domenica 28 febbraio 2010

A cavallo di un'anatra spennata (Incontri con l'arte 1)


Pasqua dell’anno 2036. Cenacolo vinciano, davanti al famoso affresco dopo un restyling. Turisti osservano, all’oscuro della presenza di una tv locale che li riprende. I turisti aprono la bocca, è tutto un pianto greco di esclamazioni, Meraviglioso!, Straordinario disegno!, E i colori, i colori!, Che incomparabile visione! Guardate l’espressione di Giuda! Viscido, veramente viscido! Sepolcro imbiancato! Mi verrebbe quasi voglia di sputargli addosso! Non si può! Purtroppo! Purtroppo!...
Due tizi parlano davanti alla telecamera. Quello che tiene il microfono in mano, è sicuramente un vecchio bacucco intervistatore generico, l’altro, capello fluente e bianca coda di cavallo, è un pittore quotato, infatti, i suoi quadri sono come assegni postdatati. Il vecchio generico fa domande qualunque al pittore, mani in tasca e sguardo astioso e sospettoso, che si chiama maestro Mastro F. Maestro. I due sono sicuramente amici, si frequentano da trent’anni, e spingono a turno la carretta piena colma di retorica. Se uno ritarda l’altro aspetta per fare insieme il resto della strada… Ma poi qualcosa si spezza tra i due, improvviso tra le a e le o si crea uno iato esofageo, e l’incanto si infrange, come un bicchiere di vetro cristallo, cadendo in terra al rallentatore, esplode in impalpabili stelle filanti, così noi sentiamo cangiare la voce dell’intervistatore, in un tono che è quasi un soffio asmatico, sta introducendo l’ospite, la spalla, il frequentatore assiduo di musei e cimiteri. Così nomato, così invitato, così chiamato, ma come il vampiro delle fiabe era già lì appostato (ma fuori l’occhio della telecamera), spunta da destra un omettino piccino picciò, arriva a malapena con la testa al cinturone del Maestro, ha una faccia come la prugna secca trovata in bocca a Tutankamon (o era la lingua?), e una giacca smessa che è tutta una grinza, ma gli occhi lucidi provano un lavorio continuo delle cellule grigie, e i peli irti e bianchi sulle guance testimoniano una libera professione, quella del critico d’arte. Il critico ha un nome e pure un cognome, Magico Primario. Magico Primario ha il compito di spiegare l’Ultima Cena, dice, solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, potrà dare un senso a questo magico affresco vinciano. Ma vediamo, vediamo uno che tesse le dita delle mani insieme e volge accigliato lo sguardo verso il compagno, uno con le mani aperte mostra le palme, e alza le spalle alle orecchie, e spalanca la bocca di meraviglia, uno parla nell’orecchio di un altro, quello che lo ascolta vorrebbe affettare il pane ma non può perché è educato, ma uno più moderno guardate soffia sul boccone, e Giuda se ne sta col collo rigido, la testa orgogliosa quasi all’indietro, punta la fluente barba nera come una spada sguainata, lo sguardo ardente è corrucciato, guai a voi anime prave…
Magico Primario si volta e ruota la testa sull'esile collo gommoso, Maestro, se tu fossi un’anatra grigia, come opereresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito nella visione dell'affresco brooksiano. Dove se ne andrà? Dove è già andato? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile di maestro Mastro F. Maestro ingrato. Vieni, vieni sotto l’ombrello che a Milano stanno piovendo frammenti di asteroide. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, e a Milano fa freddo, tira vento, siamo solo alla metà di aprile. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… O Magico Primario.
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CEIsAAA, III

Gli eredi di Oliver (Ollio) Sassu, direttore degli scavi archeologici a Favbrillhà, offrono al popolo di Internet la fedele trascrizione, da un supporto magnetico – ahimè, ahinoi, ahivoi, purtroppo parzialmente smagnetizzato -, degli atti di una risolutiva e definitiva riunione della Fondazione Favbrillhà (FF). La memoria analogica del nastro magnetico custodiva gli Atti dell’Assemblea di Primavera dei Soci Fondatori, tenuta nella soffitta della sede distaccata, di New Bedford, della Pierpont Morgan Library, il 1 di marzo dell’anno mille novecentoquarantaquattro. Gli argomenti all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile, furono i seguenti:
1) lettura della memoria del Socio Pio de Pio, Da dove deriva l'espressione “Per un piatto di lenticchie”?;
2) lettura della memoria del Socio O.K. Allright, Ho scoperto il nome del magico Regno;
3) varie ed eventuali.

[…] vorrei sapere perché dobbiamo sempre riunirci in questa soffitta polverosa e piena di topi, non è proprio possibile affittare l’Auditorium? Manco fossimo appestati!!!
Oliver (Ollio) Sassu – Ancora con ‘sta storia… all right…
O.K. Allright – Sì?
O.S. - Cosa?
O.K.A. – Oso?
O.S. - Cosa osa cosa?
O.K.A. – Lei ha detto “osa”
O.S. - No, io ho detto “cosa”…
O.K.A. – Cosa che cosa?
O.S. - Cosa che cosa cosa!?
O.K.A. – Cosa che cosa cosa o cosa io oso cosa?
O.S. - O.K…
O.K.A. – Sì?
O.S. - Uh, come vola il tempo, ieri era appena Natale, con panettoni fichi secchi datteri pistacchi noci nocciole noccioline arance mandarini, ed oggi è quasi Pasqua con la colomba e le uova di cioccolato (e l'estate è già alle porte coi sassi), dunque saltiamo pure il primo punto dell'ordine del giorno, e diamo la parola al nostro caro collega O.K. Allright… [lamenti, frasi incomprensibili e biascicate] Si calmi! Suvvia... Non si accalori per così poco, la sua memoria la leggeremo tutti, con calma, a casa…
O.K.A. – Bene, tenetevi forte alle sedie, perché quello che vi esporrò vi farà sicuramente cadere con il culo per terra. Ebbene, sì! Ho scoperto il nome dello stato che un tempo si estendeva dal mare superiore al mare inferiore! Dopo anni che sto traducendo…
Pio de Pio – Stiamo traducendo…
O.K.A. – Stiamo traducendo le migliaia di tavolette dell’archivio di Favbrillhà, che noi abbiamo scoperto…
Arne Otto Saknussen - Che il mio avo, Arne Saknussen (sempre benedetto sia il Suo Nome), ha scoperto!
O.K.A. – Su questa osservazione del collega archeologo, l’assemblea mi consentirà di dubitare, e fortemente! Il collega stasera, prima di coricarsi, si rilegga la mia memoria Il gibbone indovino di Favbrillhà… [rumori, parole intraducibili, richiami all’ordine del Presidente] Se non posso esporre la relazione mi vedrò costretto a lasciare immediatamente questa assemblea, e fondare un’associazione per conto mio… (poi non piangete, se domani siete sul giornale)… [rumori, parole censurate, nuovi richiami all’ordine del Presidente] Posso proseguire la lettura? Uh, quante storie… le prove? Eccole!

