domenica 27 dicembre 2009

Anabasi di una frase (parte VI)

L’affumicatura è una forma di cottura lenta (come la bollitura), ma niente si frappone tra il fuoco e la carne, se non l’aria, dunque l’affumicatura è una tecnica simile all’arrostimento (cottura veloce). La differenza fra le due tecniche dipende dallo strato d’aria tra l’alimento e il fuoco: nell’arrostimento è minimo, nell’affumicatura è massimo. “Per affumicare la selvaggina, gli Indios sudamericani, per i quali questa è la tecnica culinaria preferita, costruiscono un traliccio di legno, detto boucan, alto circa un metro e mezzo; dopo averci sistemato la carne, mantengono sotto di esso un fuoco lentissimo di 48 ore o più” (1).

Il boucan è un oggetto culturale, mentre lo spiedo per l’arrosto è un semplice bastone di legno, un oggetto naturale, anche se, in una nota, Lévi-Strauss aggiunge che “sarebbe poco prudente generalizzare, perché gli Indios dell’Oregon veneravano in modo particolare i bastoni appuntiti che servivano da spiedo e che ai loro occhi si opponevano al recipiente nel quale mettevano le pietre riscaldate per ottenere l’ebollizione (recipiente che spesso era costruito da un semplice pezzo di corteccia adattata alla meglio) ” (2).

Un semplice bastone appuntito può diventare un oggetto culturale. Lévi-Strauss osserva che alcuni churinga australiani (piccole lastre di pietra o di legno incise con motivi astratti, simboli dell’antenato mitico), e tra i più preziosi, non sono decorati, e non sono neppure manufatti, infatti, anche un masso naturale o un albero può essere un churinga. Lévi-Strauss li assimila ai nostri “documenti d’archivio”.



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Documenti “che noi chiudiamo nei forzieri o affidiamo alla segreta custodia dei notai e che di tanto in tanto esaminiamo con i modi dovuti alle cose sacre, per restaurarli se necessario, o per riporli in cartelle più eleganti. In simili occasioni anche a noi piace recitare i grandi miti, la cui memoria è ravvivata dalla contemplazione delle pagine strappate e ingiallite: fatti e gesta dei nostri antenati, storia delle nostre dimore, dalla loro costruzione o dal momento in cui furono cedute” (3). A chi ipotizza la sacralità dei churinga perché recano, inciso o disegnato, il contrassegno totemico, Lévi-Strauss risponde con una felice similitudine: “Un documento non diventa sacro per il solo fatto di portare un timbro prestigioso, per esempio quello degli Archivi Nazionali: esso porta il timbro perché prima è stato riconosciuto sacro, e anche senza lo resterebbe ugualmente” (4). Inutile quindi ammantare i churinga di un carattere sacro e magico perché sono maneggiati da officianti, decorati da incisioni (i timbri totemici), e spalmati (restaurati) con ocra rossa: “quando un’usanza esotica ci attira a dispetto (o a cagione) della sua apparente singolarità, il motivo generalmente sta nel fatto che ci suggerisce, come fosse uno specchio deformante, un’immagine familiare che riconosciamo confusamente come tale senza però riuscire a identificarla” (5).

Il boucan si approssima, strutturalmente parlando, alla pentola per il bollito, ma non è la stessa cosa, mettere dentro la pentola del lesso poveri polli o bambini cattivi non è come mettere sopra un traliccio di legno le oloturie, o sopra le pareti calde di un forno la pasta di farina di grano o di mais (pizza & tortilla). Esiste un’opposizione tra la bollitura e l'affumicatura, che si riverbera nell’uso dei due strumenti culturali. La pentola si conserva, si tramanda agli eredi, si lava dopo l’uso – ma non sempre – comunque la si usa con cura e rispetto, il boucan invece “deve essere distrutto immediatamente dopo l’uso, altrimenti l’animale si vendicherebbe e verrebbe a sua volta ad affumicare il cacciatore” (6). Impossibile immaginare un’oloturia assassina, che si vendica dell’affumicatura, perseguitando l’affumicatore, viceversa il cinema horror di serie B è pieno di bambini cattivi e maligni, affogati ma redivivi, non-morti, ecc., che da sotto l’acqua o da sotto il letto afferrano e tirano i piedi del povero turista, vittima predestinata perché all’oscuro degli usi e costumi locali, da qui l’abitudine del turista scafato (e di 007), appena preso possesso di una camera d’albergo, di guardare sotto il letto e nella tazza del wc. L’oloturia può generare incubi, come il sogno della ragione, solo se di dimensione XXL, come una specie di gelatinoso Blob. E' evidente una razionalizzazione nel pensiero del selvaggio per giustificare l'opposizione.

Siamo alla frutta, ma prima di chiudere il post, ancora qualche parola sull’opposizione gusto / disgusto. E’ innegabile che ci disgusta qualcosa che ha un sapore sgradevole e nauseante. Questo “qualcosa” è come la cosa di Carpenter è proteiforme. Il dottor disgusto, come il suo cugino, il signor gusto, è un elemento relativo alla nostra educazione e alla nostra evoluzione culturale e biologica, insomma quando eravamo sugli alberi, dondolando appesi per la coda, i nostri gusti e relativi disgusti erano probabilmente diversi, ma non necessariamente agli antipodi. Un bel ragno grosso e peloso, sulla parete di una grotta o su un ramo di un albero, comunque nel suo ambiente naturale, non ci disgusta, anzi l’osserviamo con l’occhio attento ed indagatore di Linneo, lo stesso ragno che si spidocchia sopra il cuscino del letto turberebbe anche la coscienza d'Indiana Jones (e imperlerebbe di gocce di sudore la faccia del primo 007), dunque il disgusto è conseguenza di come ci poniamo nello spazio rispetto alla cosa. Scrive Charles Darwin: “Nella Terra del Fuoco un indigeno toccò con un dito la carne fredda conservata che io stavo mangiando nel bivacco, e sentendola tenera manifestò chiaramente un estremo disgusto; mentre allo stesso tempo io fui molto disgustato dal fatto che il mio pasto fosse stato toccato da un selvaggio nudo, benché le sue mani non sembrassero sporche” (7). Poco dopo Darwin rincara la dose notando che “una sbrodolatura di minestra nella barba di un uomo ci disgusta, benché non ci sia evidentemente niente di disgustoso nella minestra in sé stessa” (8). Sagge parole, una minestrina calda non fa che bene. Esiste, dunque, una connessione tra l’atto di mangiare e la cosa mangiata in situazioni e spazi non adatti al mangiare. In una grotta, messi alle strette, si mangia anche un ragno, suvvia. Ma chi leccherebbe la minestra sbrodolata sulla barba di un uomo? Un cane. Chi vive con un cane, sa che il cane fa spesso cose inimmaginabili, indescrivibili, e di cui non si pente affatto, e tuttavia noi avviciniamo fiduciosi la nostra faccia al suo muso peloso e adorante (e leccante, di solito). Poi magari facciamo il bagno nell'amuchina gel dopo essere stati cinque minuti in tram. Il nostro comune amico Darwin qualche pagina più in là del fondamentale saggio L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) fa un’osservazione molto interessante, Darwin nota che alcune persone hanno il vomito facile, hanno una specie d’ottovolante incorporato nello stomaco, scatta un pulsante e via mostrano al mondo, a parenti amici e sconosciuti assortiti cosa hanno mangiato, insomma sono persone facilmente portate a "rimettere il desinare", al solo vago pensiero di aver mangiato o anche di poter mangiare un cibo insolito, ma non è questa l’osservazione interessante, accanto a questa osservazione c’è un fatto, dato per certo a Darwin da un certo signor Sutton di Londra, che le scimmie del giardino zoologico vomitano spesso pur essendo in buona salute, ciò spinge il grande naturalista a pensare che questo atto potrebbe essere volontario. Darwin è un re dello stagno, sa che uno più uno fa solitamente due, e ipotizza che i nostri comuni progenitori dovevano avere la capacità di rigurgitare volontariamente il cibo non adatto per loro, capacità che si è poi persa con la codificazione delle prime forme di linguaggio. E' rimasta però, come un simpatico corollario, l’usanza di sputare in terra o di mostrare la lingua, per palesare una forma di disgusto. Ma qui l’osservazione di Darwin è datata, infatti, scrive che “l’atto di portare fuori la lingua per espellere dalla bocca qualcosa di sgradevole può spiegare perché in tutto il mondo tirare fuori la lingua è un modo di esprimere il disprezzo e l’odio” (9). Dopo Einstein che mostra la lingua al fotografo e il rocker che sputa, come un lama andino, sul fan in adorazione mistica, o la mitica frase di Zucchero al portatore del tapiro, quest’ultima osservazione di Darwin è per forza di cose datata, ahimè. Anche l’atto di sputare in faccia alle persone, si è un po’ ingentilito col tempo, ma mica tanto, ed è comunque sempre associato a fatti che vanno contro tutte le regole del vivere civile (ad esempio non pagare i debiti ma esigere il pagamento dei crediti, usanza cara al nostro don Abbondio). Ecco un altro calzante esempio.

