dei puntini). Ma che Piero Calamandrei fosse uno scrittore di fantascienza al livello di George Orwell non ci avevo mai pensato.

Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private (1).


(1) Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950. Il discorso completo qui.

giovedì 16 ottobre 2008

La colmata di Firenze

Un link per chi cerca un riassunto (al 14 ottobre 2008) alla storia recente dell'urbanizzazione di Castello. Dal famoso no di Occhetto alle nuvole di cemento di Fuksas: Castello, specchio dell'urbanistica fiorentina.

martedì 14 ottobre 2008

Stadio o "funzione stadio"?

Il 1 ottobre la Giunta comunale di Firenze ha messo il semaforo sul giallo andante (Adelante Pedro, con juicio!) per il trasferimento dello stadio di calcio dal quartiere di Campo di Marte - che verrà “rigenerato” - all’area di Castello (l´area di proprietà della Fondiaria dove, secondo le previsioni urbanistiche attuali, dovrebbero sorgere un parco pubblico di 80 ettari, la nuova sede di Provincia e Regione, numerosi appartamenti e uffici). O meglio, quello che viene trasferito è la “funzione stadio” perché lo Stadio "Franchi" non può essere demolito, in quanto opera vincolata, né può essere smontato e rimontato come una costruzione Lego. Questa decisione ha subito, a monte, pochissime critiche nella maggioranza, ma una assai colorita, quella espressa ai microfoni di Controradio dall’assessore alla cultura Giovanni Gozzini:

E' un'operazione molto scorretta al limite dell'illegalità. La mia opinione molto sfumata è che i Della Valle possono arrotolare il loro progetto e ficcarselo su per le trombe del così detto (1).

Così si esprimeva l’assessore alla cultura la mattina, ma con il sopraggiungere delle ombre lunghe della sera apportatrice di refrigerio e miglior consiglio, così chiosava:

Da 21 anni parlo nella mia trasmissione a Controradio da privato cittadino di cose che non conosco e di cui non mi occupo e intendo continuare a farlo. Credo sia necessario scindere le due cose: assessore e vita privata. L'assessore Gozzini in giunta seguirà quello che dicono il sindaco e l'assessore all'Urbanistica Gianni Biagi che sono competenti e hanno seguito il progetto e in giunta voterò a favore dell'inserimento dello stadio nell'area di Castello. Sarà un voto di squadra e convinto perché Firenze ha bisogno di spostare lo stadio e la Fiorentina ha bisogno di un nuovo impianto (2).

Il giorno dopo l'assessore si era dimesso. Quindi, tutti d’accordo per il nuovo stadio, anche quelli che non erano (sono) d’accordo, tutti i presenti e anche gli assenti e gli ex (maschi, femmine e cantanti), a maggior ragione quelli che non hanno alcun dubbio, come il presidente della Provincia di Firenze, Matteo Renzi:

A viso aperto dico a tutti i cittadini che la Fiorentina è viola, non appartiene a nessun colore politico. Impegniamoci tutti affinché lo stadio si faccia. Basta con le chiacchiere, passiamo ai fatti, perché il progetto è una grande operazione per Firenze. Farò di tutto perché lo stadio si faccia senza se e senza ma (3).

A parte il fatto che simili affermazioni non si possono fare che a viso aperto (avesse detto mai un nuovo stadio, mai! devono passare sul mio cadavere, ecc.) c'è un ma. C’è un ma? Ma! Ma ne vogliamo parlare? e parliamone (tanto per la cronaca): il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, ci tiene a precisare che non si è mai detto favorevole al progetto dei fratelli Della Valle (4). Progetto che comprende, oltre lo stadio (la ciliegina sulla torta), centri commerciali, musei, sale espositive, negozi sottoterra, alberghi, e via andare. Una specie di Calciolandia (per non dire Disneyland, ché qualche esteta ignorante - di Topolino - si potrebbe anche offendere).
Insomma stadio (nudo e crudo) o “funzione stadio”? questo è il problema. Dove finisce lo stadio e inizia la funzione mistica del tifoso?
Come al solito nel nostro Bel Paese le sguaiate critiche, le balzane autocritiche e le stoiche dimissioni ('sta volta non respinte al mittente) facevano passare sotto silenzio gli interventi seri, come per esempio l’intervento del 22 settembre del capogruppo di Unaltracittà/Unaltromondo:

La normativa vigente è chiara: in questi casi la legge regionale 1/2005 richiede una nuova fase di adozione, con pubblicazione e possibilità di compiere osservazioni da parte dei cittadini. Né può la Giunta procedere con controdeduzioni aggiuntive […] L’occasione di compiacere i Della Valle e i tanti tifosi viola è stata colta al volo, e infatti abbiamo assistito al coro unanime di approvazione da parte di tutti i candidati a sindaco del PD [ma se lo stadio deve essere costruito allora] i costi ricadano completamente a carico dell’ACF Fiorentina [e] se Castello dovesse essere l’area scelta per il nuovo stadio, non deve essere sacrificato il grande polmone-verde lasciando a Fondiaria-Sai la costruzione del milione e 300.000 metri cubi previsti e per cui il parco era una compensazione. Se necessario, l’unica strada da percorrere è quella di ridimensionare le volumetrie previste nel piano Fondiaria (5).

Ma poi è davvero necessario un nuovo stadio?
Comunque (forse) “le controdeduzioni aggiuntive” del 1 ottobre sono state motivate dai seguenti limiti del vecchio stadio: una forma a “D” con forte limitazione nella visibilità; la presenza di un anello di atletica leggera con arretramento delle curve; non è coperto né si può coprire (in quanto vincolato); il quartiere di Campo di Marte è densamente abitato (6). Vero è che negli anni 30 tutti portavano il cappello e Campo di Marte era quasi aperta campagna, ma insomma oggi, come si suol dire, siamo nel XXI secolo!

(1) (Adnkronos) – 22 settembre 2008
(2) http://it.notizie.yahoo.com/adnkxml/20080922/tit-firenze-assessore-gozzini-progetto-n-afde0ec.html
(3) (ASCA) - Firenze, 22 settembre 2008
(4) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/30/via-libera-castello-ma-solo-per-lo.html
(5) Comunicato stampa dell'intervento di O. De Zordo (Ufficio stampa, Comune Firenze)
(6) P. Ignesti Bellezza vs funzionalità nello stadio “Franchi” a Firenze, in OPERE 21 (giugno 2008).

venerdì 10 ottobre 2008

Si può considerare la superfetazione edilizia una droga?

Si definisce superfetazione edilizia quella parte aggiunta a un edificio, dopo la sua ultimazione, il cui carattere anomalo sia tale da compromettere la tipologia o da guastare l'aspetto estetico dell'edificio stesso, o anche dell'ambiente circostante.
La facciata del Duomo di Firenze si può considerare una superfetazione edilizia? Forse sì (a livello teorico, estetico).
La droga, sinonimo di sostanza psicoattiva, è una sostanza in grado di agire sui processi cerebrali e sugli stati psicologici.
Si può considerare la superfetazione edilizia una droga? Forse sì. Infatti, turisti e cittadini si sono così adattati alla facciata del Duomo che una minoranza querula di questi paventa il passaggio della tramvia ché l'effetto - della droga - sarebbe sciupato (per tacere delle terribili vibrazioni).
Certo, meglio sarebbe per la visione buttare giù la superfetazione ottocentesca e mirare la bellezza di un treno del XXI secolo che scorre sotto la facciata nuda del Duomo.
Ma non si può avere tutto.

lunedì 6 ottobre 2008

Orografia di avere (seconda puntata)

Un errore capitale, di quelli che fanno piangere (e ridere) gli insegnanti, è scrivere "a piovuto", anzi doppio errore, perché l’uso corretto sarebbe "è piovuto".
Mica vero, per esempio Cicognani ligio alla proposta del Congresso (1911) della Società Ortografica Italiana di sostituire ho, hai, ha e hanno con ò, ài, à, ànno (1) iniziava così Il figurinaio e le figurine:

Siccome io ò più capelli d’Assalonne e porto anche la barba come un cappuccino, ma non ò parrucchiere fisso odiando ogni ritorno - (e poi le botteguccie dei "coiffeurs" a quattro soldi la barba, a dieci la barba e i capelli, conservano ancora un loro fàscino per me da quando giovinetto, a San Niccolò, abbonato a una di quelle, ingannavo la impazienza dell’aspettare il mio turno a furia di partite a "dama" con un lattaio campione in quel gioco innocente come l’acqua che lui mesceva nel latte scremato e spannato) - spesso mi avviene d’aver la testa che pare un cespuglio; l’ardente roveto di Mosè avendo io gli occhi sempre accesi dal fòco che custodisco geloso perché mi divori, continuo, dentro, il cattivo. Ma non m’è permesso di portar così a giro per troppo tempo una testa roveto ardente - che volete? la gente non à simpatia per certe figurazioni bibliche e poi non ci arriva: invece è pronta a supporre la realtà più volgare e presente (mi sono spiegato abbastanza?) (2).

Certo oggi Bruno Cicognani è uno scrittore estinto, non lo pubblica più nessuno, mica è Bruno Vespa, però fa sempre colpo se beccati in fallo vi giustificate chiamando a vostra difesa Cicognani (e in fondo un accento scordato nella penna è un errore minore).
Per la pioggia prendetevi per ombrello Federigo Tozzi che scriveva sia "Oggi ha piovuto" sia "E’ piovuto in cantina anche oggi" (3). E che il cercatore di regole si allontani o taccia per sempre se non sente che "Ha piovuto in cantina anche oggi" pare una frase detta da uno che è stato tutto il giorno giù in cantina a cercar funghi.

(1) L. Serianni, Italiano (le Garzantine) pag. 32
(2) B. Cicognani, Il figurinaio e le figurine (Vallecchi, Terza Edizione 1929), pag.9.
(3) L. Serianni Prima lezione di grammatica (Laterza), pag.144.

domenica 5 ottobre 2008

Orografia di avere (prima puntata)

C’è un romanzo di Umberto Eco intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), ma visto e letto il libro avrebbe potuto chiamarsi anche Il figurinaio e le figurine (dove il figurinaio è ovviamente l’olimpico Yambo) se non fosse che il titolo era già stato scelto ottantaquattro anni prima da Bruno Cicognani per una raccolta di storielle e raccontini. Sono bozzetti e figurine su Firenze e dintorni. I libri di Bruno Cicognani non sono più ristampati, probabilmente il suo cristianesimo è passato di moda (anche se di libri su Cristo e/o Gesù se ne stampano 1 ogni 15 giorni). Qualche copia insiste in una vita di stenti nel sottoscala di librerie non specializzate in libri scolastici, come un cisposo Harry Potter prima dell’illuminazione. In Internet si trova anche meno (ed è tutto dire!): un racconto, un articolo sull'uso di dare del Lei o del Voi, e poco altro. Ora, chi ha letto il racconto della bicicletta penserà a un Palazzeschi un po’ più abbuiato, e chi ha letto Il figurinaio e le figurine al Dickens del Circolo Pickwick (se non è già morto di vecchiaia). Ecco un esempio:

[...] Dopo un certo tempo non si fece più vedere, la signora Assunta, e non si fece più viva: il suo posto nella mia curiosità lo presero altre persone finché un giorno si seppe che era all’ospedale in Via S. Gallo, letto 112.
Mia madre corse e mi portò seco "- io non passo però -" "- m’aspetterai giù -". Arrivati all’ospedale - quel cortiletto: un chiostro in miniatura, con in mezzo la pianta che l’empie - mia madre, col suo garbino, domandò al portiere: "il letto 112?"
E un pappino in gabbanella che passava con in mano una ciotola di brodo urlò "mòrtaaa!" come avrebbe urlato "tombola!" (1).

Notate come Cicognani estrae dalla bustina del raccontino La Signora Assunta la rara, anzi unica, figurina della madre "col suo garbino" e la dozzinale figurina del pappino (comunque bene informato e tutto volenteroso); oggi nessuno scrive più così, neppure Umberto Eco che pure ha scritto un romanzo illustrato.
Solo per restare in tema con il blog osservate anche il "chiostro in miniatura con in mezzo la pianta che l’empie".
Embè? e questo che c’entra con l’ortografia del verbo avere? La risposta alla prossima puntata.