Traduzione e lettura della Tavoletta 999.a

Così parla P[upo, il Gran Re], il Re di Egitto:
A PesOdipiumabambU (?), il Re di [Orz]ow[ei] dì:

Fino a me tutto è bene. Io sto bene. La mia casa, le mie bellissime spose bambine, le mie giovanissime concubine, i miei carri fuoristrada, i grandi, i miei eserciti, le mie formidabili legioni armate, stanno tutti bene, anche il mio bestiame, le mucche, i manzi e le galline, i pulcini poi sono un amore, i grassi maiali sono sempre al truogolo, i tacchini riempiono i boschi dell’eco del cupo rimbombo delle loro ali […] i pavoni con le code fiammeggianti nel sole, stanno bene, i conigli con l’insalatina stanno bene. Sì [grazie, ambasciatore Biggazz]U – anche i gatti SACRI stavano bene. Le mie terre stanno bene, tutto ciò che vi striscia sopra, vi svolazza sopra, vi zampetta sopra, su due zampe, stanno bene; su quattro zampe, stanno bene; anche i [miei] vecchi non c’è malaccio. Anche i pesci del Nilo stanno bene, sono sani come pesci. Sì [grazie, ambasciatore Biggazz]U – anche i coccodrilli SACRI del Nilo stavano bene. Insomma, tutto va ben, sotto il sole di Egitto!
Possa fino a te essere tutto bene!
La tua pittoresca bicocca vicino alla palude dei girini, la tua moglie mia sorella Bad’llhavekhia, i grandicelli, le tue carrette, i tuoi quattro armati, le tue venti [coppie di cavalli?], le tue cavallette fritte, il tuo baston da pollaio (il nonno?), e il tuo cane da presa, quello buffo con il m[uso strano?], i tuoi piccioni skakaioli, il tuo campo di grano e il tuo campo d’orzo. Insomma, le tue quattro prugne. Tutto possa stare bene!
Ho saputo, dal tuo [ambasciatore Biggazz]U, che ti hanno mangiato la gatta, quella che amavi tanto, con gli orzaioli. Ho riso (pianto) tutta la notte.
Vedi, io ti ho mandato Robadikappa, il mio ambasciatore con la piuma sul cappello, con l’ordine: “Lasciaci vedere la figlia, che la mia Maestà vuole sposare! Si lasci versare olio di oliva sul suo capo!”
Vedi, io ti ho mandato uno zabaione (?) di uovo fresco di gallina, mica [uovo di coccodrillo].
Tu mi hai scritto: “Mandami i doni!!!”. Io ti manderò […] tu però […] allora io […] e poi tu […] il mio ambasciatore […] egli è […]
Non mi mandare più BigazzU!!! […] i gatti sacri […] preferisco [che tu mi mandi la gente] della terra dei Kaska!
Dimmi, è vero che la terra di Hatti è tutta una rovina? O se fosse vero, c’avrei proprio piacere!
Vedi, io ti ho mandato, con Robadikappa:
1 zabaione (?), 20 mine di matita, 2 penne bic, 3 lenzuola pulite, 6 fazzoletti da naso, 3 pezze da culo, 8 bende da mummia, 1000 pezze di stoffa mutallijassa, 4 grandi anfore con buon vino di Falerno, 4 anfore d’olio di semi di girasole, 1 poltrona di vimini, 1 pomo d’ottone, 1 manico di scopa.
Salutame ‘a soreta.

La tavoletta 999.a dell’archivio di Favbrillhà è la copia di una lettera che sembra far parte di un carteggio più ampio fra un misterioso Faraone d’Egitto (il cui nome è ora leggenda), e il re PesOdipiumabambU di Orzowei. Il paese di Orzowei si deve collocare storicamente, e geograficamente, nell’Anatolia sud-occidentale, a sud-ovest di Hattusa ed a ovest di Kizzuwatna, lungo la costa del Mediterraneo, cioè esattamente dove si estenderà, nella seconda metà del secondo millennio il regno di Arzawa. Anche una gallina per strada sa leggere nel toponimo Arzawa la corruzione di Orzowei. Il nome (fino ad oggi sconosciuto) del regno che si estendeva dal mare inferiore al mare superiore, all’inizio del terzo millennio a.C.
Dalla lettera si evince che il re di Orzowei tratta da pari a pari con un Faraone di probabile origine pigmea. Un’allusione del Faraone alla terra di Hatti in rovina ci costringe a collocare i protagonisti della lettera o subito prima o subito dopo il regno Ittita. Se la logica non è un bicchiere di orzata, si può sicuramente datare la nostra tavoletta, con un margine di tolleranza di un anno in più e un anno in meno, alla primavera dell’anno 2810 a.C.
A quelli più neghittosi fra noi faccio notare l’uso della parola "riso", per esprimere uno stato d’animo malinconico, assorto e addolorato, infatti, già agli albori della scrittura si sostituiva la rappresentazione di concetti difficilmente esprimibili con figure o segni, con immagini di idee di suono simile, ma di significato completamente diverso. La frase “Ho pianto tutta la notte”, è espressa con quattro chicchi di riso, una falce di luna e il determinativo Faraone-che-saltella. L’egiziano non guarda molto pel sottile, se trova un buco ci si infila, ad esempio per scrivere orecchio (msdr), poneva accanto al disegno di una sventola (ms) il disegno di un canestro (dr).
Concludo con una piccolissima nota polemica. Chi se non il mio carissimo, esimio collega, Pio de Pio poteva tradurre la frase “Porgimi orecchio!” - presente nella tavoletta 121.a di Favbrillhà - in “Mosè! E molla codesta cesta che devo sventolare il fuoco!”. Oh very young! [Rumori, parole censurate, richiami all’ordine del Presidente]…
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venerdì 26 febbraio 2010