- Come hai saputo dei gioielli?
- La gente parla.
- Che persona ripugnante. Usare il sacro sacramento della confessione per perseguire i propri interessi.
- Non proprio.
- Be’, sei la creatura più spregevole che abbia mai avuto la sfortuna di conoscere!



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Il viaggio attorno allo svelamento di una frase misteriosa di Verne si è così concluso.

(1) C. Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, 1971, p. 437.
(2) C. Lévi-Strauss. OBMT, p. 465.
(3) C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1979, p. 260.
(4) C. Lévi-Strauss, PS, p. 261.
(5) C. Lévi-Strauss, PS, p. 260.
(6) C. Lévi-Strauss. OBMT, p. 437.
(7) C. Darwin, L’espressione delle emozioni, Boringhieri, 1982, pp. 327-328.
(8) C. Darwin, EE, p. 328.
(9) C. Darwin, EE, p. 330.

(*) Il mistero delle dodici sedie, Mel Brooks

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sabato 26 dicembre 2009

Commento a un commento ai PS (n. 6)

E con questo fanno 100 post. Ho vinto qualcosa? Eh? che ho vinto? una statuetta in gesso della torre di Pisa!?

Sempre dal capitolo quinto dei Promessi Sposi. Padre Cristoforo è dentro il palazzotto di don Rodrigo. Tra strida di mastini e cagnolini, borbottii, flatulenze e meteorismi vari di un vecchio servitore sgrullo, e le argute ciacole dei due bravi caccolosi alla porta, il padre è finalmente introdotto al cospetto del magnifico signore, don Rodrigo (‘a bestia). La bestia è al pasto con i soliti quattro amiconi del bar (il conte Attilio, il signor podestà, il dottor Azzecca-garbugli, e due convitati oscuri che pensano solo a sbafare, trincare, ghignare a questo e a quello e a dir di sì col capo), e dunque son cinque gli amici. Padre C. ha interrotto, involontariamente, una piacevole conversazione seicentesca, quasi una discussione, pare un litigio dalle urla, insomma una questione che gira attorno ad un dubbio più che legittimo, che parrebbe di lana caprina. Ma i quattro vedono entrare la tonaca di padre C., si darebbero di gomito se il Galateo non lo proibisse tra gentiluomini qual sono, e ne approfittano subito per farla arbitra della questione (la tonaca del frate cappuccino):

"[…] “Il fatto è questo,” cominciava a gridare il conte Attilio.
“Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino”, riprese don Rodrigo. “Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere, il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta…”
“Ben date, (28) ben applicate,” gridò il conte Attilio. “Fu una vera ispirazione.”
“Del demonio”, soggiunse il podestà. “Battere un ambasciatore! persona sacra!…” […]”

(28) Ben date, ecc. Quanta naturalezza in questa interruzione, che riapre la discussione!

La questione ruota sulla “licenza”, il messaggero (secondo l’autorità del Tasso, “che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria”) doveva chiedere la licenza di parlare liberamente, non l’ha fatto il tapino o il superbioso, questo la storia non dice se tapino o superbioso, e si becca secche le quattro bastonate sulla schiena, assaggia la legna dei boschi padronali come un servo qualunque. Vedi bene che tanto fumantini i nostri antenati non erano mica, sembrano vivere come bestie nello strame di un secolo di merda, e invece eccoli lì lucidi e svegli, a ragionare in punta di fioretto, con i codici alla mano, anche quando hanno il viso rosso dall’ira e il fiato grosso. Come non dare ragione al conte Attilio, come non dare torto al signor podestà. E padre C.? obbligato a dire la sua cincischia sommessamente che non ci dovrebbero essere né sfide, né portatori, né bastonate. Ma in che secolo crede di vivere padre C.?, forse nel secolo XXI, e in Italia? Uno come padre C. è nato in anticipo di quattro secoli almeno, oggi sarebbe l’ospite d’onore tra gli ospiti delle trasmissioni di Costanzo, Vespa, Santoro & soci. Che son tutti bontà e divozione.
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Breve ma veridica storia delle religioni (le lamentazioni rituali)

Salve. Ammetto alla seconda che voi siate convinti, senza che io ci spenda parole, che l’origine del mondo è solo un problema di spin, prima viene lo spin poi tutto il resto, lo spin e il tram otto barrato rosso destinazione rocca delle lumache, è ovvio; non ci credete? Guardate Trottolino, come trottola per afferrare per la coda l’otto barrato rosso che sta passando in anticipo, o in ritardo, di cinquanta minuti sull’orario di transito, guardatelo come salta su e dà di gomito e spinge. Che il buon figliuolo si tenga d’occhio. Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo dirgli che stanotte l’otto barrato rosso ha rotto l’argine ed è tracimato, mutata è la rotta del conducente ondivago, la sua meta preferita pare sia il pian della tortilla, anche se non univoca.

E' un tardo pomeriggio di dicembre, tra monte Morello e Pian de’ Giullari, il centro della città è bloccato in una morsa di ferro, macchine guidate da vesciconi gonfi sfilano in fila indiana o longobarda, sta piovendo tre o quattro gocce nere da un cielo blu oltremare, ‘un la bevere via!, ed ecco tutto si ferma, come un insetto nell’ambra, come un cristallo di ghiaccio. La gente disfatta, quanta ce n’è ad aspettare sfatta alla fermata del tram, pensa se lor signori dell’ataf prendessero anche una sola volta una il tramme forse capirebbero qualcosa, ma che colpa ne hanno, non hanno il potere degli sciamani di far piovere e far venire il sole, o il potere di cangiare le automobili dei vesciconi gonfi in ferrivecchi lasciati ad arrugginire in un prato di periferia, dove un tempo dimoravano i "greci" e le galline. Loro possono solo moltiplicare le linee dei tram, e mutare le rotte come più gli aggrada. Loro hanno da combattere i piacciconi e i lamentoni, che non pagano il biglietto pure.
Questo tram disperato porta con sé una profetessa desolata e muta, cartaginese, con due cagnolini biancogiallo in grembo, sbadigliano e flatuleggiano ma non abbaiano punto. La vecchia guarda fuori dal finestrino appannato, flash bianco rosso verde giallo - san michele aveva un gallo - semafori e insegne e stelle (di natale), e non ha chi la consoli, solo due bestioline flatuleggianti un poco, quanto basta per spingere ad un mesto sorriso i neri e maledetti fiorentini, ad ombrare di dignità offesa i lamentoni, ad ingegnare le menti ai piacciconi, tutti stretti sul tram otto barrato rosso.
Questo tram desolato porta con sé un piccolotto con occhiale, baffi e pizzo, è tutto uno stizzo, pare un professore intirizzito da troppi zero in condotta, infatti, emana dalla sua persona un olezzo di macellaio, blatera di sventramento, agita in aria il coltello della buon’anima dell’Ingegner Jack lo sventratore, pensaci Giacomino, ma era capatosta l'Ingegnere e giù di coltello si era messo e di buzzo buono, e taglia di qui, leva di là, apri qui e sfonda più in là, così emulo, epigono, il piccolotto piange lacrime di coccodrillo siculo.

Lamentazioni, solo lamentazioni.

I turisti guatano, mirano, scattano istantanee per l'Eterno. Nulla di simile v’avvenga, o voi che passate di qui! Ecco le ambulanze di corsa per torregalli, per careggi, per gli allegri segaioli del cto, per santa maria nuova, per monna tessa, per dove capita capita; pinocchio infortunato prega fata turchina, fatina cara non mi riportare da mastro geppetto che ha sempre quell'occhio vispo e quel succhiello a mano. Una donna dice ad un’amica, ieri sera era la gamba piagata di un ciclista a stoppare il traffico sui viali, oggi quale sarà la piaga, saperlo e dormirei tranquilla, stanotte. Firenze stende le mani, non v’è alcun che la consoli; circondata da tutte le parti da vesciconi gonfi di fiele è come cosa impura; è questa la città che la gente chiamava una bellezza perfetta, la gioia di tutta la terra? Tutti i tuoi nemici apron larga la bocca contro di te, fischiano, digrignano i denti, dicono l’abbiamo inghiottita, sì questo è il giorno che aspettavamo; ci siamo giunti, lo vediamo!
Si issa sul tram un vecchio omacciolo con la testa a pera, fatemi posto, fatemi passare, ho la gamba di ferro, voglio un posto a sedere, e casco! e casco! Non c’è pericolo, via, si tranquillizzi buon vecchio omacciolo lamentoso e dalla testa a pera, tanto resterebbe in piedi, anche da morto. L’omacciolo avrà di ferro una gamba, chissà quale, ma il cuore è d’oro, infatti, poco dopo s’acquieta, come aura gentil, che rasserena i poggi destando i fior' per questo ombroso bosco, così le flatulenze dei barboncini toys destano nel vecchio un disiato gioco, cioè si mette d'impegno a rompere le palle ai cagnolini e alla profetessa muta e desolata, cartaginese, abbaiando. Abbaia giocoso il gamba di ferro, e subito, che non vedevan l'ora, gli rispondono in coro i barboncini toys; gli risposero in coro, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia.
E questo tram sospettoso porta con sé presunti perdenti al totocalcio.
Questo tram escatoloso porta con sé un vecchio con la barba bianca, ce l’ha a morte con Lucifero e con Parigi il vecchio, e il signor Lucifero all'oscuro dell’odio del vecchio con la barba bianca.
Questo tram difficoltoso porta con sé 6 o 7 zingari, uno più pericoloso dell'altro, e un architetto postmoderno in kilt e senza mutande, si fa vento con il suo biglietto da visita con il titolo di laird, come il prezzemolo c'è pure Eco, appisolato (sogna di essere l'Innominato).
Questo tram selvaticoso porta con sé una tribù di indiani distruttori, Tex Willer e Kit Carson (si lamenta di quanto sono scomodi i seggiolini dei tram).
Questo tram parsimonioso porta con sé una vecchia con la sporta della spesa vuota.
Questo tram futuristicoso porta con sé Tazio, Francesco, il piccolo principe, la mosca di Lindbergh.
Questo tram ereticoso porta con sé Martin Lutero seduto, di qui neppure gli angeli mi faranno alzare, figuriamoci ‘na vecchia con la sporta della spesa vuota.
E questo tram porta con sé un vecchio giullare e un Re, appena nato.
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domenica 20 dicembre 2009

