domenica 23 maggio 2010

Commento a un commento ai PS (n. 10)

Uscite dalla fanga et io farò di voi un'Armata (veloce) et ardita

Ventinovesima nota del capitolo XI: Renzo esce dalla fanga e si fa ardito (ma ancora non lo sa).

[...] La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, (29) dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava meraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. [...]

(29) e si fermò su due piedi. Renzo non avrebbe saputo analizzare le sue impressioni alla vista improvvisa di quella gran mole, di “quell’ottava meraviglia” del mondo, ma contemplandola dimenticò tutti i suoi guai, e questo dice tutto. Ci tornano a mente quei vecchi troiani che dimenticarono tutti i loro guai alla vista d’Elena la bellissima.

Notare l'allusione del Manzoni al vecchio nome del protagonista maschile del romanzo, e cioè Fermo (probabilmente il M. era sempre lì con il bianchetto in mano, cambio o non cambio, quasi quasi ti ribattezzo Renzo in Fermo e cancello tutti i Renzo che ho scritto qua e là, ohi ohi, no! che sono già all’undicesimo capitolo).
Manzoni scriveva in italiano, anzi in toscano, forse in fiorentino, ma per l’anonimo commentatore (ac) il Manzoni (che forse si illudeva di pensare in milanese) pensava in greco antico, e ciò visto l’ardito paragone tra il duomo di Milano e l’Elena la bellissima. E proseguendo nella lettura - con la nota ventinovesima alla mano - una domanda sorge spontanea: che se Renzo è come un vecchio troiano e di quella ottava meraviglia ne aveva sentito parlare fin da bambino, o quante primavere aveva visto allora l’Elena la bellissima?!

Ma infine haberemo castella, ricchezze et bianche femmine dalle grandi puppe!
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domenica 16 maggio 2010

CEIsAAA, VIII

Se hai figlie femmine sei fortunato, se hai figli maschi sei disgraziato. L’imperatore tutti li vuole a costruire la Grande Muraglia. Non ne vedi le fondamenta, vedi solo biancheggiare ossa di morti. Così recita una antica canzone dedicata a Qin Shihuangdi, colui che, unificata la Cina, assunse il titolo di imperatore (il numero uno), ovviamente della Cina. Strano ma vero, Qin Shihuangdi non fu amato dai contemporanei. Eppure fece un sacco di cose: creò la guardia civile, unificò pesi e misure, battè moneta, uniformò la scrittura, costruì reti di canali e strade; come i faraoni era ossessionato dalla morte, appena salito al trono era già lì che progettava la sua tomba. Una vera fissazione. Fonti cinesi narrano che la tomba del primo imperatore era come una città sotterranea, con case giardini e negozi, campi sportivi e parcheggi per i carri, la città era attraversata da due fiumi di mercurio. Una tomba leggendaria che probabilmente non è mai esistita. Ma che c’entra Qin Shihuangdi con i nostri amati studi di storia dell’Asia Anteriore Antica? Ebbene, questa premessa era necessaria per presentare un eroe leggendario, forse il primo re di Orzowei, un sovrano che ben duemila anni prima del primo imperatore della Cina, si agitava giorno e notte per lasciare ai posteri un ricordo indelebile, il leggendario Berlumesc. E’ vero, l’epos lo raffigura come un tiranno che sottopose a lavoro forzato tutti i suoi sudditi nella costruzione delle ciclopiche mura che circondavano la favolosa città scomparsa, riscoperta negli anni trenta, scavando nel sito di Favbrillhà. La capitale di un regno scomparso e misterioso, fino al fatidico giorno in cui O.K. Allright riempì il nostro animo di stupore identificando il sito di Favbrillhà con la capitale del regno di Orzowei (1). Quel giorno tutti i pesci salirono a galla e finirono nella rete del grande filologo orientalista, così che le tavolette di Favbrillhà potevano risplendere di luce propria, illuminando, con una corrispondenza sia interna sia esterna, un apparato statale formidabile, che trattava da pari a pari con le potenze del tempo, compreso l’Egitto del misterioso faraone Pupo I, dalla vita lunghissima e dal regno, se fosse possibile, ancora più lungo: si stima un centinaio di anni o forse più. Purtroppo non è più fra noi il nostro carissimo collega Arne Otto Saknussen, perdutosi – prematuramente - tra le nevi del Tibet la scorsa estate, ché (potremo mai scordare la sua voce chioccia?) l’avremmo già visto balzare su, urlante una domanda (che non essendo mai stata formulata mai avrà una risposta) e cioè come si spiega una così lunga vita in tempi in cui l’igiene era un optional e non esisteva ancora la medicina ufficiale?
Nel 193* la stampa mondiale potè dare notizia che nell’archivio di Favbrillhà era stata scoperta una tavoletta contenente l’epopea di Berlumesc, ma, data la cronica scarsità degli addetti ai lavori, nel campo dell’orzoweiologia, sono passati troppi anni prima che se ne sia potuto ricavare un barlume di interpretazione, e ne passeranno altrettanti, temo, prima di poter procedere ad una doverosa pubblicazione organica ed esaustiva su queste pagine. Ma un egregio esempio di lettura della tavoletta, ci viene offerto dal lavoro del Socio Silver S. Spikspan.