Bestiario n. 11 (Magico Primario)


Un tempestoso sabato verso la fine dell’anno 1841, nella locanda Spouter Inn di Peter Coffin, a New Bedford. La locanda è una wunderkammer, oscura e fumosa, l'oste versa il rum in un bicchiere Eukanuba, e affitta camere ammobiliate con teste e divinità tascabili. Ismaele osserva un quadro con una balena che salta sopra una nave, il titolo del quadro è yepeee! Ismaele chiede ad un tizio (forse proprio al pittore), se una balena può fare questo. E il pittore gli risponde che una balena può fare qualsiasi cosa. Può saltare su come un terremoto, piombarti addosso come una montagna. Una balena può sfondare la fiancata di una nave, inghiottirne l’equipaggio, usare i remi come stuzzicandenti…
Un tempestoso sabato verso l’inizio dell’anno 2010. Toh, due tizi qualunque che cianciano in una tv locale, davanti a quadri materici astratti informale qualunque, con pezzi di un giornale qualunque appiccicati con colla qualunque, nessun senso nessun significato solo fonemi ah, oh, eh, bah! Quello che tiene il microfono in mano, è sicuramente un intervistatore generico, l’altro, che tiene le mani in tasca, è di sicuro uno specialista nell’arte di dipingere e forse vendere quadri ma quando parla non si capisce un ca[volo], vola da un periodo all'altro, da un pittore morto ad un altro defunto. Il generico fa domande qualunque all’artista con le mani in tasca e lo sguardo astioso e sospettoso, leggiamo in basso si chiama Mastro Felix Maestro. M.F. Maestro è un cannibale dei mari del sud, è nato in un posto lontanissimo, non è segnato in nessuna carta, ma i posti veri o quelli di merda non lo sono mai. I due sono stranamente amici, e spingono a turno la carretta piena colma di retorica, su e giù davanti ai quadri appesi del pittore, tutta la gente seduta ai tavoli apre gli occhi e spalanca la bocca, non tanto alla vista delle opere del cannibale, gliene importa assai (a loro basta bere, a loro basta mangiare), ma perché vogliono vedere cosa infilano in bocca. Ma poi qualcosa si spezza tra i due, improvvisamente l’incanto si rompe, come un bicchiere di purissimo vetro di cristallo cade in terra al rallentatore così noi sentiamo che è cambiata la voce dell’intervistatore, in un tono roco e chioccio, infatti, sta introducendo l’ospite, la spalla, il frequentatore assiduo di avvenimenti artistici. Così nomato, così invitato, così chiamato, ma come il vampiro delle fiabe era già li appostato (ma fuori l’occhio della telecamera), spunta da destra un omettino piccino picciò, arriva a malapena con la testa al cinturone di Maestro, con una faccia secca secca che è tutta una ruga, e una giacca smessa che è tutta una grinza, ma gli occhi lucidi provano un lavorio continuo delle meningi, o un passato di meningite, anche i peli irti e bianchi sulle guance scavate sono lì seduti sul banco dei testimoni a testimoniare la professione diurna intellettuale dell'omettino, forse medico? paramedico? addirittura dirigente d'azienda & scuola-bus? Non c’è peggior terrore, non esiste angoscia esistenziale più grande che immaginare un nottambulo critico d’arte che di giorno lavora all'ospedale; in ogni modo il critico ha un nome e un cognome, alé, si chiama come in un incubo, Magico Primario, di notte fa il critico d’arte, di giorno fa il primario all'ospedale. Magico Primario ha il preciso compito di fare UNA domanda UNA al maestro Maestro e poi uscire dal quadro televisivo. Maestro Maestro tace assorto sulle sue rapine, vibra d’astio rabbioso. Magico Primario dice, solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, potrà dare senso a questa magica notte piovigginosa di inizio primavera. Io Magico Primario in mobile mondo pongo la mia assoluta centralità di critico d’arte contro una realtà artificiale ed effimera di ghette e spaghetti e corde di violino e sgabelli e vuote ceste, tutto buttato nel cassonetto. Adesso sono pronto a scavalcare il presente, cavalcare l’anatra, sparendo (con essa) dentro al mio futuro. Quindi Magico Primario si volta e ruota la testa sul collo di gomma, maestro Maestro, se tu fossi un’anatra grigia, come opereresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito nella magica notte piovigginosa. Dove se n’andrà? Che fine farà? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile e personale di maestro Mastro Felix Maestro ingrato e senza cuore. Vieni, vieni sotto l’ombrello che piove. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, e fuori fa freddo, tira vento, siamo appena alla fine di febbraio. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… o Magico Primario.
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martedì 23 febbraio 2010

Bestiario n. 10 (Bruce)


