La stragrande maggioranza delle persone è convinta, ancor oggi, che se uno, mentre guarda un panorama, chiude gli occhi, le figure luminose e colorate che egli vedeva continuino a sussistere né più né meno come quando egli aveva gli occhi aperti (1).
Quasi tutti gli animali e le piante si rapportano più o meno bene con quella parte della radiazione elettromagnetica, che noi esseri umani chiamiamo luce. Il rapporto più elementare, nella scala evolutiva, è la fotosensibilità, fenomeno presente nelle piante, nei batteri, e in molti animali unicellulari, come ad esempio le amebe. Elementare non significa imperfetto o deficiente: provate voi a vivere in un mondo completamente privo di vegetazione e poi vi accorgerete chi è il deficiente.
Gli animali pluricellulari si rapportano con la luce tramite particolari organi fotosensibili, chiamati ocelli, questi organi sono presenti per esempio nelle larve d’insetti, o accanto agli occhi composti negli insetti che hanno raggiunto lo stadio adulto. Un ocello ha la forma di una piccola coppa tappezzata esternamente da cellule fotosensibili e posteriormente da un pigmento nero, talvolta è presente anche una lente rudimentale.
Gli ocelli sono in grado di rivelare l’intensità della luce, ma non si ritiene possano formare immagini ben definite. In altre parole una struttura biologica dotata di fotorecettori, di schermo scuro e con forma a coppa, cioè un ocello, vedrebbe un’infinità di immagini confuse, cioè le vedrebbe se fosse connesso a un cervello in grado di vedere.
Da un punto di vista puramente fisico i raggi luminosi arrivano ai fotorecettori, posti all’interno dell’ocello, da tutte le direzioni e non solo dall'oggetto (l’eventuale preda o predatore) posto di fronte all'animale (il predatore o la preda), quindi per quanto riguarda la sopravvivenza dell’animale l’utilità dell’ocello è scarsa. E un po’ come il fenomeno che notiamo nelle giornate d’estate, quando gli intensi raggi solari riflettendosi sulle auto in movimento e filtrando attraverso le persiane disegnano sul soffitto di una stanza in penombra macchie colorate in movimento. Noi vediamo le macchie di colore scivolare sul soffitto della stanza e le leggiamo come ombre luminose di automobili che passano giù in strada. Ma un animale dotato di ocelli vede solo macchie di diversa intensità luminosa in movimento, e probabilmente la sua reazione istintiva è la difesa (allontanarsi o immobilizzarsi) o l’attacco (dirigersi verso la macchia luminosa in movimento).
Il perfezionamento evolutivo delle cellule fotosensibili in cellule nervose poste sulla parete interna dell’ocello porta gradatamente allo sviluppo della retina. A questo punto l’ocello si chiude quasi completamente generando l’occhio. Adesso la luce penetra nell’occhio attraverso un minuscolo forellino. I fori d’ingresso nell’occhio per far passare la luce possono essere uno o molteplici. Nel primo caso si parla di occhi semplici, nel secondo di occhi composti.
Gli occhi composti sono tipici degli insetti. Gli occhi composti sono situati ai lati del capo dell’insetto e le loro dimensioni sono proporzionali all'importanza della vista nell’economia di vita dell'insetto. L'occhio composto è formato da un gran numero di ocelli evoluti di forma allungata, chiamati ommatidi. Il numero degli ommatidi è uno dei fattori da cui dipende il potere risolutivo dell’occhio. Ad esempio, nelle libellule (che catturano le prede in volo) gli occhi composti sono enormi e occupano gran parte del capo, e sono formati da più di 28.000 ommatidi per occhio (per fare un paragone la mosca domestica ne possiede solo 4000).
In altre specie di insetti, per esempio alcune specie di formiche, gli occhi composti sono piccoli (talvolta con un solo ommatidio), e talvolta gli ommatidi possono mancare del tutto, come negli insetti che vivono sempre al buio (per esempio nelle grotte).