Anabasi di una frase (parte V)

Mi sono accorto, giunto al quinto post della serie sulla frase misteriosa, esiste una conserva di oloturie che è amata da ogni malese, che in Internet esistono vari e non pochi riferimenti in lingua italiana, anche se scarse per non dire nessuna ricetta, sull’oloturia cotta in padella, il fatto non mi fa né caldo né freddo, sono partito da una frase, per me misteriosa, e poi ho scoperto che tanto misteriosa la frase non era, almeno per il resto del mondo, non sarò il solo, non sarò l’ultimo, a fare la figura del tordo, ma c’è sempre la possibilità di fare il giro del mondo guardando fuori dall'oblò di Google.
L’oloturia è davvero il piatto forte per una gran parte della popolazione mondiale, soprattutto quella stanziale in Asia, dove l’oloturia rientra nella tradizione culinaria, tanto che i nomi con cui il povero echinoderma, strisciante e suzzante il fondo marino, è cucinato nelle varie cucine del mondo, sono numerosi, per esempio trépang in Malesia. Trépang, è nome generico che copre varie specie di oloturie bollite in acqua di mare e poi passate in acqua dolce, disseccate e talora affumicate. Per il consumo, soprattutto come minestre, le oloturie così preparate si tagliano a pezzi e si fanno bollire con erbe aromatiche (fonte Wikipedia). In Giappone le oloturie si chiamano namako, balatan nelle Filippine, hai sum in Cina, dove sono condite con una salsa a base di aglio, ginger, cipolla e soia. I vari nomi culinari dell’oloturia disegnano un itinerario sulla carta geografica del mondo, si potrebbe fare un giro attorno al mondo seguendo i nomi dell’oloturia, se solo fossi più bravo, più bello e più colto, potrei, seguendo le orme del Fraser, scrivere l’opera Il Cetriolo d’Oro in 12 tomi rilegati in marocchino rosso, edizione numerata, indi condensarla in due volumi, edizione abbreviata e tascabile. Ma non solo in Asia l’oloturia è cotta e mangiata (anche cruda, pur se trattata, pulita, nettata dalle interiora, grattata, ecc.), forse perché complice la moda del cibo esotico, che l’erba del vicino è sempre più verde, o i viaggi all’estero, sia quelli studiati e preparati pazientemente con l’aiuto di libri, mappe, guide, portolani, mappe del tesoro, consigli del vicino di casa, passaparola, Internet, ecc., nei cupi pomeriggi d’inverno, sia i Last Minute delle formiche acefale, in ogni modo il turista, più o meno preparato, più o meno che pensa con la propria testa, comunque spinto all’arrembaggio dal proprio culo migrante, come i nostri emigranti e antenati bipedi africani, visita, annusa, assaggia, complimenta, chiede ricetta, e olé le oloturie si mangiano anche in Europa. E non dimentichiamo, c’è chi non se lo dimentica mai e non ci dorme la notte, della presenza di extracomunitari in Europa, giustamente legati alle tradizioni locali e tribali. In Internet si vende, per adesso solo all’ingrosso per i centri commerciali, carne dell'oloturia congelata viva, oloturia pescata sulla costa del Canada, banchi di Terra Nuova, da capitani coraggiosi che lasciati in pace i merluzzi ora vendono le esche, con ordini minimi di 100 chilogrammi, disponibilità 15.000 chilogrammi per settimana, confezioni di 24 libbre. Vedi ristoratori con gli occhi alla Cofferati alla allegra compera nei centri commerciali all'ingrosso, reparto cibi esotici, muti avanguardisti di un esercito e di un gusto che cambia, loro intanto aprono la strada, e, infatti, in Catalogna le oloturie, conosciute sotto il nome di espardenyes, servite con olive, sale marino e limone quanto basta, si dice che siano un boccone da re, per i turisti. Non fidatevi, ché se i cetrioli di mare non hanno radici in un background culturale, in altre parole se le espardenyes non sono consumate dalle genti del posto da almeno mill’anni, il cuoco del locale vi propinerà senza alcun dubbio una ricetta fasulla, senza fondo, senza storia, senza spessore. E allora che le mangiate a fare, le espardenyes? Meglio ripiegare sui testicoli del toro. Ma ecco che salta su, come il grillo di Pinocchio, il lettore astioso e pure oriundo della costa dei barbari, a ribattere che le oloturie lui l’ha sempre mangiate, fin da piccino, sia crude che cotte; cotte, con un fondo di soffritto d’aglio in vino bianco, ci condisce gli spaghetti tutti i santi giorni, e al posto del parmigiano aggiunge una spruzzata di prezzemolo fresco; crude le mangia, dopo averle pulite dell’interiora, s’intende. Si dice che ad Ischia qualche ristoratore mette nel menu spaghetti all’oloturia, chissà che non si appoggi pure lui a qualche tradizione locale, che non andrà certo dietro al turista asiatico, al malese, al cinese, al giapponese, al cambogiano, allo srilankese, che questi, uniti e compatti, gli sghignazzerebbero dietro, o davanti, dipende dagli usi e dai costumi locali, nel vederlo in mezzo alla strada agitare come un forsennato, niente paura solo colore locale, un tovagliolone bianco invitando gli automobilisti distratti a fermarsi, entrare nel suo locale e mangiare spaghetti al sugo di oloturia, perché sarebbe come se in un ristorante della regione dello Shandong, con il menu scritto in cinese, accanto a piatti di uova di tartaruga, uova di granchio con pinne di pescecane, zuppe di oloturia e porro, cubetti di carne in salsa di latte, offrissero pure la ribollita e i fagioli all’uccelletto. C’è qualcosa che non quadra, penserebbe giustamente il turista scafato.
Ecco che significa non conoscere le lingue, non viaggiare, manco conoscere le usanze locali, si scribacchia su un blog girandosi i pollici attorno ai si dice, ai si racconta.
Ovvio, se non l’italico in genere (escluso l'oriundo della costa dei barbari), il pesce pescato ha spesso e volentieri mangiato come l’ultimo pasto del condannato a morte texano, le oloturie, servite, per l’appunto, come esca. Sono facili a trovare, attaccate alle banchine dei moli o in atto di suzzare miti il fondo marino, fondo misto a sabbia e scoglio; esse oppongono al pescatore-raccoglitore solo una resistenza passiva, si irrigidiscono al tatto, ma poca vela, una coltellata e via, aperte per lungo, sbuzzate dalle interiora sabbiose, e raschiate con perizia, si salva solo la tunica interna, ottima come esca per orate e saraghi, un vero boccone da re, e il resto si butta.
In un forum di Internet un navigatore si domanda se la varietà tirrenica è commestibile, e se sì quale parte dell’invertebrato, forse la parte interna dell'animale, cioè la stessa che s’adopera come esca, e si chiede se saranno più buone quelle grandi o quelle piccine, e ricorda che da piccolo c'era un'amica dei suoi che ci faceva sempre il sugo e i suoi, tornando a casa, dicevano sempre che faceva schifo. E un navigatore gli risponde che questo gli dovrebbe suggerire qualcosa, e un altro gli rammenta che è sempre bene dare ascolto ai propri vecchi. La discussione prosegue sul folklore, c’è chi gli ricorda che le oloturie sono chiamate dalle genti di mare stronzi di mare, e un altro ribatte anche cazzi di mare se è per questo, e così via sull'andante liscio, e nessuno che propone una ricetta, che la domanda, infine, era quella. Ma il navigatore è capatosta e insiste, sa per certo che nel mondo c'è chi le mangia. E gli rispondono in coro, sì, i saraghi e le orate. Non c’è comunicazione, come spesso succede in Internet, perché ce n’è troppa direbbe Eco. E siamo tornati al mare e ai pesci, da cui, bene o male, discendiamo tutti, e dunque tutti, un giorno, abbiamo mangiato oloturie.