Cos’è un bestiario? qui Wikipedia aggiunge una parola in latino, e allora qui ci starebbe bene quel terribile monaco tedesco, se ne andava in giro con una scintilla nell'anima, e camminando guardava le pozzanghere sulla strada, immaginava lucidi specchi immersi in catinelle piene d'acqua riflettere il sole d'agosto, e dalla casa alla chiesa pensava una paroletta in latino e poi da quella partiva, con un sermone di due ore e mezza (anche tre, quando era particolarmente divertito, in altre parole "in vena"), in tedesco (no, non è il nostro amato pontefice), e dicono andasse così inventando una lingua dalle fondamenta; il monaco sognava di tornare a vivere, un giorno, in un luogo, quasi un'isola di pagani dei mari del sud, là dove l'angelo e la mosca e l'anima sono uguali, là dove stava e voleva quello che era, ed era quel che voleva, tutti liberi da Dio; e i fedeli, alla fine del sermone, chi saltava in aria chi batteva i piedi per terra chi parlava tutte le lingue del mondo chi piangeva chi rideva chi gridava, Siamo stati accecati dalla luce liberi come il peccato fuggitivi verso le isole dei mari del sud - tremavano i muri della chiesa, tremavano le fondamenta della Chiesa - e tutti lo imploravano di continuare e gli chiedevano ancora un bis (voi sarete testimoni di tutto ciò, perché non resterà neppure un nastro pirata, bootleggers, roll your tapes!), e chi nulla.
Niente, il bestiario era un tizio che aveva cura delle fiere (sing); era una persona che lavorava nel circo (ahimé); era però, il bestiario, anche un libro, alé, una raccolta, un catalogo di animali strani, esotici, ma impossibili da vedere, annusare, leccare, toccare, inimmaginabili ed indescrivibili come dicono siano gli alieni, essi si potevano solo sentire con il senso del prodigio, spirit of wonder, per esempio (e scusate la patetica banalità dell'esempio) camminando soli soletti in un bosco oscuro.
E il bestiario era il cugino anziano e canuto, e di secondo grado, della wunderkammer, infatti, il bestiario era un tentativo quasi disperato di uscire dalle sabbie mobili della realtà quotidiana afferrandosi alle stringhe degli stivali (a quei tempi, o si andava scalzi o si calzavano stivali, ok?), invece la wunderkammer era una spezia semi svanita, coriandoli del sahara conservati in una bottiglia di coca-cola, aeroplanino di barattoli di latte nestle in polvere, assemblato dal nomade della tenda nera e venduto al turista neroabbronzato come un barattolo di nutella, quasi cosa quotidiana come l'erba e i sassi, era ricca raccolta fallimentare di “cose strambe ed esotiche”, raccolte e catalogate da gente strana e annoiata, collezionisti che non avevano mai comprato un biglietto per l’ottovolante, che non avevano mai varcato la grande soglia salata, solo aspettavano, alla finestra, i marinai con la sacca piena di tesori di fondi di bottiglia e denti di squalo e avorio e biglie colorate. E la wunderkammer esigeva un pubblico tonto, educato all’applauso, scusate: berlusconiano, o almeno un visitatore tordo, la bocca spalancata di meraviglia per questo, per quello e per codesto, e invece il bestiario era la soffitta disabitata da spettri incapaci a parlare, ma che sapevano però cantare .
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lunedì 22 febbraio 2010

Bestiario n. 9 (Internet & i vent'intestini di Facebook)

Gli estimatori di Tex hanno presente in memoria quella scena dove il ranger ha appena finito di pestare il balordo di turno che, un occhio nero e un paio di denti del giudizio in meno, si è seduto e cerca di giustificarsi, con qualche scusa puerile, ma Tex lo stoppa, dice:

Tipi come VOI non hanno abbastanza cervello per pensare, e tutt’al più, con immensa fatica, riescono a mettere insieme qualche dozzina di idiozie per dimostrare alla gente di possedere l’uso della parola.

Facebook ha tolto a molti di questi tipi anche quell’immensa fatica, oggi è sufficiente mettere la propria firma in coda a qualche gruppo dal titolo falsamente provocatorio, Uccidiamo questo, Malediciamo quello, Benediciamo Pinco, Odiamo Pallino, Votiamo in massa per Zippo, Giochiamo al tiro al segno con i bambini Down, ecc., come ieri era sufficiente a questi simpatici tipi mettersi in coda in un linciaggio.

Chiediamo al popolo creativo di Internet di liberarsi da questa meravigliosa camera delle meraviglie dai vent'intestini.

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domenica 21 febbraio 2010

CEIsAAA, II

Sulla strada, 1 luglio 193*
La strada per Favbrillhà attraversa boschi di querce selvagge e pini stillanti resina. In lontananza, sulle colline, si estendono i campi gialli di grano maturo. Uomini, donne, vecchi e bambini trebbiano e vagliano il grano, e per trasportarlo usano carri dalle ruote di fuoco. Scendono i carri dalle colline, a tutta randa, e le ruote disegnano svastiche nell’aria, ma gli assi dei carri non sono lubrificati, infatti, disturbano le nostre orecchie educate alla musica di Wagner e Liszt (anche a così grande distanza), con un suono monotono e ossessivo, che ricorda lo stridio di cicale impazzite per il caldo infernale (quaranta gradi all’ombra delle querce e dei pini). E uno di noi, P. de P., forse a causa di un colpo di sole, è salito su un sasso e si è messo a filosofeggiare alla comitiva; affermava che tutti noi siamo fermi nel tempo, anche se in cammino, che siamo come insetti prigionieri nell’ambra, come i raggi di una ruota che disegnano una svastica di luce infuocata. Uno di noi, O.K.A., ha raccattato un escremento di mulo e glielo ha tirato addosso centrandolo, abbiamo riso fino alle lacrime (anche le maestranze locali), indi abbiamo ripreso la strada cantando in coro.
Uno di noi, A.O.S., non si è unito al coro, si è allontanato e si è messo a raccogliere e mangiare i pinoli nel bosco.

Sulla collina di Favbrillhà, 2 luglio 193*
Favbrillhà è un sito di sicuro interesse mondiale per alcuni dati esteriori. La collina ha il caratteristico aspetto di un sito archeologico d’importanza fondamentale nella ricostruzione della storia precedente l’alba dell’antico regno Ittita; noi lo crediamo fermamente, anche se per adesso non esiste nessuna prova a sostegno. Ma la morfologia della collina prova, senza ombra di dubbio, l'esistenza di un grande centro urbano. Qualche lettore di questo diario avrà certamente presente in memoria le prime edizioni della Prova del Cuoco, ricordate? Sullo sfondo la mirabile scenografia esibiva, alle spalle della testina canuta del Bigazzi, un grosso uovo fritto in tegamino, con il bordo tutto bruciacchiato. Ebbene, al centro della collina di Favbrillhà, un po’ spostato a sinistra, per chi osserva a volo di uccello la collina, si eleva un collinotto tondeggiante, a mo’ di tuorlo d’uovo fritto in tegamino, è sicuramente l’Acropoli. L’acropoli è circondata da una vasta regione depressa pianeggiante e di colore biancastro, è la Città Bassa. La città bassa è cinta tutt’attorno da un bordo, in rilievo sul piano della campagna. Il bordo della collina presenta ben tre soluzioni di continuità, tre notevoli avvallamenti. Il bordo frastagliato, di colore rosso mattone bruciato, evidenzia ciò che resta delle antiche imponenti fortificazioni, poste a difesa della formidabile città.