La visione generata dagli occhi composti è detta a mosaico, perché tanto maggiore è il numero degli ommatidi più l’immagine è dettagliata. È un po’ come il numero dei pixel e la risoluzione nell’immagine digitale.
È interessante notare che alcuni insetti sono sensibili a certi colori e ciechi ad altri, di conseguenza il loro spettro visibile è diverso da quello dell’uomo. Ad esempio l’ape reagisce alla radiazione elettromagnetica fino a una lunghezza d’onda di 297 nanometri, mentre è cieca a lunghezze d’onda superiori a 650 nanometri (il confine convenzionale tra il colore rosso e l’arancione). Non si deve pensare però che lo spettro visibile delle api sia composto di sette colori. Se Newton fosse stato un’ape avrebbe contato (sempre convenzionalmente) quattro colori: il colore A (650-500 nm), il colore B (500-480 nm), il colore C (480-400 nm), e il colore D (400-310 nm).
Gli occhi semplici possono essere con o senza lente. L’occhio privo di lente, chiamato stenoscopico, è simile nel funzionamento alla camera oscura. Un esempio biologico di occhio stenoscopico è quello del mollusco nautilo. Questo tipo di occhio comporta alcuni grossi problemi alla visione del mondo esterno.
Il primo problema è dato dal fenomeno della diffrazione. La diffrazione causa una sfocatura nell’immagine impressa sulla retina. Tale sfocatura aumenta tanto più il foro si riduce di diametro. Tuttavia per avere un’immagine nitida sulla retina il foro deve essere molto piccolo. Però se il foro è troppo piccolo la quantità di luce che passa all’interno dell’occhio è insufficiente per formare un’immagine chiara, in pratica un oggetto del mondo esterno (una possibile preda o un predatore) per essere visibile deve essere illuminato da una forte luce. Quindi si può immaginare un animale dotato di occhi stenoscopici stazionare in acque molto superficiali e solo di giorno.
Se si applica al forellino, praticato nella parete della camera oscura, una lente e sulla parete opposta si attacca una pellicola fotosensibile, la camera oscura si trasforma in una macchina fotografica. La pellicola fotosensibile è già presente nell’occhio stenoscopico (è la retina), manca solo la lente. L’occhio semplice dotato di lente si chiama occhio a camera.
L’occhio a camera è presente, in mille varianti e trasformazioni adattative, nei cordati, nei vertebrati, nei ragni saltatori, nei crostacei, negli insetti e anche in certe specie di meduse.
Scopo della lente, nell’occhio a camera, è di mettere a fuoco l’immagine del mondo esterno, sulla retina. Mettere a fuoco significa semplicemente flettere in modo opportuno i raggi luminosi provenienti dal mondo esterno in modo da farli convergere su uno stesso punto della retina.
Le prime lenti biologiche erano probabilmente sferiche, come quelle dei pesci attuali (la vita si è evoluta inizialmente nei mari). La lente sferica costruita dalla mano dell’uomo soffre del fenomeno fisico dell’aberrazione sferica: dati dei raggi paralleli diretti contro una lente più o meno sferica, questi sono deviati di più ai bordi della lente e meno al centro.
Il fisico James Clerk Maxwell scoprì, dopo una serie di esperimenti causati da una riflessione davanti a un piatto di aringhe a colazione, che gli occhi sferici dei pesci sono formati da un materiale non omogeneo. Tale materiale cambia di densità gradatamente dal centro alla periferia, dove ha un indice di rifrazione quasi uguale all’acqua. Questo materiale causa una differente deviazione dei raggi luminosi a seconda della zona della lente attraversata dal raggio, e un rallentamento della velocità della luce nella parte centrale, più densa, rispetto alla parte periferica della lente. Di fatto tutti i raggi luminosi passanti attraverso la lente sferica dell’occhio del pesce si focalizzano su uno stesso punto della retina, e quindi non c’è aberrazione sferica.