Come gli antichi scribi riuscissero a fare entrare in una tavoletta, per la precisione la tavoletta 313.c dell’Archivio orientale di Favbrillhà (una tavoletta del formato di un francobollo), un intero inno, è una questione tuttora da risolvere. Si ipotizza che nel III millennio precristiano lo scriba palatino utilizzasse lenti di ingrandimento (è un fatto assodato che le lenti di ingrandimento erano vendute nelle mesticherie come utensili per accendere il fuoco) per leggere i segni incisi sulla tavoletta, fortuna vuole che le tavolette erano di argilla e non di cera. Be’ chi era Berlumesc? Noi non lo sappiamo, anche se sospettiamo che sia stato il primo re della dinastia dei re di Orzowei. L’epopea inizia con un peana e un lamento alla luna, Berlumesc è presentato come un despota che rincorre le fanciulle ed infligge agli uomini lavori estenuanti:

Cantami o Luna, di Berlumesc la risata funesta,
tutte le cose prese e ci lasciò una lisca.
(*)
Egli con occhio neghittoso vide ciò che era segreto,
con occhio voglioso scoprì ciò che era celato,
non lasciò in pace né vecchi né bimbi,
tutti li volle sotto, a macinare orzo, per farsi la birra,
la sera ebbro raccontava, a Skakajolo, storie di prima del diluvio.
Egli rincorse diecimila fanciulle, tremila pecore e un fagiano,
finché stremato, perse i capelli e trovò la pace,
fece incidere tutte le sue fatiche su una tavoletta di argilla: codesta!
(ma “codesta” non lo scrivere, o scriba maldestro!).
Egli fece costruire le mura di Orzo-il fienile,
e del santo Orzo-il covile, dove custodiva sacri tesori.
Mira le mura dai fregi intrecciati come lana caprina.
Calpesta la soglia a gradini di età antica.
Sali sopra le mura di Orzo-il fienile e percorrile in tondo.
Assaggia le fondazioni, annusa la base di mattoni.
Non furono le sue pizze davvero cotte in un forno a legna?


Berlumesc è uno strano miscuglio di Davide e Golia, un gigante astuto, con una copiosa chioma corvina e riccioluta, e una gran barba nera che arriva fino all’ombelico, l’eroe ha un timbro di voce che sembra un tuono in aperta campagna, ed è dotato di una grande parlantina:

Berlumesc, alto, logorroico e terribile,
che aprì passi nelle montagne tirando una ciabatta,
che scavò pozzi con i denti sui fianchi delle montagne,
che attraversò il grande mare aperto e non si bagnò le ginocchia;
che esplorò il mondo alla ricerca della brillantezza (eterna).
Chi potrà eguagliare il suo portamento regale (già chi?),
e dire come Berlumesc con voce di tuono in aperta campagna: « Io sono unto»?
Berlumesc era destinato alla fama dalla nascita:
per 3/4 è dio, per 1/3 uomo, per 2/8 è un mistero tremendo.
Fu il Sole a disegnarne la forma,
e l'acconciatura dei capelli fluenti, e la barba nera fino all’ombelico, e l'aspetto radioso, e...


lacuna

Gli abitanti supplicano la dea Luna, e la Luna ci pensa un po’ su e decide di creare Skakajolo, un essere mostruoso, un idiota di proporzioni gigantesche, un gigante ottuso e ignorante ma forse capace di affrontare e vincere Berlumesc:

Tutto il suo corpo è ricoperto di peli rossi,
i capelli del suo capo crescono come orzo.
Ma non conosce la birra né le leggi del suo paese;
egli è vestito come un venditore di almanacchi dell’anno passato,
egli è calzato come la serpe del fosso riarso.
Con le capre egli bruca l'erba,
con i bovi beve nelle pozze d'acqua,
con i gatti gioca a nascondino.
E’ acclarato che è un povero tapino.
Egli non ha un riparo, si bagna la zucca quando piove.
La Luna protegge e difende i suoi interessi
[ ]

I due eroi si affrontano in aperta campagna, dunque fuori le mura di Orzo-il fienile. Berlumesc vince, ma prova subito dopo una calda amicizia per il povero gigante disgraziato e ne fa il proprio maggiordomo di palazzo. Lasciato il palazzo nelle mani capaci di Skakajolo, d’ora innanzi Berlumesc prodigherà il suo indomito vigore in opere pie ed imprese eroiche, come abbattere una intera foresta di cedri, uccidere il toro sacro della dea Luna, disegnare sulla sabbia reti di canali e di strade, ecc. Mentre Berlumesc è alle prese con le sue eroiche imprese, il clero invidioso, del tempio Orzo-il covile, convince Skakajolo dell’approssimarsi di una terrificante tempesta e di un diluvio universale. Skakajolo fugge atterrito nel bosco, regredendo ben presto ad una semplice vita pastorale. Infatti, a questo punto del poema, c’è una lunga digressione sui tentativi infruttuosi di Skakajolo di convincere il dio Lira a sostituire il suo strumento musicale con uno zufolo, o ciufolo, dal latino sibilus, sibilo; ma la divinità s’infuria e trasforma Skakajolo in un piccione bianco (da qui l’origine dei piccioni skakaioli). Gli dèi esaudiscono la falsa profezia del clero del tempio Orzo-il covile e una terrificante tempesta si scatena sulla terra, e la terra è inondata: tutta l’umanità è ridiventata argilla, cioè quasi tutta, si salvano Berlumesc, una dozzina di fanciulle, tre pecore e un fagiano. Spunta l’arcobaleno e improvvisamente Berlumesc perde i capelli, ma non si rassegna all’evidenza e prende a lamentarsi:

Che fare, dove andare?
Un demone ha preso possesso della mia testa;
capelli
[ ] cuscino [ ]
capelli
[ ] pettine [ ]
capelli
[ ] zuppa [ ]
capelli ovunque io vada
[ ]
capelli [ ]

lacuna

Un mago locale impietositosi del lamento del sovrano regala all’eroe la “pianta della brillantezza”; tutto felice l’eroe, con la piantina stretta nel pugno, si dirige fischiettando verso Orzo-il fienile, saltellando come una capretta in primavera e cantando strofe licenziose, accompagnandosi col liuto. Ma arrivato ad uno stagno, tutto accaldato, non esita a buttarsi dentro, e una biscia, attratta dal profumo della pianta, esce dall’acqua, mangia la piantina e si ricopre di peli. Berlumesc definitivamente sconfitto, arriva, singhiozzando amaramente, alla città deserta. E invita il mago locale (che lo ha seguito tenendosi a distanza) a salire sulle mura della città per ammirarne le fondamenta… A questo punto il testo si interrompe bruscamente, perché la tavoletta 313.c purtroppo è spezzata in basso a sinistra. (2)

(*) Berlumesc fondatore della lingua orzoweiana classica?

(1) Atti dell’Assemblea di Primavera dei Soci Fondatori, tenuta nella soffitta della sede distaccata, di New Bedford, della Pierpont Morgan Library, il 1 marzo 1944.
(2) Un Gilgameš a Orzowei?, Nota del Socio Silver S. Spikspan, presentata dal Socio C. Pancalakaprakampa, nella seduta del 28 febbraio 1954. Estratto dal vol. I, 1° sem., fasc. 1, dei "Rendiconti della Accademia degli Orzoweiani".