Sulla collina di Favbrillhà, 9 agosto 193*

Nel tardo pomeriggio di un afoso giorno d’estate, con il cielo tutto coperto di nembi e il suono lontano di tuoni, divorati dalle pulci e scavando come talpe i morbidi fianchi del collinotto centrale, tutto cosparso di insulsi cocci di terracotta, enigmatiche monete di conio incerto, frigoriferi e lavatrici, due o tre televisori con il tubo catodico esploso, finalmente abbiamo trovato un antichissimo muro in opus incertum, così ben costruito che neanche uno spillo riuscirebbe a passare tra un masso e l’altro (uno di noi ha fatto la prova con uno stecchino da denti usato). Ahimè, abbiamo portato con noi, dall’Europa, solo sette carriole, qui non è possibile farne costruire di nuove, ché il falegname del posto, tale Giuseppe, è un incapace; dunque abbiamo usato cento ceste di vimini e venticinque armeni per portare via la terra; abbiamo pagato, gli armeni, trenta centesimi il giorno (la domenica ben trentacinque centesimi a cranio!).
Scavando tutt’attorno al muro mirabile, abbiamo dissepolto uno scheletro, anzi uno scheletrino.
Uno di noi, Arne Otto Saknussen, è subito caduto in ginocchio, accanto allo scheletrino, unendo le mani in preghiera, a guisa d’orante sumero. Subito dopo, e ad alta voce, ha proclamato che lo scheletrino apparteneva ad un suo antenato, Arne Saknussen, il famoso scopritore di Atlantide, il primo a raggiungere il centro del mondo e non tornare più indietro, e da oggi anche scopritore di questa città dal nome ancora sconosciuto.
Uno di noi, O.K. Allright, ha invece avanzato l’ipotesi che lo scheletro sia di un grosso gibbone, stanziale in questa regione fino a qualche millennio di anni fa, lo proverebbe la lunghezza sproporzionata delle ossa lunghe del braccio, e le piccole dimensioni dello scheletro.
Infine, uno di noi, Pio de Pio, è salito su un sasso e si è messo a piangere, poi ha urlato che lo scheletro era la vera prova dell'esistenza dell’Ebreo Errante (EE), ma è stato deriso da tutti, messo in minoranza, preso a bersaglio con le vecchie monete dal conio indecifrabile e i cocci di terracotta.
O.K. Allright, ha tirato fuori da una tasca una lente di ingrandimento e ci ha pregato di osservare che la mano del gibbone, o di Arne Saknussen, era volutamente appoggiata su un grosso orcio di terracotta, che lo stesso ha attribuito alla cultura di Naqada (inizio del III millennio a.C.), dunque il gibbone, o Arne Saknussen che dir si voglia, ci ha fornito il primo fondamentale sincronismo, per la datazione, non tanto dello scheletrino, quanto del sito.
Otto Saknussen si è levato in piedi, e saltando come un capretto in primavera, ha belato, Ah Mio Avo Benedetto, esisterà mai un luogo dell’ecumene dove non hai mai messo piede?
A questo punto abbiamo congedato gli armeni, e siamo andati in tenda a dormire.

Sulla collina di Favbrillhà (e al Centro del Mondo), alba del 15 agosto 193*
Scrivo queste righe con mano tremante, perché seguendo l’indicazione della mano dello scheletrino abbiamo trovato l’Archivio. L’archivio per eccellenza, l’archivio per definizione, l’archivio dei vivi, l’archivio dei morti, l’archivio dei non morti, insomma l’archivio di tutta la corrispondenza, interna ed esterna, di uno staterello che un tempo si estendeva dal mare superiore al mare inferiore, ma di cui ancora tutto ci è ignoto, perfino il nome, figuriamoci le liste dei re. In ogni modo ci stiamo lavorando su, notte e dì.
L’Archivio purtroppo è bruciato. I segni lasciati dalle lingue di fuoco danzano ancora sulle pareti crollate e sul pavimento ingombro di migliaia di tavolette d’argilla cotta.
Tutta la notte abbiamo danzato e cantato, fuori come tegole, con sottofondo l'eterna musica di Wagner.

Sulla collina di Favbrillhà (e al Centro del Mondo), 21 settembre 193*
Due di noi, Pio de Pio e O.K. Allright, si sono presi carico di tradurre le migliaia di tavolette, si sono buttati sopra come due orche arrapate su un branco di foche, notte e dì decifrano, decrittano, traducono...
Piangendo, P. de P., e ridendo, O.K. A., adattano, mettono insieme, interpretano e glossano i sogni e i desideri di esseri umani, che sono polvere nel deserto da cinque millenni di anni.
Pio de Pio vi ha già letto l’origine del mito del diluvio, l’indirizzo di casa di Giobbe, il nome del pizzicagnolo di Mosè, numerosi nomi e cognomi di sicura provenienza biblica; e una notte di tregenda chiuso in tenda, tremando e guardandosi alle spalle, ha scoperto che l’Altissimo aveva un fratello minore germano, ma più basso di statura, dio della tempesta locale. Da quella notte, Pio de Pio, va ravanando tra le tavolette di argilla cotta e bruciata, nella folle speranza di scoprire il codice fiscale, o addirittura la partita IVA, di Dio.
O.K. Allright, vola più basso, come un’albanella fra i campi di grano, fruga nella vita quotidiana e nella spaz… gossip della gente comune e dei re di uno staterello dell’Asia anteriore antica, che un tempo, che è solo leggenda, si estendeva infinito, su questo attuale scalcinato deserto, dell’Anatolia centrale.