E’ che le oloturie sono in serio pericolo di estinzione perché gli uomini ne pescano e ne mangiano troppe. Tutti sappiamo che le oloturie sono l’anello debole della catena alimentare, e se si estinguono non ci sarà da aspettare l’anno terribile, il 2012, per vedere crollate le dighe, franati gli argini, l’acqua alta a Venezia, tre centimetri di neve a Firenze, un giuseppino che spaccia mellifluo bomboloni caldi-caldi con la crema acida in piazza del Duomo. Il mio consiglio spassionato è di consumare meno oloturie, se proprio non potete farne a meno, almeno masticatele piano, fatene un biascicotto in bocca, insomma non vi strafogate, ricordate: slow food, ovvero biascicottare il più possibile il meno possibile.

Ancora qualche anno da passare e le oloturie faranno concorrenza alle lumache, ai testicoli di cane, ai funghi trifolati, al cervello fumante di scimmia, alla bistecca alla fiorentina, una squisitezza, che ve la raccomando, ovviamente se cotta a puntino, bruciata fuori e cruda dentro, dicesi al sangue, un vero boccone da re, deve però essere rigorosamente di razza chianina doc, alta due dita, cotta senz’olio e salata con sale grosso, portata in tavola calda, seppellita sotto una montagna di patatine fritte, annaffiata con una botte di birra, fatta rotolare al tavolo dal cameriere cinese. E per concludere in bellezza, vuoi che lustrandosi gli occhi con un paio di dollari il cuoco non tiri fuori una mezza torta di mele rimpiattata in un angolo della cucina e una cuccuma di caffè nero e bollente, ché Tex Willer e Kit Carson mangiano quando pare a loro, non quando aggrada al cuoco esoso, ma subito pronto alla confidenza e al gossip.

Si è visto, nel post precedente della serie, che il cuoco del Nautilus è malese, come lo è l’intero equipaggio, compreso il comandante supremo del Nautilus, il capitano Nemo, e che lo svelamento della frase misteriosa, esiste una conserva di oloturie che è amata da ogni malese, non può non svelare la ricetta della conserva, anche se chi scrive questo post non è di nazionalità malese. Come è possibile codesto fatto, dirà il lettore. E’ presto detto, esistono nel mondo solo due procedure di conservazione dell’oloturia, una consente di consumare l’oloturia senza cottura, l’altra di consumarla solo previa cottura, come il latte crudo. La prima modalità di conservazione richiede l’uso di aceto (che non è il fantino dei Pali di Siena), la seconda procedura è più complessa e si articola in tre fasi, la fase della bollituria, la fase della essiccatura e, ultima, la fase dell’affumicatura.
Le insalate crude, alla francese, cioè le verdure messe a macerare in olio o aceto sono fuori dalla portata di Nemo, che, per principio, aborre il vuoto, la terra ferma e ogni prodotto o frutto spontaneo della stessa, figuriamoci i due frutti simbolici per eccellenza, l’uva e le olive (per tacere del grano). Sicuramente esclusa la conserva di oloturia sotto aceto resta la procedura di conservazione più articolata.
Prima fase: la bollitura. Facile bollire le oloturie in fondo al mare, basta un recipiente e il fuoco. Sappiamo che Nemo è un patito del bollito (vedi il post Il bollito dell’Ingegner pesce), un vero e proprio fan del pesce lesso, del resto è figlio del suo secolo, l’Ottocento, anche se quel secolo Nemo lo ha rinnegato scegliendo di rifugiarsi sotto le onde del mare, in balia di un eterno presente di pesce in barile, ghiozzo sotto il sasso.
Seconda fase: l’essiccatura. Essiccare le oloturie bollite è un gioco da ragazzi della via Pal, è necessario un po’ di stucco staccato di nascosto dall’infisso della finestra dell’ufficio del preside? No, si devono solo stendere le oloturie come calzini umidi sulle fiancate del Nautilus (quando è in emersione), che i cocenti raggi del sole dei Tropici essiccheranno le oloturie in men che non si dica abracadabra, trentatré trentini entrarono a Trento trotterellando, sotto lo scafo la foca campa, sopra lo scafo la foca crepa. Il cuoco amorevolmente stenderà le oloturie bollite sullo scafo del Nautilus, le stenderà una a una, ripetendo la stessa domanda puerile, lo sai che i nicchinacchi non hanno le zampine? Si vede bene che ama il suo mestiere, lavora pure la domenica e nelle ore di buco, è capace di stare ai fornelli anche quindici ore al giorno per preparare timballi e intingoli per le bocche fameliche della ciurma del Nautilus.
Terza fase: l’affumicatura… al prossimo post.
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giovedì 17 dicembre 2009

Breve ma veridica storia delle religioni (la Spin-Genesi, parte II)

Dello Spin non si parla mai. Eppure i costituenti ultimi della materia, dal chicco di caffè al Monte Bianco, sono quark ed elettroni. Essi non vanno immaginati come “palline” e basta. Ciascuna di queste “palline” ruota attorno a se stessa, come fosse una “trottolina”. In inglese “SPIN” vuol dire “trottola”. Ecco l’origine del termine.
Volendo capire la logica di Colui che ha fatto il mondo, non si può dimenticare lo Spin.
A. Zichichi, L’Infinito, Edizioni Net, pag.19.

Salve. Ammetto alla prima che voi siate convinti, senza che io ci spenda parole, che l’origine del mondo è solo un problema di Spin, prima viene lo Spin poi tutto il resto, lo Spin e il tram otto barrato rosso destinazione Rocca delle lumache, ovviamente. Non ci credete? Guardate Trottolino come trottola per afferrare per la coda l’otto barrato rosso che sta passando in anticipo sull’orario di transito, e guardatelo come salta su e dà di gomito e spinge. E via. Che spinge? La smetta di spingere! E’ che vorrei scendere. Ma se è appena salito? Il tram otto barrato rosso porta con sé un signore grasso imbronciato e astioso che si chiede, mentalmente, cosa spinge una donna a far sesso con gli animali, una vecchia con la sporta della spesa vuota, studia la lista della spesa, tre ragazzini che sghignazzano, una ragazza carina con gli occhi verdi parla con la madre che sta nella Campania Felix, sette extracomunitari uno più pericoloso dell'altro, un igienista affranto e sudato, un invalido in piedi, un portatore di occhiali, un indossatore di lenti a contatto seduto, un fascista seduto e un comunista in piedi (però amici), un fan di Berlusconi che piange dentro, un fan di Di Pietro che ride guardando fuori dal finestrino, un controllore e un pensionato delle ferrovie del Sud, una bambina che parla e parla e parla con mamma che ascolta con gli auricolari Tom Jones, un assistente amministrativo in ritardo (ma uscirà in anticipo), un colonnello coi baffi e in pensione seduto, un vecchio con la barba bianca in piedi che ce l’ha a morte con Lucifero e con Parigi, il signor Lucifero seduto e all'oscuro dell’odio del vecchio con la barba bianca, Barbanera, Barbablu, Barbapapa, un puffo, Martin Lutero seduto, di qui neppure gli angeli mi faranno alzare figuriamoci ‘na vecchia con la sporta della spesa, il conte Dracula mortalmente pallido in piedi sta per svenire accanto ad un sanguigno donatore di sangue seduto, un rospo impertinente gracida una canzone di San Remo, una gallina mugellana stizzita, un asino con le ali raglia nel cellulare, zio Tibia, Nonna Papera in piedi, Ciccio addormentato in piedi, Tex Willer in crisi di astinenza da nicotina in piedi, Kit Carson seduto si lamenta di quanto sono scomodi i seggiolini dei tram, seduti sul tetto del tram Tiger Jack e Piccolo Falco guardano le nuvole che si dipanano lente nel cielo blu di un mattino di primavera. E Calvin chiacchiera con Hobbes. E Hobbes finge di essere un tigrotto di stoffa. Eco seduto legge se stesso leggente. Tom Jones in fondo al tram fischietta It's Not Unusual. Trottolino scende alla fermata sbagliata.

domenica 13 dicembre 2009

Anabasi di una frase (parte IV)

Esiste una connessione fra la conserva di oloturie del capitano Nemo e i malesi? Riporto la frase misteriosa per comodità del lettore:

Ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe senza rivali al mondo. (A)

Lo direbbe, il malese, se la potesse assaggiare, la conserva. L’enunciato dichiarativo A o è vero o è falso, vale a dire non può essere vero e allo stesso tempo falso. La disgiunzione ‘o’ usata è esclusiva (esempio: Che vuoi da bere, vino o birra?), e non inclusiva (esempio: Che c’è da bere? Vino o birra). L’enunciato A può essere scritto in questa forma ambigua:

Ogni malese ama una conserva di oloturie. (B)

Tanto per precisare una frase o parola ambigua non è la stessa cosa di una frase o parola ondivaga, ad esempio pesca, amo, giusto, gusto, ecc sono parole ambigue, mentre bicocca è una parola ondivaga (vedi post). L’enunciato B si può spezzare, come un’oloturia colpita da forte stress, in due enunciati, non ambigui:

Esiste una conserva di oloturie che è amata da ogni malese. (x)

Ogni malese ama la conserva di oloturie. (y)

Ecco che salta fuori, da una scatola a sorpresa, Sherlock Holmes a chiedere se il cuoco del Nautilus ha i baffi. Nell’immaginario collettivo il cuoco ha sempre i baffi, e si esprime in un gergo incomprensibile al di fuori della cerchia degli addetti alla cucina; qualche esempio: impiattare (mettere la pietanza nel piatto), incucinare (umiliare i sottoposti con torture varie). Per rispondere alla domanda capziosa di Holmes e sufficiente ricordargli che Nemo sta offrendo al professore una conserva di oloturie preparata dal cuoco di bordo, e non comprata alla Coop. Dunque si deve scartare l’enunciato y. Resta valido l’enunciato x, che si può sostituire all’enunciato A.