Allo stato attuale della ricerca paleontologica le prime testimonianze fossili di animali forniti di occhi a camera risalgono all’inizio dell’era Cambriana (circa 543 milioni di anni fa). Secondo una teoria formulata da Andrew Parker (2003) fu proprio l’invenzione dell’occhio a camera la causa dell’esplosione cambriana (la teoria dell’esplosione cambriana si deve a Stephen Jay Gould):
All’inzio del Cambriano [543 milioni di anni fa] comparvero negli oceani di tutto il globo trilobiti dotate di occhi e di zampe predatorie. Era nata la predazione attiva. [...] Durante il Precambriano i predatori di acque aperte erano quelle meduse che esploravano il mondo soprattutto attraverso il tatto. Un animale non ha alcuna possibilità di adattarsi al tatto, di impedire di essere toccato [...] L’esplosione cambriana riguarda esclusivamente le difese contro una predazione orientata dalla vista (2).
Secondo Parker una prova a sostegno della sua teoria è data dai fossili, i quali testimoniano che gli altri recettori sensoriali (tatto, olfatto, ecc.) si sono evoluti in modo graduale, prima e durante l’era Cambriana, mentre solo per l’occhio le evidenze paleontologiche mostrano un salto evolutivo all’inizio del Cambriano, con il repentino passaggio da un semplice tessuto di fotoricettori all’occhio a camera: «Questo balzo di efficienza è talmente spropositato da aver indotto Darwin a scegliere proprio l’occhio come la spina del fianco della teoria evolutiva» (3). Un’altra prova fornita da Parker è la seguente: un occhio privo di un tessuto nervoso abbastanza evoluto per rappresentare un’immagine del mondo esterno è inutile, quindi prima del salto evolutivo doveva essere già presente una rete nervosa e un certo spazio cerebrale abbastanza evoluto. Ma a che serve una rete nervosa e uno spazio cerebrale evoluto se l’animale non si rapporta in modo attivo con l’esterno? Quindi dovevano essere già presenti altri efficienti sensori, sviluppatisi prima del senso della vista, e quindi prima dell’esplosione cambriana. E infine la fotosensibilità che
è diversa dagli altri sensi a causa dello stimolo ad essa collegato, e cioè la luce. Nella maggior parte degli ambienti, la luce solare è presente, cosicché ogni animale vi lascia una sua firma ottica, la propria immagine. Questa immagine è già pronta per essere percepita. Perciò, per adattarsi alla vista, un animale deve sviluppare una risposta relativamente al proprio aspetto, sia essa una forma o un colore di avvertimento, un camuffamento o la tendenza a nascondersi dietro un riparo (4).
Per Parker «la luce è presente sulla Terra fin dalle sue origini; la vista è un adattamento alla luce e non esiste da sempre» (5). In altre parole il senso della vista, strettamente collegato all’evoluzione dell’occhio a camera, nasce in reazione ad uno stimolo non biologico ma fisico: la radiazione elettromagnetica; forse in risposta ad un innalzamento dell’intensità luminosa all’inizio del Cambriano. Dalle evidenze paleontologiche sembra che i cordati (antenati anche dell’uomo) presenti nel Cambriano fossero ciechi (ad esempio la Pikaia, rinvenuta in vari esemplari presso il sito di Burgess Shale datato al Cambriano medio, 505 milioni di anni fa, situato nel Yoho Parco Nazionale, presso le Montagne Rocciose, vicino la cittadina di Field in Columbia Britannica). Quindi si ipotizza che il primo occhio a camera (nei cordati) si sia evoluto in qualche fase interna al ramo dei cordati; la conclusione è che:
l’occhio non ha un’unica origine. Si è evoluto in più occasioni indipendenti, negli artropodi e nei cordati, e, a quanto pare, in epoche diverse della storia evolutiva [...] il phylum in cui per la prima volta sono comparsi gli occhi è quello degli artropodi (6).