Lettura e interpretazione della Tavoletta 876.a

A Balabù parla.
Così Berlù (?)

Il tuo accolito è giù al cancello, dice:
“Era la festa di (?), quanta folla per la via […]
Con Zazá, c[ampagna?] mia, me ne andai a passeggiá.
[…] la banda di […] suonava il Parsifal (?)

[seguono alcune righe intraducibili]

[…] se fumarono a Zazá”

Il tuo accolito è giù al cancello, dice:
“Dove sta Zazá?! Uh, mia d[onna mia]. Come fa Zazá, senza Is[aia]?”

Chi ha truvato a Zazá ca mm''a purtasse a me.
Jámmola a truvá, sù, facciamo presto.
Jámmola a incontrá […] venti coppie (di cavalli?) in testa.
Is[aia] sta ccá!
Is[aia] sta ccá!
Is[aia] sta ccá!
Non se ne vuole più andà.

Zazá, Zazá, za-za-za-za,
Za-za-za-za-za-za-zá.
Za-za-za-za-za-za-zá.

Chi ha truvato a Zazá, ca mm''a purtasse a me.
Se non troverai Zazà, [portami sua] sorella.

Zazá, Zazá, za-za-za-za,
Za-za-za-za-za-za-zá.
Za-za-za-za-za-za-zá.

Interpretazione di Pio de Pio.
Lo stile di questa lettera è caratterizzato da una notevole sobrietà, proprietà di linguaggio e stringatezza formale. Un certo re Berlù, ancora sconosciuto ma ci stiamo lavorando su, scrive a un funzionario locale, certo Balabù, probabilmente il nome corretto era Belzebù (lo scriba sicuramente ha interpretato male). Il re dice al funzionario che un lavorante della sua zona si è lamentato di un misterioso furto di tutto il raccolto di orzo “zazà”, forse perpetrato dai famelici Kaska, mitici bevitori di birra. A questo punto il re esige dal funzionario locale una quota minore dell’orzo dovuto, ché in quei tempi primitivi c’era l’usanza che i funzionari locali dovevano pagare di tasca propria gli ammanchi (sic).
Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la numerosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio nella lettera 876.a il nome Isaia, nell'archivio di Favbrillhà.

Interpretazione di O.K. Allright.
Questa lettera è un tipico esempio di cazzeggio tra scribi, numerose tavolette dell’Archivio di Favbrillhà recano qua e là commenti, riflessioni e infrazioni al codice deontologico dello scriba.
Un misterioso re Berlù, di fatto mai esistito, oggi si direbbe il re Travicello, scrive a un funzionario locale, un certo Balabù, che ad un suo accolito gli hanno preso la moglie mentre era al mercato. In quei tempi primitivi, prima del codice di Hammurabi, chi non saldava un debito entro dieci giorni gli prendevano un famigliare, o un animale domestico, in pegno, e lo mettevano a macinare l’orzo tutto il giorno, sotto il sole. Il re ordina al funzionario di trovare la moglie del disgraziato, o almeno la sorella, e di portarla alla sua augusta presenza.
Una prova fondamentale del contenuto burlesco della lettera 876.a sono le tre tacche che formano la parola ZA, esse coprono quasi tutta la superficie della tavoletta, sia il recto sia il verso e i margini destro e sinistro; anche in questa lettera nessuna traccia di una presunta esistenza di un'onomastica biblica, (l'ipotetico Isaia si deve leggere IsU).
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martedì 16 febbraio 2010

Ritornati dalla polvere (ultimo giro, ultima corsa)

Con questo post chiudo in bellezza, con una delle mie solite caz.. illuminazioni di fine inverno, chiudo una serie di post dedicati alle biblioteche presenti nei films e nei romanzi.

Da dove ho cominciato? Pagando i miei debiti, spiegavo che il titolo del post, in sintonia con quella notte di Halloween del duemilanove, era copiato dal titolo di un romanzo di fantasmi e di strani esseri immortali e di streghe e maghi, di Ray Bradbury, Ritornati dalla polvere.
Ok, ma Bradbury dove aveva preso il titolo del suo libro? cioè perché si dice di qualcuno o di qualcosa che è “ritornato dalla polvere”?
Ebbene, per capire il senso di questo strano modo di dire, avete mai visto qualcuno o qualcosa ritornare dalla polvere?, si deve tornare indietro di qualche millennio nella storia, anzi si deve arrivare proprio al capolinea della storia, là dove la storia ha avuto inizio, in quella terra in mezzo ai due fiumi. All’epoca di Sargon di Akkad la scrittura cuneiforme si disponeva già in modo ordinato sulla superficie dell’argilla cruda (facendo felici i puristi della forma e anche gli esegeti del contenuto), e il testo si leggeva a partire dalla parte superiore del recto, poi la tavoletta veniva ruotata in mano e si continuava la lettura lungo il margine inferiore, si proseguiva a ruotare e si leggeva sul verso e infine sui margini, prima il sinistro e poi il destro, spesso però il senso era oscuro, ed era pure difficile individuare il recto e il verso della tavoletta d’argilla. Le tavolette, se dovevano viaggiare, erano chiuse e sigillate dentro buste d’argilla. Tavoletta e involucro venivano cotti, ma prima la tavoletta veniva cosparsa di polvere di argilla cotta per facilitarne l’estrazione dalla busta. Quando lo scriba rompeva l’involucro soffiava sulla polvere e liberava i segni della scrittura, che per magia tornava alla vita, e parlava, parlava, cioè magari la tavoletta diceva solo quattro cazzate sgrammaticate, o ripeteva un indovinello vecchio come il cucco, o un quesito matematico rivolto all’apprendista scriba contabile, o si abbandonava ad occhi chiusi al gossip più sfrenato, o a qualche invocazione al dio dell’oceano delle acque dolci sotterannee, o ripeteva una formula magica per far piangere il dio della tempesta locale. A quei tempi tutto era nuovo e fresco come un mattino di primavera, tutti i giorni t'inventavano la ruota, e già sentire parlare una tavoletta d'argilla era una cosa nuova, e poi la tavoletta mica aveva una boccaccia come la lettera parlante di Harry Potter...