Ora, Nemo asserisce l’enunciato x in un modo tale da far capire al professore che lo ritiene vero. Nemo ha detto, esiste una conserva di oloturie che è amata da ogni malese, eccola! Se il professore non fosse l’ameba che è, rifiuterebbe il cucchiaio di conserva (perché il gusto è un termine ambiguo), ed esigerebbe dal capitano prove e valide ragioni per sostenere x. Insomma gli chiederebbe di argomentare ciò che asserisce. E se glielo avesse chiesto, questo post e i precedenti non avrebbero avuto necessita di essere. L’improbabile alzata di ingegno del professore avrebbe costretto Nemo in un angolo, e da lì sarebbe uscito o voltando imbronciato le spalle al professore, o argomentando, magari alla lavagna. Che sul Nautilus c’era di tutto e di più e di meglio che sulla terra ferma, vuoi che non ci fosse stata una lavagna per le dimostrazioni, compresi i gessetti colorati e la cimosa.
Ma la storia non si fa con i se, Nemo se ne sta zitto, e il professore assaggia la conserva, emettendo al più un mugolio di approvazione incondizionata, o forse chissà, avrà esclamato, buona, anzi, meglio della conserva di cetrioli. Possiamo immaginare, per un attimo, il capitano Nemo con il cucchiaio in mano, come un capo reparto di delicatessen tribali che imbocca il povero commesso Jerry Lewis con cucchiaiate colme di formiche fritte nel grasso di facocero, sottolineando il dovere del dipendente, nello spingere il consumatore all’acquisto della prelibata leccornia, all'assaggio personale, perché si può convincere solo se si è convinti della bontà di una cosa. Sia detto tra parentesi, si apre qui l’abisso inesplorato delle offerte dei supermercati, caso particolare del mistero della globalizzazione che spinge il consumatore a consumare “olio italiano” in Toscana, e "olio toscano" nelle altre regioni d’Italia.

Ora, è possibile convincere un malese della prelibatezza di una conserva di oloturie, per altro velenose, se lui stesso non le ha preparate? In altre parole, è possibile convincere, per esempio un padano della superiorità organolettica delle sottilette fila & fondi sul parmigiano d.o.p? Certo che no, dunque soltanto un malese poteva preparare la conserva di oloturie per il capitano. Ma solo il cuoco era autorizzato, con decreto firmato dal comandante del Nautilus, alla preparazione delle pietanze a bordo, dunque il cuoco era malese. Ma il cuoco lavorava a tempo pieno sul Nautilus, nessuna trattoria di fuori porta per arrotondare lo stipendio, dunque ogni marinaio sul Nautilus era malese, compreso il capitano.

Nel prossimo post una ricetta, ovviamente apocrifa, per conservare le oloturie.

Breve ma veridica storia delle religioni (Che cos'è verità?)

Un mito degli indiani Sioux racconta del furto del mais, intentato ai danni dei semi-agricoltori Arikana (*). In seguito a una visione un indiano Sioux cammina verso sud-est fino a che non trova un piccolo campo di mais, identico a quello visto nella visione. L’indiano porta il mais al suo accampamento, ignorando che il mais appartiene, in quanto sacro, agli Arikana (famiglia Caddo). In seguito alla scomparsa del loro simbolo sacro, gli Arikana mandano dei messaggeri alla volta dell’accampamento Sioux, insieme con molti doni, tra cui una grande quantità del loro tabacco a treccia. L’indiano che ha avuto la visione ne comprende ora il significato, stabilire la pace fra i due popoli.
Una visione perché possa realizzarsi deve essere “messa in scena”, cioè ritualizzata, infatti, il mito spiega l’origine del rito dell’imparentamento, lo Hunkapi.
Il rito contempla una guerra simulata fra le due popolazioni con la vittoria finale degli Arikana, come segno di resa il mais viene restituito ai legittimi proprietari, dopo di che il rappresentante del popolo Arikana dona una parte del mais ai Sioux: così anche per i cacciatori-raccoglitori nomadi il mais è diventato sacro.
Il rito ci tramanda uno scambio di simboli religiosi fra due popoli di cultura e modi di vita differenti. Ma, così come è impossibile costringere un popolo a credere in dèi e riconoscere simboli a lui estranei, così questo scambio di simboli non avviene mediante un furto, ma attraverso un dono, insieme alla promessa di una triplice pace: “la pace dell’anima, la più importante, la pace fra due individui e la pace fra due Nazioni” (*). Diversamente, il mais, profanato dal furto, perderebbe irrimediabilmente il suo significato di simbolo religioso.
Un simbolo religioso si completa solo all’atto del suo riconoscimento, come una moneta spezzata in due, il simbolo è in parte comunicazione e in parte riconoscimento di questa comunicazione.
Al di là di questo riconoscimento si leva arrogante la domanda che non avrà mai risposta, la domanda desolata del procuratore della Giudea Ponzio Pilato.

(*) J. Epes Brown, La Sacra Pipa.

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Breve ma veridica storia delle religioni (il Calumet)

La sacra pipa (il calumet) degli indiani delle praterie dell’America settentrionale rappresentava l’Uomo primordiale che si ergeva al centro del mondo e quindi sull’asse del mondo, e attraverso la preghiera, materializzata dal fumo del tabacco, realizzava l’unione delle forze ctonie e del dio celeste, verso il quale era diretta la preghiera.
Tutti i testi indiani descrivono il calumet come un essere umano, infatti, ognuna delle sue parti ha il nome di una parte del corpo umano. Il calumet è quindi il simbolo dell’unione del cielo con la terra attraverso lo sciamano che realizza la comunione sacra. Scrive Hailer: “il sacrificio col fumo sacro ha in origine un significato magico. Il fumare tabacco delle tribù nordamericane serve come stimolo estatico, ma allo stesso tempo ha valore cosmico. Il fumo viene rivolto verso tutte le direzioni del cielo, in alto e in basso, verso tutti gli esseri superiori” (1).
Il simbolismo cosmico del calumet è evidenziato da accessori affatto decorativi, ad esempio dalla cannuccia della pipa pendono quattro nastri di colore diverso, un nastro nero rappresenta l’ovest dove vivono gli esseri del tuono che mandano la pioggia; un nastro bianco rappresenta il nord, da dove soffia il grande vento purificatore; un nastro rosso rappresenta l’est, dove sorge il sole e dove ha la sua dimora la stella del mattino; un nastro giallo rappresenta il sud, dove vive l’estate e il potere che fa crescere. Il fornello della pipa è di pietra rossa e rappresenta la terra, il cannello della pipa è di legno e rappresenta tutto quello che cresce sulla terra.
Nei riti che richiedono la fumata rituale lo sciamano introduce nel fornello una presa di tabacco, mescolata ad altri ingredienti, per ogni quadrante del cielo, cominciando dall’ovest, poi il nord, l’est, il sud, quindi lo sciamano rivolge la cannuccia verso l’alto e introduce una presa di tabacco per il cielo, infine rivolge la cannuccia verso il basso e introduce una presa di tabacco per la terra, dopo di che il fornello della pipa contiene tutte le potenze dell’universo. A questo proposito Epes Brown scrive che “nel riempire la pipa tutto lo spazio (rappresentato dalle offerte alle Potenze delle sei direzioni) e tutte le cose (rappresentate dai grani di tabacco) si concentrano in un unico punto (il fornello), cosicché la pipa contiene, ovvero in effetti è, l’Universo intero. Ma se la pipa è l’Universo, essa è anche l’Uomo, e colui che carica la pipa dovrebbe identificarsi con essa, stabilendo in tal modo non solo il centro dell’Universo ma anche il proprio centro” (2).
Nella circumambulazione rituale attorno all’asse del mondo, eseguita per avere una visione, cioè per comunicare con il sacro, lo sciamano tiene in mano il calumet. “Entrando nel sacro luogo, il lamentatore si dirige subito al palo centrale dove, rivolto a ovest e tenendo la pipa con tutte e due le mani, continua a invocare piangendo il Grande Spirito. Poi, muovendo passi molto lenti, si avvicina al palo piantato a ovest dove innalza la stessa preghiera, poi torna la centro. Nello stesso modo prega davanti ai pali del nord, dell’est, e del sud, sempre tornando al centro ogni volta. Avendo perciò fatto un giro completo, alza la pipa ai cieli per invocare l’aiuto degli esseri alati e di tutte le cose; quindi, col cannello della pipa rivolto alla Terra, chiede aiuto a tutto quello che cresce su nostra Madre” (3). A questo punto ogni evento che accade nello spazio consacrato è un evento significante e quindi un segno salutare.