Se le future testimonianze fossili non annulleranno questa teoria allora si dovrà ipotizzare un altro improvviso innalzamento dell’energia luminosa del Sole per spiegare il salto evolutivo e indipendente dell’occhio a camera nei cordati, o qualche altro fenomeno fisico.
Resta da risolvere il mistero dello sguardo della medusa. La medusa esiste da oltre 600 milioni di anni, ed è un animale praticamente trasparente, i raggi luminosi la attraversano quasi al 90%. Ma quando una medusa finisce sulla battigia e muore il suo corpo diventa rapidamente opaco, quindi la trasparenza è un adattamento necessario alla sopravvivenza nel mare (oggi come 600 milioni di anni fa). È stato osservato che le meduse catturate a grande profondità (750 metri sotto il livello del mare) hanno una trasparenza analoga a quelle raccolte quasi in superficie. Ma dov’è l’utilità della trasparenza in un mondo dove la radiazione luminosa è praticamente assente? A che scopo essere trasparenti in una stanza completamente al buio? Non basta, alcune specie di meduse possiedono ocelli e anche occhi a camera. Gli occhi a camera della medusa hanno un cristallino con un gradiente di rifrazione simile a quello dei pesci, quindi esente da aberrazione sferica.
Anche se occhi e ocelli si sono evoluti all’interno del ramo delle meduse rimane il fatto che le meduse sono prive di uno spazio cerebrale evoluto, quindi è un mistero la loro visione del mondo.
Ricapitolando: abbiamo una sofisticata macchina fotografica nelle mani di una creatura trasparente, chiusa all’interno di una stanza praticamente al buio. Ipotesi: forse la visione del mondo della medusa non coincide esattamente con quella dei maestri della fotografia.
Un’ultima domanda: i recettori degli artropodi all’inizio del Cambriano si sono coordinati per dare man forte al nuovo senso della vista, com’è che i recettori dei cordati sono rimasti con le mani in mano e lo sguardo perso nel vuoto?
Ora guardiamo il problema da un altro punto di vista. Al fisico Frederik W. Herschel (1738-1822) si deve il seguente esperimento: egli dispose vari termometri lungo un piano illuminato da uno spettro solare, e notò che i termometri posti al di fuori dello spettro solare, dalla parte del rosso, indicavano una temperatura maggiore rispetto agli altri posti sotto lo spettro solare.
Dunque vi sono dei raggi che non si vedono, e che il prisma devia, e scompone come quelli della luce; dunque nei fasci di luce solare, frammista alla luce rossa, gialla, verde e violetta, che colla sua miscela dà la luce bianca, vi è anche della «luce invisibile» (7).
Questa luce invisibile fu chiamata infrarosso. Un ultimo esperimento: se proiettiamo uno spettro solare sopra una lamina di nitrato d’argento l’annerimento che si verifica avviene anche al di là dello spettro, e questa volta dalla parte del colore violetto. E così che fu scoperta l’esistenza dell’ultravioletto.
È quindi lecito parlare di luce nera; una luce invisibile collocata al di là dei limiti dello spettro del visibile recepito dai nostri occhi.
Alla luce di queste esperienze si può affermare che la luce non era presente sulla Terra fin dalle sue origini. E concludere osservando che la luce è una conseguenza casuale dell’evoluzione dell’occhio (inteso come ricettore selettivo della radiazione elettromagnetica) e dello sviluppo del cervello:
Dobbiamo immaginarci un mondo esterno, in cui si trovano i corpi materiali, dotati di movimento, e di energia. Questo mondo dobbiamo pensarlo buio; privo di luce e di colore. I vari corpi debbono essere considerati come nubi di atomi che irradiano dell’energia, sotto forma di onde (o di fotoni, poco importa per il nostro scopo) di ogni lunghezza d’onda. Queste onde sono da considerarsi energia che si trasferisce da un corpo a un altro; perciò non sono né luminose, né colorate: sono tutte buio (8).