Vedi quella tavoletta chiusa nel buio di un involucro d'argilla, danzare nell'oscurità e nella polvere dentro un involucro d'argilla e poi esplodere verso, esplodere un mondo di segni e parole...

Dicono che qualche tempo dopo, qualche millennio dopo per la precisione, uno studioso ha creduto bene di leggere, nelle tavolette d’argilla degli archivi di Ebla, gli scartafacci della Bibbia.
Ecco, vorrei chiudere questo post su quell’illusione, che un libro particolare, separato ed esaltato dal resto dei libri, possa essere il Libro, che un libro possa essere la Bibbia. Qualche tempo fa era di moda dire di un certo libro che era la bibbia di un certo argomento. Entravi alla Feltrinelli e ti trovavi circondato da bibbie, c’era la bibbia della cucina cruda, la bibbia della cucina vegan, la bibbia della cucina a base di funghi allucinogeni, la bibbia del perfetto terrorista casalingo, la bibbia del venditore porta a porta di bibbie, la bibbia del vero ateo, la bibbia del nudista, la bibbia del ciclista, la bibbia dell’addestratore di pechinesi, c’era pure la bibbia del Dos! Poi la moda è passata, ora entri alla Feltrinelli e ti trovi circondato dai grulli, c’è la cucina cruda per Dummies, la cucina vegan per Dummies, la cucina a base di funghi allucinogeni per Dummies, il perfetto terrorista Dummy, il venditore Dummy porta a porta di bibbie per Dummies, il vero ateo Dummy, il nudista Dummy, il ciclista Dummy, l’addestratore Dummy di pechinesi dummies, c’è pure il Berlusconi for Dummies, ma questo non è una novità, quello c’era già su una tavoletta di Ebla, al tempo di Sargon di Akkad.
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lunedì 15 febbraio 2010

Bestiario n. 8 (Mefisto)


Well the leader of the Pythons
Is a kid they just call Zero
Now Terry's pop says these kids are some kind of monsters
But Terry says "No, pop, they're just plain heroes"...



Nelle prime ore di un caldo pomeriggio di luglio, sulla sponda messicana del Rio Bravo, nell’estrema periferia di Pilares, Tex Willer e Kit Carson stanno davanti alla porta d’ingresso di una inquietante abitazione in stile prima dinastia d'Egitto, con le mani in mano e lo sguardo perso nel vuoto, ma poi Eusebio, l’eccentrico domestico di El Morisco, s’affaccia all’uscio con un coltellaccio in una mano e una iguana defunta nell’altra.
Caffè, whisky o tequila? chiederà il buon El Morisco, e sarà subito salotto, sotto il cielo terso azzurro del Mexico. Seduti intorno ad un tavolinetto tondo a tre zampe i due pards ascoltano la magistrale lezione tenuta dallo studioso di scienze naturali sul peyote, mescalina e funghi sacri. Tex nicchia (anche se non è mai stato un articolo di nicchia), è mai possibile che i preti si facciano le canne, e che dieci anni di cannabis in seminario siano innocui... El Morisco gli offre un pezzettino di fungo sacro, tanto per provare, e Tex parte nel cielo degli archetipi. Vede dinosauri, trafitti da frecce scagliate da centauri indiani, danzare intorno ad un tempio azteco, dalla cui sommità si alza nel cielo nero e privo di stelle una colonna di luce che si tramuta nel volto del suo antico, irriducibile Nemico. Mefisto, il bestio.

Il bestio o bestiario era un tizio che aveva cura delle fiere, era una persona che lavorava nel circo, era il bestiario, anche un libro, una raccolta, un catalogo di animali strani, esotici, ma impossibili da vedere, annusare, leccare, toccare, inimmaginabili ed indescrivibili come dicono siano gli alieni, essi si potevano solo sentire con il senso del prodigio, spirit of wonder, ad esempio camminando soli soletti in un bosco.
Il bestiario era il cugino anziano e canuto, e di secondo grado, della wunderkammer, infatti, il bestiario era un tentativo disperato di uscire dalle sabbie mobili della realtà quotidiana afferrandosi alle stringhe degli stivali, invece la wunderkammer era una spezia semi svanita, coriandoli del sahara conservati in una bottiglia di coca-cola, aeroplanino messo insieme con barattoli di latte in polvere nestle, dal nomade blu del deserto e venduto al turista neroabbronzato come un barattolo di nutella, era quasi cosa quotidiana come l'erba e i sassi di scarpata ferroviaria, quasi triste come l’erba e i sassi, ed era il ricco fallimento di una vita spesa a catalogare “cose strambe ed esotiche”, collezionisti che non avevano mai comprato un biglietto per l’ottovolante, non avevano mai varcato la grande soglia salata, e ora aspettavano alla finestra, i marinai con la sacca piena di tesori di fondi di bottiglia, denti di squalo, avorio e biglie colorate. E la wunderkammer esigeva un pubblico tonto, educato all’applauso, o almeno un visitatore tordo, la bocca spalancata di meraviglia invece il bestiario era la soffitta disabitata da spettri incapaci a parlare.

Mefisto era tutto questo e altro ancora.