(1) Heiler, Le religioni dell’umanità.
(2) J. Epes Brown, La Sacra Pipa.
(3) J. Epes Brown, op. cit.


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sabato 12 dicembre 2009

Breve ma veridica storia delle religioni (la Spin-Genesi)

Dello Spin non si parla mai. Eppure i costituenti ultimi della materia, dal chicco di caffè al Monte Bianco, sono quark ed elettroni. Essi non vanno immaginati come “palline” e basta. Ciascuna di queste “palline” ruota attorno a se stessa, come fosse una “trottolina”. In inglese “SPIN” vuol dire “trottola”. Ecco l’origine del termine.
Volendo capire la logica di Colui che ha fatto il mondo, non si può dimenticare lo Spin.
A. Zichichi, L’Infinito, Edizioni Net, pag.19.


Immaginate un dio ludico, che avrebbe voluto giocare tutto il tempo con le sue creature, con la palla, con la corda, con il gioco del riporto, ma purtroppo ancora nessuno aveva inventato la corda, nessuno aveva inventato la palla perché ancora non esisteva il gioco del calcio, i tornei di tennis, i campi da golf, ecc, inoltre, cosa più seria e grave, non esisteva ancora alcuna creatura, neppure un boxer per giocare al lancio e al riporto del bastoncino. In quel tempo, che non era tempo, in uno spazio bianco, che non era spazio e si colora di bianco solo per comodità di lettura, c’era solo questo dio ludico e il resto era nulla, meglio non era nulla. Volendo spersonalizzare la materia esisteva solo il sacro ma non esisteva ancora il profano. E come poteva esistere il profano, se fin dai tempi di Romolo e Remo, nei riti sacri di fondazione, la prima cosa che i fondatori di città e di templi cercavano in giro era uno stecco appuntito per tracciare nella terra un solco che fungeva da confine. Fatto quello, il più era fatto. Ecco delimitato uno spazio e un tempo, noi siamo dentro, voi restate fuori, pro-fani, dentro e fuori, questo e quello a noi e a voi solo il codesto, e crepate d'invidia, tiè!!! Tutto il resto era una conseguenza logica, i riti di passaggio, il linguaggio, la guerra, la pace, i capri espiatori, le partite di calcio truccate, ecc. Be’ se c’era uno stecco in giro era facile, era banale, grazie. A dio sarebbe bastato puntare lo stecco in terra come il braccio di un compasso e fare un giro su se stesso, e avrebbe creato il mondo (e la banca mediolanum). Ma non c’erano stecchi in giro, e a questo dio gli dovevano girare non poco. Girare cosa? Fare un giro su cosa? Bang! (Big Bang dal nostro punto di vista). Sorbole, illuminazione! E dio creò trottolin che trottolava, senza gambe pur andava, senza culo e pur sedeva, come diamine faceva? E vide che era un buon figliuolo. Poi si stancò. Che al resto della creazione, compresa la dimostrazione alla lavagna di trottolin che trottolava che ci pensasse un po’ bene il suo assistente demiurgo a farla, quel lucifero sempre lì a tramare nell’ombra, buon figliuolo del resto, ma che diventasse un giorno titolare di cattedra va’ là, poca vela, gli sembrava impossibile al buon vecchio.
Oddio, eliminato l'impossibile, quel che restava, per quanto improbabile, doveva essere vero.
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venerdì 11 dicembre 2009

Ritornati dalla polvere (n. 4)

Terra (in particolare Italia). Anno 1922. L’umanità è in pratica sulla via del non ritorno, la voglia di progredire, di ricercare, di sperimentare nuove vie, insomma la fiaccola del progresso si è spenta, l'umanità ha appeso le scarpe al chiodo; solo resiste qua e là qualche sparuta frangia di resistenza, disperati uomini e donne sopravvivono accanto ai topi, nelle città e nei paesi in rovina, crudelmente assottigliati per mano di servi facinorosi dei proprietari terrieri (a sud) e degli industriali (a nord), servi condotti da un brutale e spiritato già maestro di scuola elementare e ora maggiordomo di un re nano.

Luca Marano, giovane studente universitario, è a caccia di libri di storia e politica, e li cerca proprio nel suo paese, in Molise. Ma non era facile trovare libri per studi personali. I professionisti del posto, avvocati, medici, notai, leggevano e rileggevano sempre gli stessi libri; “quelli che avevano acquistato negli anni dei loro lontani studi universitari. Li avevano letti in giovinezza, continuavano a leggerli in vecchiaia” (*). Luca allora chiede aiuto all’intellettuale del paese, il chiarissimo don Benedetto Ciampitti. La biblioteca di don Benedetto è ricca ma singolare, circa quattromila volumi, dal Quattrocento fino all’Ottocento. Dopo, solo il deserto dei Tartari, che non è il romanzo di Buzzati ma solo un modo di dire, per dire nulla.
Legge con metodo, don Benedetto, ma il suo metodo è assai singolare, ha iniziato da ragazzo con il Quattrocento e ora che è un vecchio saggio, assetato di vino rosso, ghiotto di castagne arrosto, è arrivato al Seicento. Ora, proprio adesso, sta leggendo i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini (e da vero intellettuale non si fa certo distrarre e imporporire da un habbiano con l'h).

“Mio nonno fece scarsi acquisti, mio padre e io non abbiamo comprato niente. Io penso che è inutile acquistare libri quando se ne hanno migliaia da leggere. Io leggo da quarant’anni, con ordine; sono arrivato al Seicento...” (*)

Ma don Benedetto è uno spirito balzano, per non dire che è un povero grullo, infatti, accoglie il giovane Luca offrendogli sigarette, vino rosso e marroni arrostiti su un fornello, ma alla prima timida richiesta di Luca di leggere "qualche classico di storia e politica" lo prende a bersaglio a colpi di libri.

Oceano (da qualche parte sotto il mare). Anno 1866. Il capitano Nemo mostra con orgoglio la sua biblioteca personale al professore di scienze naturali.

“…il mondo per me ebbe fine, il giorno in cui il mio Nautilus si immerse per la prima volta in mare. In quel giorno ho comperato i miei ultimi volumi, i miei ultimi opuscoli e giornali, e dopo di allora voglio credere che l’umanità non abbia più né pensato, né scritto.” (**)

Nemo, da Genio (della lampada), legge e rilegge, senza ordine, gli stessi libri, alle cinque della sera, sotto il mare. Generosamente offre in lettura i suoi libri al suo ospite-prigioniero, offrendo marmellate di anemoni e conserve di oloturie.

Un grullo e un Genio, e però gemelli.

(*) F. Jovine, Le terre del Sacramento.
(**) J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari.


E quella sua famosa libreria? E’ forse ancora dispersa su per i muriccioli. (A. Manzoni)

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martedì 8 dicembre 2009

The mystery of dirty drawers

Questo post può essere letto, volendo, come uno spin-off della serie dei post dedicati a una misteriosa frase tratta da un romanzo di J. Verne. La frase lega indissolubilmente per l’eternità, nel seguente ordine, una conserva d’oloturie, un malese, e un giudizio assoluto di qualità della conserva che Nemo attribuisce a un malese tipo, uno a caso, scelto a campione. Ma prima di iniziare, qualche parola sul perché questo post sarebbe uno “spin-off”. Dicesi spin-off, "nel mondo dei media, un film, un telefilm, una serie televisiva, un fumetto o una serie fumettistica, un'opera o serie letteraria, un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente o traendo spunto da uno dei suoi personaggi" (da Wikipedia). Spin ha il significato di movimento rotatorio, ma può essere usato, in senso figurato, per descrivere una persona in preda al panico. La frase To spin a yarn, il dizionario, inglese-italiano e italiano-inglese, Hazon-Garzanti la traduce come il raccontare una storia. E off, fuori, fuori da, esterno, ecc.. Mettendo insieme le due parole si ottiene una storia raccontata al di fuori della storia principale, un po’ come un sentiero nel bosco che ad un certo punto si biforca, ponendo il viandante di fronte all’alternativa se continuare sulla vecchia strada o provare la nuova. Lo spin-off deve avere un personaggio che nella storia d’origine occupava un ruolo secondario però interessante; nel nostro caso il personaggio non è ovviamente né l’oloturia, né il malese, e neppure Nemo, è un personaggio di un film di fantascienza di J. Carpenter, citato con il nome dell’attore nel primo post della serie. Riporto in versione integrale, per la gioia del lettore, la contorta citazione:

“Di qualche mistero prima o poi si arriva alla soluzione; tutti sanno, ad esempio, che la cosa nel film La Cosa di Carpenter, è Kurt Russell; guardatelo come sogghigna amaro e cattivo mentre seduto e affranto, accanto alla pira della base polare, dopo che ha passato la bottiglia di whisky, con un frammento dentro della cosa, all’ultimo disgraziato superstite umano (non a caso un nero, ché nei film di fantascienza sono vittime predestinate), che ha bevuto, ignaro.”