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martedì 11 maggio 2010

no free dogs (errata vision)

Posto questo frammento della Coscienza di Zeno di Svevo, come prova che in piena età moderna Svevo era già oltre il post-moderno:

E il dottore registrava. Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello». In verità, noi non avevamo piú che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.
Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare. C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora. E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai. Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giú, giú, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina. Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe. Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore. Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa. All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello piú giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui. Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa. Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodí! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare. Era stata una visione di un'evidenza enorme. Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo. Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani. E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città. Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche. Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono piú non appena io uscii dall'infanzia.
La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca. Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola. Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno. Piú tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.
La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché piú vasta di qualunque altra che vi è realmente. È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina.
Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.
La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole. Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero. Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò piú a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua. Ma non vi riuscii. Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza. Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra. Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo. Mi disse:
- Mi presti il tuo cucchiaio?
Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio. Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:
- Sí! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.
Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore. Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:
- Vergogna! Strozzino!
Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente. Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.
Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica. Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa. Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.


La coscienza futura sarà come la coda del cane... o di un opossum :)
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lunedì 10 maggio 2010

CEIsAAA, VII

In numerose lettere provenienti dall’archivio di Favbrillhà, soprattutto dell’ambito della corrispondenza interna, si ritrovano al termine della tavoletta dei post scripta, separati dalla lettera principale da due linee orizzontali ben evidenziate.
Il Socio C. Pancalakaprakampa ha chiaramente dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che questo tipo particolare di corrispondenza si svolge fra scribi di palazzo, ma purtroppo questo mondo non è un mondo perfetto, e il professor Pio de Pio ha sostenuto con un’energia inversamente proporzionale alla sua intelligenza che tale corrispondenza privatizia “potrebbe non essere da attribuire a scribi di palazzo bensì a personaggi della nobiltà locale, proprietari di fondi e feudi” (1), riscuotendo un immeritato ma largo credito nella stampa più popolare (quella a fumetti), tanto che il Socio C. Pancalakaprakampa ha definito l'interpretazione del de Pio una "idea completamente sbagliata e tuttavia largamente diffusa".
Si tratta per lo più di saluti, rivolti dallo scriba del mittente allo scriba dell’altra cancelleria; talvolta però da questi post scripta si possono ricavare notizie utili sulle altre funzioni attribuite agli scribi, oltre a notizie sull’ordinamento interno della categoria, grazie ad una attenta disamina del formulario ivi contenuto. Con riferimento al primo caso ci sembrano degni di attenzione due post scripta provenienti dall’archivio di Favbrillhà, che mostrano come probabilmente gli scribi potessero avere accesso all’amministrazione del Palazzo di Favbrillhà:

Così parla Ululì,
A Uzzubombo, mio caro cugino, dì!
Fino a te possa essere tutto in ordine.
Gli dèi possano proteggere la tua buona salute.
Ehm, Ululà mi ha promesso un bue.
Ora, il mio caro cugino lo tiene legato lì.
Lascialo uscire.
Mandamelo.
Possano gli dèi avere pietà di te.

E il secondo post scripta, sempre indirizzato a Uzzubombo, lo scriba più importante del luogo che risulta avere anche una residenza a Favbrillhà (con vista panoramica sull’acropoli templare), recita così:

Così parla Ululà,
A Uzzubombo, mio caro cugino, dì!
Mandami quel bue che mi hai promesso.
Che l’ho promesso a quel rompitavolette di Ululì (per un debito a conchino).
Lascialo uscire!
Mandamelo!
E non scrivere più che c’hai fatto il lesso!
Che se dovessi acclarare che il bue è andato dal Grande Nonno nel campo di segale... (?)
allora che gli dèi possano avere pietà di te.

Come possiamo facilmente arguire, in questo caso, Uzzubombo ha la possibilità di inviare i doni sia promessi da lui stesso, che da un suo superiore, Ululà. Doni che almeno in un caso ha abilmente sottratto al legittimo destinario con una misteriosa trasformazione alchemica.
Fuori dubbio che gli scribi avessero funzioni più importanti del banale leggere e del triviale scrivere, essi erano: auguri; addestratori di piccioni viaggiatori; maestri nelle arti metallurgiche, già ai tempi del funzionario di palazzo Karciuphinu e del vecchio sovrano Shuppipandira'hinukhaliya; esperti conoscitori di ignote procedure alchemiche nella trasformazione di metalli ferrosi in oro. In effetti, la parola orzoweiana UzzU significa con qualche approssimazione "bue”, ma con l’aggiunta del suffisso -bo si legge, a seconda del contesto della frase, “lesso” o “oro” o “tangente”. Volendo fare un po’ di gossip si potrebbe tradurre il nome dello scriba Uzzubombo in “vecchio bue che defeca oro”.
Anche fra scribi esisteva disparità di rango e parità, sia dovuta alla loro posizione all’interno della scuola scribale sia a motivi di anzianità, Uzzubombo era uno dei più vecchi scribi del periodo in esame, infatti è apostrofato con l’epiteto di cugino. L’uso di epiteti familiari (pischello, zio, cugino) è teoricamente frequente all’interno del formulario di saluto nell’archivio di Favbrillhà, ma “cugino” è l’unico che si ritrova effettivamente, almeno nei post scripta dell’archivio di Favbrillhà. (2)