(1) B. Cicognani, Il figurinaio e le figurine (1920), Vallecchi (terza edizione, 1929), pp. 46-47.


venerdì 3 ottobre 2008

Vecchio come il cucco

Si dice di un oggetto o di un essere animato che sia vecchio come il cucco quando è di molto, ma di molto, vecchio. Il cucco funge da termine di paragone per datare un oggetto: un macinino del caffè, una macchina per cucire a manovella, ecc. Notare che questo modo di dire è usato solo in senso peggiorativo, se non dispregiativo. Infatti, non usa dire che un Commodore 64 con 48 K di Ram capace di generare il grafico a fil di ferro di una sinusoide dopo appena cinquanta minuti di calcolo è vecchio come il cucco, ma di un vecchio e obsoleto PC 486 certamente sì.
Analogo ragionamento per un essere animato: il cane incontinente dei vicini di casa, il gatto nevrastenico della zia, il famoso professore emerito e ottuagenario, di cui ora mi sfugge il nome, ecc. Notare come l’attribuzione del simpatico modo di dire ad esseri forniti di un’anima sia sempre relativo e soggettivo: i vicini, il nipote, gli assistenti giovani del barbogio, ecc.
Una domanda sorge a questo punto spontanea: ma quanto è vecchio il cucco? E’ possibile trovare su eBay un cucco usato ma in buono stato? E come riconoscere un cucco originale da una vile imitazione, solo dal prezzo esoso? O esistono parametri oggettivi, razionali, una lista tipologica del cucco. E l’esperienza sul campo aiuta? Come quella che consente, ad esempio, di distinguere un fungo porcino da un fungo che sembra commestibile, all’occhio del profano, ma non lo è. Esistono cucchi velenosi?
Per trovare una risposta a queste domande si deve, per prima cosa, sgombrare il campo da un equivoco, duro a morire e vecchio come il cucco: il cucco non è un oggetto, il cucco non è un essere animato. Il cucco è un monte, meglio era un colle, anzi era una collina situata nei dintorni della Firenze antica, nell’Oltrarno. Poco dopo la metà del XV secolo, sul pendio di quella collina, chiamata per l’appunto Montecucco, fu fatto costruire da tal Luca Pitti, pare su progetto del Brunelleschi, un palazzo che da allora in poi fu sempre conosciuto come Palazzo Pitti, nonostante i molteplici passaggi di proprietà (vi abitò anche Vittorio Emanuele II). Si potrebbe quindi affermare che il macinino del caffè è vecchio almeno quanto Palazzo Pitti. Ma si può andare ancora più indietro nel tempo. Sembra che Luca Pitti fece pesare tutta la sua autorità per ottenere i permessi necessari per l’edificazione del suo palazzo (ché non poteva vivere altrimenti). In quel tempo di Rinascimento incipiente la carenza di abitazioni popolari era già notevole, ciò nonostante Luca Pitti fece demolire le case che esistevano su Montecucco. I proprietari delle case, invitati a far fagotto delle loro 4 prugne (un altro modo di dire) e sgomberare, non ebbero né un compenso né un nuovo alloggio: prendeva campo una consuetudine, vecchia come il cucco.
Le macerie di quelle case costituiscono di fatto il terminus post quem per datare il nostro macinino del caffè e il cane dei vicini, mentre Palazzo Pitti è il terminus ante quem del cucco.