Polo Nord. Inverno del 1982. Un gruppo di scienziati scoprono un alieno ibernato da oltre 100.000 anni; riportato in vita è in grado di assumere qualsiasi sembianza e si nasconde tra loro. Riuscire a capire chi è chi, è la domanda fondamentale, se la pongono tutti (tutti, meno l’alieno), la seconda domanda, che a prima vista parrebbe meno fondamentale, la pone il cuoco del campo base, chi ha gettato nel secchio della spazzatura in cucina un paio di mutande sporche?


Il desiderio del cuoco di mantenere la cucina linda e pulita, libera da germi, è stato volutamente ignorato da un membro della base. E se invece fosse stato l’alieno?


Il mistero di un paio di mutandoni di lana da Polo (Nord) sporchi, e pure laceri, diventa un caso particolare del mistero generale e impaniante dell’alieno sconosciuto e bazzicante la base. L’alieno è a conoscenza delle norme di igiene, delle buone maniere, del galateo, ecc., quanto lo è un cane non educato a non sporcare in casa. E’ impossibile, per pura e semplice ignoranza, descrivere anche per sommi capi, dicesi un lineamento di storia, una storia dell'evoluzione della cucina nel mondo occidentale, dal semplice focolare alla cucina ultramoderna, ma restringendo il campo alla Toscana e il periodo alla fine del medioevo siamo a conoscenza del fatto che tra i ceti meno abbienti e i contadini la cucina era il cuore della casa, e che la casa s’identificava con la cucina, allora non esisteva la distinzione tra cucina, luogo dove si preparava il cibo, e il tinello, luogo dove si consumava il cibo. La cucina era uno stanzone con le pareti di pietra e mattoni, e si distingueva dalle altre stanze per la presenza del focolare. Il focolare era il cuore della cucina. L’importanza del fuoco è attestata “dall’uso proprio degli antichi censimenti di denominare con il termine fuoco ogni singolo nucleo familiare e con quello di focolare la cerchia domestica, in tempi più tardi anche e soprattutto come sistema di relazioni e di affetti” (1). Nei ceti abbienti la cucina era un luogo dove il padrone di casa raramente entrava, neppure per fare cucù alla serva. Nei palazzi di città la cucina non s’identifica più con la casa, non solo, la cucina è collocata in una posizione decentrata ed isolata, e non solo la cucina, infatti, il Palladio raccomanda che ambienti come la cantina, la lavanderia, il magazzino per la legna, ecc., devono essere posti “in luoghi più ascosi agli occhi nostri che sia possibile, perché in quelle si riporranno tutte le bruttezze della casa e tutte quelle cose che potessero dare impaccio et in parte render brutte le parti più belle” (2). Palladio giustifica questa triste emarginazione di alcuni spazi rispetto ad altri con la similitudine tra il corpo umano e la casa, come nel corpo umano ci sono parti nobili e belle e parti ignobili e brutte (ma necessarie) così le stesse parti sono presenti nella casa. Questa similitudine tra casa e corpo umano solleva problemi non da poco, questi agiteranno le menti di geometri e architetti da allora in poi, ad esempio L.B. Alberti si pone il problema di come non far raffreddare i piatti nel trasporto dalla cucina alla sala da pranzo, “la cucina non dovrà trovarsi a diretto contatto con i banchettanti, e nemmeno lontana fino al punto di far raffreddare durante il tragitto le pietanze che vanno servite calde; basterà che ai convitati non giunga all’orecchio il rumore fastidioso di sguatteri, piatti e padelle. Il tratto da percorrere per portare i cibi in tavola non dev’essere esposto alle intemperie, né di difficile transito, né contaminato da immondizie, sicché la purezza delle pietanze non venga meno” (3). Il rumore sgradevole di sguatteri, piatti e padelle diventa sollazzevole fonte di divertimento nel teatro delle maschere, e in pittura nelle scene di genere di mendici, derelitti, scugnizzi. Sembra che solo con Jusepe de Ribera, per la prima volta in Italia, “entra nel campo della pittura l’aspetto più ignorato e dimenticato della realtà italiana, la massa del popolino calpestato, affamato, la folla di mendicanti e di storpi da cui veniva colpito l’occhio dei viaggiatori al loro arrivo a Napoli” (4). Partendo dall’uomo-ragno leonardiano (citazione da Lorenzo di C. Guzzanti) e passando attraverso la similitudine palladiana si arriva al decoro borghese dell’Ottocento e ai nostri giorni, all’ipocrisia delle convenzioni sociali, alla città di cartapesta (vedi post Realismo e forma urbana ). La città di facciata sostituisce, dopo la distruzione del tessuto urbano (vedi i post Firenze 1892-1895 e Il bollito dell’Ingegner Pesce), un tessuto alieno di centri commerciali, grandi complessi sportivi, e finalmente stadi tra le nuvole.


Nell’ultima immagine un alieno perplesso cerca di risolvere il mistero dei mutandoni sporchi e laceri, dal suo punto di vista. Un tentativo di comunicazione, non verbale, da parte dell’alieno, forse un desiderio di far parte del “focolare” della base polare, c’è stato, certo molto più della parvenza di umanità che si cela dietro le ordinanze di certi sindaci incatenati a vita (alla poltrona).

(1) C. Paolini, I luoghi del cibo, Edizioni Polistampa, pag. 13.
(2) A. Palladio, in op. cit. (pag. 16).
(3) L.B. Alberti, in op. cit. (pag.16).
(4) F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi 1989, pag. 35.

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lunedì 7 dicembre 2009

Nota al Commento a un commento ai PS (n.5)

Nel rileggere il post, ovviamente dopo che l'avevo già messo sul blog, mi sono accorto che il commento alla nota n. 15 dell'anonimo commentatore ac potrebbe allusivamente alludere (!) a quell'infelice frase detta con i piedi ignoranti, da quel brillante patentato togato ministro dell'economia (epoca giurassica del governo Prodi). E a questo devo porre rimedio, e rendere esplicita una riflessione peraltro banale, e cioè che un romanzo come i PS è una testimonianza che ci sono più cose in cielo in terra e nella vita di tutti i giorni che nei piedi ignoranti di un brillante patentato togato (ex) ministro dell'economia che ha fatto plof ed è sparito. Purtroppo a volte ritornano dal plof, e quando fanno un ultimo definitivo plof ecco i loro figli e poi i figli dei loro figli, inesorabili come i conigli di Fibonacci.

Commento a un commento ai PS (n. 5)

Sempre dal capitolo quinto dei Promessi Sposi. Padre Cristoforo, dopo aver cantato in coro sesta e desinato in refettorio, è già fuori per strada, la sua meta è il covile di don Rodrigo, situato sul cocuzzolo non di una montagna ma di un poggio. L’ora sesta del religioso corrisponde al mezzogiorno del laico, tra cantare in coro e desinare in refettorio sarà passata un’oretta? Sicuramente padre C. non poteva affrettare i canti canonici e neanche abbuffarsi a tavola come un paninaro anni ottanta, che lo slow food - buono, pulito e giusto - imperava allora, almeno nei conventi se non nelle trattorie di fuori porta. E poi, dal convento dei cappuccini al covile del malandrino c’erano quattro miglia buone, o per meglio dire cattive, di campagna paludosa e di viottole sassose (ne sapeva qualcosa delle viottole, don Abbondio, o meglio ne sapeva qualcosa il suo piede destro, l’altruista, abituato a scansare i sassi che potevano essere d’inciampo a bravi e viandanti). E così, cammina cammina, quando padre C. finalmente arriva ai piedi del poggio della bestia da una pezza intenta al gozzoviglio scurrile (con i soliti quattro amici del bar), il cielo della Lombardia, che è bello quando è bello, rosseggiava tutt’attorno la campagna lombarda, come nella veduta laziale di Adamo Tedesco, anche se la stagione nella veduta è la prima estate, l’ora è quella dell’alba, il quadro si intitola Aurora, e il paesaggio, come già detto, è laziale, ma, insomma, si fa quel che si può con le diapositive (mentali) a disposizione e, soprattutto, il ©.

"[…] Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, (13) sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appié del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; (14) vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse; ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo. (15) […]”

(13) bicocca è un castello che spicca solo, in cima a un’altura.
(14) in una reticella. Anche quei contadini erano dunque, in fondo, dei bravi.
(15) provocativo. Dell’uso è provocante, che forse il M. ha evitato “per l’assonanza con petulante” (Rigutini).