Un articolo scientifico di Bernard Soffer e David Lynch (9) pone in luce l’inconsistenza fisica della conclamata corrispondenza tra il picco della curva planckiana e lo spettro della luce visibile.
Max Planck (1858-1947) scoprì che un corpo opaco, portato all’incandescenza, emette radiazioni lungo tutto lo spettro elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi gamma, con un picco della curva più spostato verso il violetto quanto maggiore è la temperatura del corpo. Confrontando l’emissione di luce delle stelle alle varie lunghezze d’onda, con le curve di Planck, si può determinare la loro temperatura superficiale. Queste curve spiegano perché il Sole ha un massimo nel giallo-verde, corrispondente a una temperatura superficiale di circa 6000 gradi.
La massima sensibilità dell’occhio umano si ha verso i 555 nm (corrispondente a una luce di colore giallo-verde) proprio in corrispondenza con il picco della curva planckiana (560 nm), se espressa in funzione della lunghezza d’onda. Se però la stessa curva è disegnata in funzione della frequenza il massimo di emissione del Sole si ha nell’infrarosso (picco a 880 nm). E se la curva è espressa per numero di fotoni al secondo il picco si posiziona a 633 nm.
In altre parole il valore fisico della curva è dato dall’area della curva e non dalla curva stessa. Quindi la coincidenza tra il picco della curva planckiana e la massima sensibilità dell’occhio umano alla luce esiste solo quando la curva è espressa in funzione della lunghezza d’onda e non ha un significato fisico. Un altro colpo di piccone assestato al muro dell’antropocentrismo.
L’articolo di Bernard Soffer e David Lynch si conclude con un grafico degli spettri di trasmissione dell’acqua pura rilevati a diverse profondità (da un centimetro a dieci metri): le curve (prese a profondità a mano a mano maggiori) tendono sempre più ad avvicinarsi alla curva di sensibilità alla luce dell’occhio umano.
L’occhio a camera dei cordati si è formato grazie a uno strato d’acqua marina tra la lente e il Sole. Questo strato si è assottigliato nel corso del tempo, con la riduzione dei raggi ultravioletti grazie alla formazione dello scudo di ozono. L’occhio dei cordati e dei vertebrati conserva un sottilissimo velo d’acqua marina: il liquido lacrimale. Il cui effetto sarebbe simile, per la funzionalità dell’occhio nei vertebrati, a una goccia d’acqua che sparsa sopra un vetro finemente smerigliato lo rende trasparente (10).
Questo post è una sintesi di "Evoluzione di un senso" (da Opus incerta).
(1) Vasco Ronchi, «La Luce» in AAVV, Le opere e i giorni della creazione, Studium Christi, Roma, 1953, p. 47.
(2) Andrew Parker, In un batter d’occhio. La causa del più spettacolare evento nella storia della vita, (Zanichelli, 2005), p. 261.
(3) Andrew Parker, op. cit., p. 271.
(4) Andrew Parker, op. cit., p. 274.
(5) Andrew Parker, op. cit., p. 134.
(6) Andrew Parker, op. cit., p. 205.
(7) Vasco Ronchi, Storia della luce, (Laterza, 1983), p. 299.
(8) Vasco Ronchi, op. cit., p. 304.
(9) Bernard H. Soffer, David K. Lynch, «Some paradoxes, errors, and resolutions concerning the spectral optimization of human vision», in American Association of Physics Teachers, Vol. 67, No. 11, November 1999, pp. 946-953 (www.phys.ufl.edu/~hagen/phz4710/readings/AJPSofferLynch.pdf).
(10) Vasco Ronchi, «Sulla funzione ottica del liquido lacrimale», Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, estratto dal vol. IV, serie 6°, 2° sem., fasc. 10, Novembre 1926, in La genesi del «mondo apparente», (Leo S. Olschki, 1985), p.83.
venerdì 12 dicembre 2008
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