martedì 30 settembre 2008

Il mondo senza di noi

Il mondo senza di noi, di Alan Weisman, numero 1 nelle classifiche di vendita americane per diversi mesi, descrive un mondo (appunto) senza di noi. L’intento è poetico il risultato è prosaico.
L’autore parte dalla premessa che per distruggere un fienile è sufficiente fare un buco di un centinaio di centimetri quadrati nel tetto del fienile, e poi stare a guardare (se a bocca aperta non è scritto). Il giorno dopo la scomparsa dell’uomo la natura già prende il sopravvento (e senza incentivi): un esile filo d’erba lasciato a sé stesso si trasforma, piano piano, anno dopo anno, in un possente albero che sbriciola il marciapiede, passano gli anni, l’albero cade sulla strada. Chi non ha interesse per la cosa pubblica si comporta nei fatti come la natura. Il lettore però non si deve aspettare fantasie da dopobomba o dopovirus (o da dopolavoro, quando seduti in tram, con gli occhi che dolcemente si chiudono, vediamo gli alberelli stenti del giardino che ci passa accanto invadere la strada con le auto accartocciate rosse di ruggine), perché il saggio è abitato da scienziati seriosi e preoccupati, ma con la barbetta brizzolata, e snelli e giovanili a più di cinquant’anni, e con occhi che disegnano una mezzaluna quando riflettono, che si stringono nelle spalle, e forse si torcono le mani, non so, non ho letto tutto il libro. Un libro che va avanti e indietro, zooma nel passato e poi nel futuro, e non ti lascia il tempo di fantasticare su occhi bianchi sul pianeta Terra e licantropi, e alla fine, stringi stringi, la tesi che sostiene è che non resterà niente dell’opera dell’uomo (quando l’uomo sarà scomparso): un po’ poco.
Tuttavia il libro fa riflettere, per esempio fa capire perché d’estate il turista italiano alla ricerca di emozioni forti si risveglia abbarbicato sul K2, aspettando l’elicottero di soccorso. Infatti, nelle prime pagine è descritto un “tesoro biologico intatto”, un “residuo della foresta primordiale che un tempo si estendeva fino alla Siberia e a ovest fino all’Irlanda”, un luogo inviolato e selvaggio più delle montagne del Tibet. Il punto è come diavolo si pronuncia Bialowieza Puszcza!? (Conosciuta anche col nome di Belaveskaja Pušča (Белавеская пушча) o Belovežskaja Pušča in Bielorussia e Puszcza Białowieska in Polonia, come da Wikipedia, e non è che aiuta).

Animali dopo l'uomo

Nel 1982 è uscita la traduzione italiana di After Man, a zoology of the future (Animali dopo l’uomo. Manuale di zoologia del futuro) di Dougal Dixon. La storia illustrata della vita sulla Terra 50 milioni di anni dopo la scomparsa dell’uomo. In questa storia straordinaria l’uomo è come se non fosse mai esistito, i topi di città si sono differenziati in molteplici specie, anche la Statua della Libertà si è dissolta in polvere e non emerge dalla sabbia come nel Pianeta delle Scimmie, e se qualche osso e cranio fossile di Homo sapiens sapiens giace sotto i sedimenti be’ è muto e paziente almeno quanto il povero Yorick.
Purtroppo anche il libro si è estinto, probabilmente non era il numero 1 nella classifiche di vendita americane e di conseguenza non è stato più ristampato, forse qualche copia fossile si trova su Maremagnum.com, ma non ci giurerei.