(13) La bicocca è quella cosa lì, cioè un castello che spicca solo, in cima ad un’altura, ma la parola mi rammenta l’albicocca, e fantasticando un po’ m'immagino un personaggio, un misconosciuto Torto Al Cocco, bravaccio e mestatore, ghiozzo sotto il sasso, faccendiere e quindi ospite d’onore di Anno-Zero, avventuriero picaro del secolo decimo sesto, al soldo di ser Tizio e fra’ Caio, che aveva residenza e domicilio tra località Precotto e Prato Centenaro, immortalato con un salamino tra i denti e una coscia di pollo in mano nel mitico diario di Jacovitti. E chissà, forse cugino di secondo grado, di ramo paterno, del Cucco fiorentino. Forse da questo immaginario personaggio della Storia ha preso il nome la località Bicocca. Ma la Bicocca è anche l’ateneo dell'università degli studi di Milano-Bicocca. Campus fondato nel 1998 nell'area nord di Milano, ma, visto l’anno di fondazione, ateneo sconosciuto al M. che altrimenti ci avrebbe mandato la figlia a studiare, a calci in culo (*). E’ però la Bicocca pure il nome di una sanguinosa battaglia combattuta in detta località, da cui, infatti, prende il nome, la battaglia non la località, precisazione non peregrina, vedremo poi perché. Battaglia combattuta il 27 aprile 1522, e vinta dagli Spagnoli contro i Francesi e gli Svizzeri. A questo punto del discorso ci starebbe bene un link ad uno speciale di Super-Quark dedicato alla tecnologia e alle tecniche di guerra, per ricordarci che la battaglia segnò una svolta nell'arte della guerra, a causa del largo impiego degli archibugi, e ovviamente degli archibugieri che sparando e caricando, senza un attimo di tregua, riuscirono a fermare le cariche dei pur lesti fanti svizzeri, uccidendone non meno di tremila (il numero esatto varia secondo le fonti e i dati forniti dalla Questura svizzera e dal Sindacato spagnolo). La battaglia della Bicocca era nota al M. e gli era noto sicuramente anche il significato ondivago della parola. La battaglia della Bicocca è rimasta nella memoria dei Francesi, i quali per significare che un sito costerebbe molto sangue, e gioverebbe poco acquistandolo, soglion dire: "c'est une bicocque" (Pietro Verri). Al contrario in spagnolo bicoca, simbolo di una facile vittoria, ha assunto il valore di facile guadagno, cosa di valore che si può acquisire con poco sforzo (Wikipedia).
Ma a questo punto del post torniamo dal nostro frate cappuccino, fermo ai piedi del poggio, ora che siamo in possesso degli utensili necessari per carpire il nocciolo dei suoi pensieri e della sua strategia. Insomma la domanda è, padre Cristoforo come leggerai la parola bicocca che ti ha infilato in testa il M.? Del resto, le alternative sono solo due, Aristotele non è vissuto invano, o padre Cristoforo si fa scudo dell’interpretazione francese e, girata la fortuna (suggerimento del correttore automatico di Word al posto di culo), ritorna bel bello al convento, più allegro che prima, o investe tempo e denaro nello studio della lingua spagnola e affronta don Rodrigo, ad armi pari. Come una strega di aprile entriamo nella testa del frate cappuccino e registriamo in presa diretta i pensieri, proprio mentre con l’occhio pio osserva la viuzza a chiocciola che mena a una spianata dove si erge la bicocca di don Rodrigo, pensa che strano davvero che una discesa vista dal basso somigli tanto a una salita.

(14) Seguendo padre Cristoforo abbiamo lasciato alle spalle una campagna che se non era solare come l’antica Grecia immaginata nella penombra dei musei domenicali, era almeno solatia, una terra ubertosa, anche se un po’ disarmata, era autunno all’epoca dei fatti, e in carestia, grazie alla Spagna, eppure lavorata alacremente da minuscoli esseri (gli italiani all’epoca erano mediamente più bassi che alti), dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari, timidi come conigli, e rapidi a sparire da sotto l’occhio del padrone come lepri marzoline, piccoli uomini e piccole donne, piccini picciò, insomma gente minuta, hobbit che zampettavano allegri, con la testa piena di nozze e balli e canti e soprattutto pranzi; a piedi scalzi nei campi a zappettare, e nei boschi a cercar funghi buoni da seccare quando viene Natale e marron glacé e legna da bruciare per un paio di falò di streghe e accoppare di soppiatto qualche cervo, capriolo e cinghiale, e sempre con gli occhi ridenti e luminosi, le bocche prensili, fatte per ridere, mangiare e bere. Certo, Renzo, in questa Terra di Mezzo, ci fa una figura da bastian contrario e un po’ sgradevole, come un bruco nell'insalata, perché è tutto un agitarsi e minacciare omicidi in serie, agguati tra le frasche con il trombone, e indignarsi della condotta del povero parroco, e inquietarsi per il futuro sotto un cielo sempre più blu, e a smanacciare (e ne sapevano qualcosa i quattro poveri capponi portati all’avvocato di Lecco), ma, in fondo, sono lampi e tuoni d’estate, perché si calma subito e china il capo, da buon figliuolo, davanti alla barba grigia, puntata come spada ecc., di padre Gandalf. E poi Renzo si sa, lo sanno tutti, è il fermo, un frame di una fase di transizione, di un’evoluzione sociale, verso un modello borghese, Renzo alla fine della storia conquisterà lo status di piccolo imprenditore tessile. Ok, ma adesso? Adesso ci ritroviamo in mezzo a queste quattro lerce casupole, abitate da omacci tarchiati e arcigni e da maiali bradi di pelo ispido e nero; omacci con gli occhi iniettati di sangue e l’alito come un secchio di cozze lasciate tra l’essere e il divenire sotto il sole di prima estate; omacci con boccacce deformate dalle bestemmie, vere ferite in cancrena, le labbra livide, rivolte in dentro, a mostrare zanne e sozze gengive; e pure capelloni. Por mi vida, que de gente!
Ma dove c'ha condotto il M.? In una tana di orchetti, in una landa di ladri e malandrini, fuori del tempo e avulsi dalla geografia-storica, dove anche i pargoli, in collo a madri nerborute, biascicano morsi di tabacco, guatando duro i passanti.
E pure ac con l’occhio del filologo, addestrato al particolare, mette in nota n.14 la reticella che tiene arrovesciato il ciuffo, e conclude che, in fondo, quei contadini erano dei bravi, anche se in pensione.

(15) O forse provocante lo avrebbe fatto passare pure da pedofilo, oltre che dicesi fosse morbosamente attratto dalla Beccaria. O forse non voleva passare per un amante del genere, cioè della scuola dei bamboccianti. Magari preferiva la pittura di Salvator Rosa.


(*) Licenza poetica o gossip?
...mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie
L. Ariosto, Sat. VI, 157-159

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mercoledì 2 dicembre 2009

Commento a un commento ai PS (n. 4)

Capitolo quinto dei Promessi Sposi. Padre Cristoforo è sulla soglia di casa dell’Agnese e se ne sta a testa ritta, quasi all’indietro, punta la fluente barba bianca come spada sguainata, e lo sguardo ardente è adesso corrucciato, guai a voi anime prave, come fosse padre Mapple (Orson Welles) nella predica di Giona ai marinai del Pequod, agli indiani distruttori, ciurma folle di un folle; ma perché quello sguardo e perché quella barba puntata quasi al cielo, perché il frate sente nell’aria che c’è una cattiva nuova, e, infatti, come un medico di famiglia che prima o poi se l’aspettava chiede ad Agnese: “ebbene?”.

[…] Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò “o Dio benedetto! fino a quando…”(2) Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: “poverette!” disse: “Dio vi ha visitate.(3) Povera Lucia”
“Non ci abbandonerà, padre?” disse questa, singhiozzando.
“Abbandonarvi!”(4) rispose “E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, v’avessi abbandonata
[…]”

(2) fino a quando… E’ sul punto di domandare a Dio come Dante: “Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?”
(3) Dio vi ha visitate. Intendi, con le afflizioni; come per metterle alla prova. E’ frase di tono biblico.
(4) Abbandonarvi! Ecco un esempio di quell’”enfasi solenne” notata poco sopra.

Queste frasi sono come una trappola, ma una trappola che scatta a vuoto. Il topo è salvo e si è mangiato ancora una volta la crosta di formaggio, sempre la vita di gente umile. Scatta a vuoto nella mente di ac, nella mente di padre Cristoforo, nella mente di Manzoni. Chi abbandona chi? Lucia a chi chiede aiuto? A Dio o al suo surrogato terreno? Tradita da una ciofeca di parroco, che a Manzoni è pure simpatico, non esistendo ancora una legge contro lo stalking, parola straniera per dire cose brutte, sconosciute a noi latini (e ovviamente agli svizzeri), povera e dolce Lucia a chi chiedi aiuto? A un cappuccino, al bar. E il frate non trova di meglio che citare Dante e la Bibbia, e pure l'antico testamento e Giobbe, che ormai va in giro da millenni con la giacchetta di un tessuto a trippa di gatto. Dio vi ha visitate. E poi uno diventa orso e neppure risponde al telefono...
1840. Luna nuova di aprile. Intanto che Manzoni si arrampica sugli specchi come un geco, e scrive e riscrive il suo capolavoro (che il suo sugo del sale è tutto lì), sul mare spumeggiante, sotto un cielo azzurro e indifferente, Achab getta per l’ultima volta il suo arpione.