(1) Atti dell’Assemblea di Primavera dei Soci Fondatori, tenuta nella soffitta della sede distaccata, di Pontito (Pescia), della Pierpont Morgan Library, il 1 marzo 1948.
(2) Post scripta, Nota del prof. O.K. Allright, presentata dal Socio Silver S. Spikspan, nella seduta del 10 maggio 1954. Estratto dal vol. I, 1° sem., fasc. 3, dei "Rendiconti della Accademia degli Orzoweiani".
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venerdì 7 maggio 2010

errata vision

Ieri: Berlusconi: chi vota a sinistra è un coglione.

Oggi: Scajola: appartamento con vista su grazioso rudere romano di 180 mq (l'appartamento, non il rudere romano), comprato a poco più di 3000 Euro al mq. Io ci (gli) credo al povero ex ministro, che mica la vista era sulla casa di Totti, che altrimenti il povero ministro, ex, ne avrebbe spesi e volentieri il doppio.

Commento a un commento ai PS (n. 9)

Uscite dalla fanga et io farò di voi un'Armata ardita

Esiste una patologia che fa sì che allo specchio si veda un mostro? Be' intanto con questo post continuo una serie di post dedicati al commento di una serie di note poste a commento a una vecchia edizione dei Promessi Sposi (PS). Il libro, comprato nel lontano 1997 è una ristampa di una vecchia edizione, commentata quasi virgola per virgola da un petulante e anonimo commentatore, probabilmente vivente e operante nella prima metà del secolo scorso.
Come dire, un modo come un altro per (a) consumare la vista: i caratteri che compongono le note di commento sono assai minuti; (b) rileggere i PS; (c) capire perché professori di scuola superiore invitano alla compera di PS che costano una sassata perché contengono almeno 10.000 note.

Piccola legenda alla lettura dei post:
[…] testo dei PS […]
(x) commento dell’anonimo commentatore

Da dove si continua? Ovvio, dalla terza nota del capitolo XI, cioè dal soliloquio di don Rodrigo.

[...] In quanto ai sospetti, - pensava, - me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? (3) Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura [...]

(3) Chi gli darebbe retta? Non è una sgrammaticatura (come afferma il Rigutini), ma ha esempi anche classici ed è dell’uso (nessuno direbbe in Toscana chi loro darebbe retta). Gli è stata sempre forma comune per il singolare e per il plurale, per il maschile e per il femminile; e le maestre farebbero bene a essere un po’ più indulgenti, su questo punto, coi poveri ragazzetti di terza elementare.