lunedì 29 settembre 2008

La macchina fotografica di Filippo di Ser Brunellesco

I nostri antenati si sono evoluti sugli alberi (checché ne pensino i predicatori creazionisti), ma al contrario di Scrat lo scoiattolo dell’Era glaciale, erano onnivori: si cibavano di frutta, semi, insetti e piccoli vertebrati, per esempio lucertole. L’antenato del predicatore creazionista, in agguato nell’ombra verde delle foglie, sapeva approfittare con lodevole talento delle zampe anteriori per agguantare una lucertola, e sapeva valutare bene le distanze per balzare da un ramo all’altro senza fare un capitombolo nel vuoto. Una valutazione precisa delle distanze presuppone la visione binoculare, cioè mettere a fuoco entrambi gli occhi su un oggetto vicino, e per farlo è necessario che gli occhi siano posti nella parte frontale del cranio. Guardando un oggetto da due diversi punti di vista otteniamo due immagini, impresse sulle retine. Se l’oggetto è lontano, come per esempio il cielo stellato, le due immagini sono uguali e non percepiamo la profondità, se invece l’oggetto è vicino, le due immagini sulle retine sono leggermente diverse. Ad esempio se fissiamo un portamatite, posto sul tavolo davanti a noi, chiudendo ora l’uno ora l’altro occhio, vediamo (o con l’occhio destro o con il sinistro) un lato scorciato del portamatite. Se guardiamo il portamatite con entrambi gli occhi le due immagini si fondono nel cervello in un’immagine in rilievo; quando questa fusione nel cervello non avviene, si parla allora di diplopia, oppure di una sbornia. Per vedere le due immagini reali di un oggetto, per esempio una matita posta sul tavolo, con entrambi gli occhi (e senza doversi attaccare al fiasco di vino), è sufficiente porre tra la matita e gli occhi il dito indice, se si mette a fuoco il dito si vedranno due matite, se invece si fissa la matita si vedranno due dita.
In modo analogo da due fotografie scattate da due punti di vista leggermente diversi è possibile, con uno strumento chiamato stereoscopio, ottenere l’illusione del rilievo. Il metodo migliore per visualizzare immagini in rilievo su uno schermo di computer è quello degli anaglifi.
L’anaglifo è un’immagine di due figure leggermente sovrapposte, una di colore rosso e l’altra di colore ciano. L’immagine di sinistra è codificata in rosso (è privata dei colori verde e blu dello spazio RGB), mentre l’immagine di destra è privata del solo colore rosso, quindi assume un colore ciano (verde più blu), dopo di ciò si procede con la sovrapposizione in un’unica immagine. Per vedere l’immagine in rilievo sono necessari degli speciali occhialini di plastica o cartoncino, con una lente rossa e l’altra blu.
Le immagini tridimensionali di sintesi, realizzate con programmi di modellazione e rendering, non danno l’illusione del rilievo come gli anaglifi, tuttavia consentono, grazie alle immagini di render, di ottenere molte più informazioni sulla scena stessa. Un modello tridimensionale è un oggetto virtuale, quindi prima di essere sottoposto a rendering deve essere illuminato con un modello di illuminazione.
La scoperta e la prima esemplificazione pratica della prospettiva sono opera di Filippo Brunelleschi (1377-1446); la teorizzazione della prospettiva è invece merito di Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo Trattato della pittura del 1435. La prima opera prospettica del Brunelleschi è una tavoletta quadrata di 30 cm di lato, raffigurante il Battistero di San Giovanni a Firenze, dipinta sul finire del primo quarto del Quattrocento. L’opera è andata perduta, e l’unica testimonianza sicura è la descrizione fatta dal biografo del Brunelleschi, Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), autore di una Vita di Brunellesco; anche il Vasari, nelle Vite, accenna alla tavoletta prospettica:

Attese molto alla prospettiva allora molto in male uso adoperata per molte falsità che vi si facevano. Nella quale perse molto tempo, perfino che egli trovò da sé un modo che ella potesse venir giusta e perfetta, che fu il levarla con la pianta e proffilo e per via della intersegazione, cosa veramente ingegnosissima et utile all’arte del disegno. Di questa prese tanta vaghezza, che di sua mano ritrasse la piazza di Santo Giovanni, con tutti quegli spartimenti della incrostatura murati di marmi neri e bianchi, che diminuivano con una grazia singolare, e similmente fece la casa della Misericordia, con le botteghe de’ cialdonai e la volta de’ Pecori e da l’altra banda la colonna di Santo Zanobi (1).

Il fondo della tavoletta, dietro il Battistero e le case accanto, era in «ariento brunito», così da specchiare il cielo e le nuvole. Per far coincidere il punto di vista dell’osservatore col punto centrale della prospettiva Brunelleschi praticò un foro nella tavoletta, in corrispondenza del punto centrico. La visione del dipinto avveniva in questo modo: l’osservatore doveva tenere la tavoletta voltata con una mano e accostare il foro ad un occhio, con l’altra mano reggeva uno specchio, nel quale, attraverso il foro, vedeva il dipinto. Lo storico dell’arte Battisti ha direttamente sperimentato la visione prospettica descritta dal Manetti:

Sì è potuto rifare l’esperimento, mediante specchio e macchina fotografica, o mediante tavoletta e specchio. I risultati comprovano, assolutamente, l’esattezza del racconto del Biografo. La tavoletta che corrisponde alla veduta reale è, come egli dice, di mezzo braccio quadrato, con base equivalente a circa cm 36,6 e l’altezza uguale a circa 46,5 centimetri (lievi modifiche dipendono da varianti nell’altezza dell’osservatore), l’angolo visivo è di circa 45°, il dipinto risulta in scala di 1:75, la distanza reale del riguardante dal Battistero è di 60 braccia, quella fra dipinto e specchio è perfettamente in scala, cioè un braccio (2).

In seguito gli artisti sperimentano la camera oscura. La camera oscura è descritta per esempio nel Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. I cinesi furono probabilmente i primi a scoprire che se si pratica un forellino in una parete di una stanza, tenuta completamente al buio, sulla parete opposta alla parete forata si forma l’immagine capovolta del mondo esterno.
Il modello geometrico più semplice della formazione dell’immagine è la macchina fotografica a foro di spillo, in altre parole la camera oscura. Se P è un punto della scena, con coordinate (X, Y, Z) e P’ la sua proiezione sul piano immagine (la parete opposta al foro d’ingresso della luce) con coordinate (x’, y’, z’), e se f è la distanza dal foro (chiamato centro di proiezione) al piano immagine, allora le coordinate del punto P’, vale a dire la sua proiezione prospettica, sono date dalle seguenti espressioni:

x’=-fX/Z

y’=-fY/Z

z’=-f

L’immagine è invertita rispetto alla scena, come indicato dal segno meno. L’Alberti fu il primo a suggerire di spostare il piano immagine davanti al centro di proiezione per eliminare il segno meno dalle espressioni. La divisione per Z è responsabile dell’effetto di scorcio.

(Opus incerta, 2007)


(1) Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Einaudi, 1991, p. 279.
(2) E. Battisti, Filippo Brunelleschi, Milano 1976, citato in Renzo L. Beltrame, «Storia del costituirsi di un modo mentale. La prospettiva rinascimentale», Rapporto CNUCE C97-24, Dicembre 1997 (Rev. Novembre 1998), p. 40.

venerdì 26 settembre 2008

Vertigini

Il professor Lidenbrock, in compagnia del suo giovane nipote, è a Copenaghen, penultima tappa terrena prima del viaggio fino al centro della Terra. Il professore decide di guarire le vertigini del nipote trascinandolo sul campanile della Vor-Frelsers-Kirk:

"Andiamo su", disse mio zio.
"E le vertigini?", obiettai.
"Ragione di più: occorre abituarsi."
"Però..."
"Vieni ti dico: non perdiamo tempo."
Dovetti obbedire. Un guardiano, che abitava dalla parte opposta della via, ci porse le chiavi, e l'ascensione cominciò. Mio zio mi precedeva con passo svelto, e io lo seguivo non senza terrore poiché mi girava la testa con deplorevole facilità. Non avevo né l'equilibrio, né i nervi insensibili dell'aquila. Finché fummo imprigionati nella parte inferiore, tutto andò bene; ma dopo centocinquanta scalini l'aria venne a colpirmi in viso: eravamo arrivati alla piattaforma del campanile, dove cominciava la scala aerea, che aveva la sola difesa di una fragile ringhiera, e i cui scalini pareva portassero su verso l'infinito [...] L'aria aperta mi stordiva, sentivo il campanile oscillare alle raffiche; le gambe mi si piegavano sotto; dovetti arrampicarmi strisciando sulle ginocchia, poi sul ventre... Chiusi gli occhi; provavo le vertigini. Finalmente, aiutato dallo zio che mi tirava per il bavero, arrivai presso la palla.
"Guarda!", mi disse il professore. "Guarda bene!... Bisogna prendere lezioni di abisso."
Dovetti aprire gli occhi. Vedevo le cose appiattite e come schiacciate in una caduta, immerse in una nebbia fumosa. Al di sopra della mia testa passavano le nuvole fioccose che, per un rovesciamento di ottica, mi parevano immobili, mentre il campanile,la palla e io eravamo trasportati con fantastica velocità. Lontano, da una parte si stendeva la campagna verdeggiante, dall’altra il mare scintillava sotto un fascio di raggi. Il Sund si volgeva alla punta di Elsinore, con alcune vele bianche, vere ali di gabbiani, e, nella bruma dell’Est ondulavano le coste appena visibili della Svezia. Tutta quell’immensità turbinava sotto il mio sguardo. Pur tuttavia dovetti alzarmi, tenermi ritto, e guardare. La mia prima lezione contro le vertigini durò un'ora. Quando alla fine mi fu permesso di ridiscendere e di toccare col piede il pavimento solido della via, ero tutto indolenzito.
"Riprenderemo domani", disse il professore.
E infatti per cinque giorni ripresi quell'esercizio vertiginoso e, volente o nolente, feci progressi nell'arte dell'"alta contemplazione"
(1).