Manzoni scriveva in italiano, anzi in toscano, forse in fiorentino, infatti, Renzo che vive da qualche parte nei pressi del lago di Como ciarla liberamente con mezzo mondo, e con genti di città e con genti di campagna e tutte le terre porgono orecchio e, soprattutto, lo capiscono, anche gli asini e i maiali lo capiscono (e viceversa), e se farfuglia fra i denti una frase con i puntini di sospensione l'oste della malora fa subito sì con la testa, e non solo ma Renzo chiama tutti buoni figliuoli; un po’ come succede in Star Trek (dove anche l'alieno di forma e sostanza di un sasso con il muschio sopra è un bravo figliuolo, infatti, comunica con Spock e prima o poi farà piangere il Capitano per qualcosa o per qualcuno o per qualcosa che ha perso qualcuno da qualche parte, benedetti 'sti alieni distratti), però Manzoni era nato a Milano, mentre dell’anonimo commentatore (ac) che incombe, narcisticamente parlando, sul povero Manzoni come un pipistrello spelacchiato priapescamente ossessionato dalla grammatica anche quando fa il superiore e il lascivo, non conosciamo né data né luogo di nascita. Noi avanziamo una peregrina teoria, cioè che dietro ac ci sia il nostro buon figliuolo Omero Redi (quello delle pìstole al buon lucertolo, il Vamba).
Sempre così refrattario a declinare indirizzo e mostrare carta d'identità e codice fiscale, tanto da inventarsi un nome Ermenegildo, un cognome, Pistelli, e una professione, il prete, palesemente e spudoratamente falsi, l'Omero Redi è stato a suo tempo elogiato da Tullio De Mauro in Parlare italiano (Laterza, 1972): “dietro l’apparenza umoristica vi troviamo analisi esemplari della condizione dell’insegnamento e proposte, ancora oggi positive o addirittura d’avanguardia, per una educazione libera, critica, non autoritaria” (pag. 395).
Ecco subito un esempio di proposta positiva o addirittura d'avanguardia per una educazione libera, critica, non autoritaria e che svela l'identità del nostro anonimo commentatore (nac): “mentre dei professori ce n’è tanti che fuori di scuola parlano come me e come te, che nessuno di noi direbbe mai come una professoressa e io dissi loro, ma si dice gli dissi maschio e femmina singolare e plurale, anzi io, come ti sarai accorto, anche quando scrivo scrivo sempre gli dissi…” (Pìstola LV), e conclude: “…professoresse io non ne ho avute mai, e in fondo son contento che sia così perché a me mi pare che per un omo sia sempre un po’ di vergogna farsi insegnare qualcosa da una donna, fuorché dalla mamma”. Ancora, quando l'Omero, accompagnato dal prete, che gli sta sempre alle costole (che poi è sempre lui), assiste a una conferenza sui “Principii fondamentali della pedagogia scientifica”, ancora prima di mettersi a sedere già prende per il culo l’aspetto fisico del povero conferenziere: “era uno spilungone con gli occhiali e aveva un palandrone nero che il suo corpo striminzito ci nuotava dentro e quando si presentò in mano aveva una gran tuba che a tempo del re Pipino sarà stata nuova” (Pìstola LVI). Seduto, ben presto s'addormenta, cullato dalla “vocetta agra in falsetto che pareva quando arrotano i denti a una sega” del conferenziere. Al risveglio l'Omero non ricorda nulla della conferenza e non può fare una sintesi all’amico lucertolo, che ha la bava alla bocca perché ha un Giornalino che morde il freno in tipografia, ed è sempre assetato di notizie e di gossip; cioè una cosa Omero la ricorda: una riflessione del segaiolo stringaforme sulla triste situazione dell’edilizia scolastica di quei tempi là, con la sentita speranza che tutte le scuole del regno - allora non era un modo di dire - avrebbero dovuto avere (o sul davanti o sul didietro) un fiocco rosso e un bel giardino verde verdino, con tanti alberi da ombra, sempreverdi - dicesi sempreverdi tutte quelle piante che, contrariamente alle caducifoglie, non lasciano cadere le foglie durante la stagione avversa. Sono normalmente legnose (alberi, arbusti, cespugli); la caduta fogliare ed il conseguente rinnovo, avvengono gradualmente, di norma durante la formazione delle gemme. Le foglie possono persistere funzionali sulla pianta per più anni. Sono comuni, spesso prevalenti, nei climi tropicali umidi oppure nei climi freddi, dove, per motivi opposti, la persistenza delle foglie non mette in pericolo la sopravvivenza della pianta (Wikipedia) - e fin qui anche l'Omero è d’accordo, sia con il conferenziere nastriforme che con la citazione da Wikipedia, ma i giardini non sono lì per bellezza, con quel che costa il suolo urbano soprattutto con vista su rudere romano, perché ogni cinquanta minuti di lezione, i giardini verdolini, avrebbero accolto gli alunni bianchi, verdi, rossi e gialli “a prendere aria”, così che, con la mente svagata, sarebbero stati attenti alla lezione successiva del maestro o professore. E Omero ride, come rideva Franti. Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È malvagio. Da orecchia a orecchia ride l'Omero con la faccia nascosta sull'omero e se ne vanta con lucertolo, che mica è Franti (povero Franti espulso da tutte le scuole del regno); ride l'Omero malvagio, pensando agli urli di gallina stretta all’uscio del direttore scolastico, tutte le mattine feriali del mondo, per fare entrare gli alunni nelle classi, ride pensando all’impossibilità dei maestri o professori di fare lezione il primo giorno di scuola dopo le vacanze di Natale di Pasqua o il lunedì, insomma ride.

Omero aveva ragione? E io che ne so... Ma mi pare a me di aver provato, a sufficienza, che ac è Omero Redi, ma da quella nota di ac del capitolo XI possiamo ancora macinare farina.

L’usanza di tanti maestri di raccogliere temi e componimenti e giustificazioni di forche fatte dagli scolari, così come le collezioni di francobolli da parte di giudici e avvocati, risale probabilmente al tempo del codice di Hammurabi, ma per macinare la farina non serve spingersi fin là, ché basta arrivare all'anno 1918, in Italia, con ben due citazioni. La prima citazione è presa dalle Pìstole di Omero:

“Tra i documenti che in tanti anni ha messo assieme il mio professore, ce n’è uno così buffo che gli ho domandato di poterlo pubblicare. Un caro bambino di terza elementare – che ora è un bravo ingegnere ed è stato anche un valoroso ufficiale nella nostra guerra, che si chiamava Cecchino e il mio professore lo chiama ancora così – una mattina riuscì a imbrogliare la donna di servizio che l’accompagnava e invece di andare a scuola andò dalla nonna, e le diede a intendere che quel giorno era vacanza. Come rimediarla la mattina dopo? Scrisse da sé una scusa, a nome della mamma, e la portò al maestro. Ve la copio tal quale, perché è un piccolo capolavoro:

Caro signor maestro,
Lei deve sapere che il mio bambino ieri non venne a scuola perché aveva mangiato troppe ciliege coi noccioli e io gli feci prendere un purgante e lo feci stare a letto. Il purgante era molto cattivo ma la mamma mi promise di portarmi a prendere un gelato, e allora lo bevvi tutto d’un fiato e mi ha fatto l’effetto benone. Dunque scusi e mi creda la sua
affezionata serva M. P.

Vi potete immaginare quel che accadde. Il maestro sulle prime voleva star serio ma non gli riusciva. Mandò a chiamare il Direttore, che era molto severo, e gli dette la lettera. Quello la lesse, tentò di fare un predicozzo, ma sul più bello gli venne da ridere e dovè scappare. Gli altri ragazzi fecero una baldoria che non vi saprei descrivere […] il peggio fu che da quel giorno i compagni ogni mattina quando arrivava gli andavano incontro a domandargli: - Cecchino, come sta l’affezionata serva? – E lui ci piangeva di rabbia”. (Pìstola LXII).

E la seconda citazione è una lettera scritta dalla vedova di un soldato fucilato nella guerra del 1915-1918, lettera allegata agli atti processuali, rimasta senza risposta.

"29 gennaio 1918
Eccellenza,
Sono due mesi, daché il mio consorte U.C., soldato del 39° reggimento fanteria, è stato fucilato, ed io fino ad oggi era ignara di tutto; però se egli ha meritata tale pena, perché ha tradito la Patria, allora io mi rassegno a tutto ciò che hanno fatto i suoi superiori, i quali non agiscono né sbadatamente e né per vendetta; ma se poi è stato per mero errore o per false denunzie, allora mi permetto di pregare la S.V. perché assuma tutte le informazioni possibili e si ricordi che sono vedova con un figlio e sono digiuna nel vero senso della parola. Attendo riscontro e La saluto
Dev.ssima Serva A.C
." (1)

Le due giustificazioni hanno molte cose in comune, entrambe sono state scritte non dal soggetto ma da qualcuno che ha cercato di esprimere concetti virtuosi stando immerso fino al collo in un mare di merda. In un tempo quando i gamberottoli di buona famiglia borghese si vergognavano quasi come figli di emigrante o di spazzacamino di avere uno zio imboscato o traditore, piuttosto orgogliosi di avere un parente in marina e uno appostato sui tetti a sparare ai passanti, e prendevano in giro i figli della povera gente almeno due volte al giorno (noi fortunati che viviamo in un presente democratico e radioso, ecc. ecc.), tentare di scrivere una giustificazione su qualcosa che non era possibile giustificare era un'impresa degna del Barone di Münchausen, ché a quei tempi là i figli della gente comune erano come gente perduta sulla terra, e guai a chi veniva scambiato per uno di loro.

Allora esiste o non esiste una patologia che fa sì che allo specchio si veda un mostro? Probabilmente sì, di sicuro di tale patologia non ne doveva soffrire il buon Omero né ne soffre il nostro amato Silvio (nas).

(1) Tullio De Mauro, Parlare italiano, pag. 626 (Laterza, 1972)
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