Qualche anno dopo Mark Twain, in giro per l’Europa, decide di salire sulla Torre di Pisa:

A Pisa salimmo in cima alla costruzione più strana che il mondo conosca: la Torre pendente.
Come tutti sanno, è alta centottanta piedi e vi prego di osservare che questa è l'altezza di quattro normali abitazioni di tre piani, messe una sopra l'altra; è un'altezza considerevole anche per una torre massiccia e compatta che si levi diritta. La Torre di Pisa invece è inclinata più di tredici piedi. Ha settecento anni, ma né la storia, né la tradizione riportano se fu costruita così o se un fianco ha ceduto. Nessun documento dice se sia stata mai diritta. E’ di marmo e la sua struttura è elegante. Ciascuno dei suoi otto piani ha tutto un giro di colonne scanalate di marmo o di granito, con capitelli corinzi, di sicuro belli quand’erano nuovi. E’ una torre campanaria con in cima un concerto di antiche campane. Dentro, la scala a chiocciola è buia, lascia sempre intendere su quale fianco della torre vi trovate, pendendo naturalmente da una parte o dall'altra della scala, a seconda che siate sul fianco più alto o più basso. Alcuni gradini sono logori solo da una parte, altri dalla parte opposta, altri ancora solo nel mezzo. Guardando giù dall'alto, all'interno, vi pare di osservare un pozzo inclinato. Una fune che pende dal centro della sommità tocca la parete prima di raggiungere il fondo. In cima non vi sentite proprio a vostro agio guardando dalla parte più alta; ma se strisciate sul parapetto fino all'orlo della parte più bassa e tentate di allungare il collo per vedere la base della Torre, vi viene la pelle d'oca e siete sicuri, per un momento, nonostante la vostra scienza, che la Torre stia crollando. Vi reggete con le mani con grande prudenza, avendo la sciocca impressione, per il tempo che ci restate, che, se non sta già crollando, il vostro trascurabile peso potrebbe darle l'avvio
(2).

Premesso che il professor Lidenbrock è il classico zio che nessun nipote vorrebbe avere come zio è da notare il diverso punto di vista nei due autori. In Verne il punto di vista è panoramico: il campanile della Vor-Frelsers-Kirk è un centro relativo (il campanile è scelto solo perché è il più alto tra i campanili della città, e quindi utile ai fini del professore), e tutt’attorno si estende a perdita d’occhio la periferia. Per un “rovesciamento di ottica” le nuvole sono immobili e il campanile si sposta con “fantastica velocità”. Non è l’altezza a generare le vertigini ma questa esperienza di relatività.
Nella descrizione della Torre di Pisa il paesaggio è azzerato, non esiste, esiste solo un dentro e un fuori la Torre, come una città medievale cinta dalle mura. Le vertigini sono causate da un’insostenibile pesantezza dell’essere. E l’unico rimedio è il non essere. Se per Verne il mondo è una stanza, uno studio, un museo, un’aula, un laboratorio che il viaggiatore prima o poi impara a conoscere, a dominare, ad usare (e poi lasciare, preferibilmente in ordine come si è trovato), per Mark Twain il mondo è una misteriosa soffitta, piena di cose polverose ed inutili, ammassate in un ordine, o disordine, casuale. Eppure la nostra presenza, per quanto minima, non passa inosservata, le pietre della Torre serbano il ricordo delle impronte dei passi dei pellegrini.

(1) Jules Verne, Viaggio al centro della terra, Newton.
(2) Mark Twain, Gli innocenti all’estero, BUR.