Il volto spiritato di Mefisto si affacciava dalle edicole dei giornali sotto il cielo terso azzurro di Italia. Mefisto era la fantasia al potere, mai stato un’incognita, era la variabile nascosta di un’equazione algebrica senza risultato, l’urlo e la risata di un pazzoide che spezzava il tran tran delle storie di indiani buoni e allevatori cattivi. Mefisto era il vento di marzo che spazza via la polvere accumulata della quotidianità, Mefisto era l’onta del quartiere, Mefisto era un vecchiaccio scapigliato e canuto con baffi e pizzetto e con un certo talento nella magia nera.
Ma all’inizio Mefisto era certo Steve Dickart, mago prestigiatore e furbetto del quartierino, come i tanti che saltellavano, qua e là, il confine del Mexico. Quando era giovane Steve celava nel cuore ambizioni quasi normali, sognava di diventare l’imperatore del Mexico. Steve era povero e orfano ma sulla strada non incontrò mai Charles Dickens, è vero aveva una sorella alta, bionda e bella, ma poi le loro strade si divisero, lei finì sposata ad un grasso nobil’uomo francese di origine russe. Be’, anche Steve era sposato, immaginate un po’ con chi, con una cicciona, dall'aspetto di un caratello di vin santo, che bazzicava il West andando in giro su un carrozzone, facendo le carte a cow-boy tabagisti e indiani alcolizzati. Steve aveva pure un figlio della colpa, brutto come il peccato degli altri e con i capelli unti e lunghi, andava in giro con un nome da cavallo, Blacky. Ma Blacky era un cavallo perdente, non aveva mai vinto una medaglia, una di quelle che il maestro della scuola domenicale donava a chi imparava a memoria il maggior numero di versetti della Bibbia. Ecco perché Steve un giorno uscì dal carrozzone, disse al caratello che faceva un salto dal tabaccaio, tirò un ultimo ceffone a Blacky, girò l’angolo e si tuffò vestito nel Rio Bravo, e arrivato nel Mexico cambiò nome, faccia e panni in Mefisto. Sulla strada per Pilares, zufolava tra i denti una canzonetta di San Remo, che era come un infausto presagio (per lui), quella che fa, Tu sei buono e ti tirano le pietre, Sei cattivo e ti tirano le pietre, Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai… Par di vederlo Mefisto, mani in tasca e cuor leggero, camminare sotto il sole caliente del Mexico, solo ma in compagnia del sogno di diventare un giorno l’imperatore del Mexico, ma chi ti trova alla prima locanda dove si era fermato a bere una cerveza in compagnia di una tortilla? il raddrizzatorti e sculaccia-vecchiacci-con-baffi-e-pizzo, il solito Tex Willer, il disgraziato fu preso di mira e non riuscì più a finire un progetto in vita, e – mi scuso se faccio del gossip - neppure da morto.
Un po’ era anche colpa sua, si applicava nello studio certo ma era comunque un vecchiaccio attaccabrighe, con un self-control stile Paperino. Infatti, ricollocate nel loro posto naturale le ossa tritate - causa un volo in stile libero di venti metri, sulla sabbia e i sassi del deserto, quella volta ebbe fortuna fu salvato quando ormai era ridotto a una pallida larva liofilizzata, da un mago tibetano in esilio - Mefisto avrebbe potuto, socio d’affari con il mago tibetano, giocare bene le carte che il Destino gli aveva messo in mano, farsi una nuova famiglia, chiedere un mutuo per la prima casa, portare a spasso e far ballare sulle ginocchia ossute i nipotini Qui Quo Qua, in poche parole, gettare alle spalle il passato, macché, tosto e capatosta, voleva e doveva sempre apparire a Tex, dentro una sfera di fuoco, ma Tex era un tipo che non si impressionava per così poco, Toh!… il vecchio pazzoide, ed era tutto. E alla fine dell’incontro scontro, tra i due era sempre Mefisto ad avere la peggio: pressione alta e i capelli ritti come un riccio, perché Tex, eterna cicca all'angolo della bocca, gli prometteva sornione un sicuro viaggio, di sola andata, al frenocomio più vicino. La società con il mago tibetano ben presto fece bancarotta, e Mefisto mutò aspetto in un cencio da pavimento, causa ripetute visioni di bisce e ragni, visioni generate dal perfido mago tibetano, il povero cencio molle fu raccattato dal pavimento, e sotto braccio di un pietoso Kit Carson, deposto nel manicomio di Flagstaff, reparto dei senza speranza ma innocui.
Due anni dopo Mefisto, ripreso in mano il suo Destino e rifiutato il soprannome affettuoso di Cencio, fuggiva dal manicomio, in compagnia di uno schizofrenico, suo amico, che si credeva il Baron Samedi. I due si rinchiusero dentro un castello diroccato in Florida, e quella volta Mefisto si guardò bene di mostrarsi a Tex dentro una sfera di luce.
Adesso Mefisto faceva la tranquilla vita del pensionato, sotto il sole della Florida, tra rospi e alligatori di palude, trascorreva i suoi giorni in mezzo a sfere di cristallo, alambicchi e libri polverosi, la sera dopo cena chiedeva all’amico schizofrenico di suonare ancora una volta la sua canzone preferita, quella che fa Tu sei buono e ti tirano le pietre... Sì, talvolta si abbandonava a sghignazzi alla Dario Fo, talaltra a terrificanti urla nella notte, spesso e volentieri si trastullava con una campana, suonandola a morto, usando come batacchio un femore umano. Cose così, innocue e non sintomatiche, sopportabili dai buoni vicini pietosi (che c'è di peggio), ma Tex non era un buon vicino pietoso, e al terzo urlo notturno di Mefisto era già davanti al castello, con uno squadrone di artiglieri della cavalleria americana. Una palla di cannone centrava in pieno la cantina, piena di petardi e polvere pirica, e buonanotte a Mefisto e al suo amico schizofrenico.
Tex poteva tornare a dormire il sonno del giusto, combattere gli allevatori cattivi e difendere gli indiani buoni e ogni tanto tornare a fare visita alla wunderkammer del buon Morisco.
E Mefisto? Mefisto, di nuovo con le ossa tutte rotte, ebbe appena il tempo di mostrarsi (dentro una sfera di luce) a suo figlio Blacky, promettergli un posto sicuro all’inferno, a patto che vendicasse il suo povero babbo e, soprattutto, chiedergli di cambìare il soprannome, poi venne divorato crudo e senza sale dai topi.
Tutti sanno che Blacky promise tutto, ma riuscì solo a cambiarsi nome in Yama, ma Mefisto, che era un buon diavolo, di certo un posto a tempo indeterminato all'inferno glielo avrà trovato.

Poco tempo fa, Mefisto è ritornato dalla polvere, ha rimpolpato un po' le vecchie ossa mangiucchiate dai topi e si è abbandonato a una delle sue folli risate del tempo andato, ma il risultato suona falso, il tutto sembra una triste operazione di restyling.
Quel genio del male che svaniva nelle ombre sdraiate nelle afose sere d’estate, che spiava i passi perduti nei canyon guardando dentro una bacinella piena d'acqua, bestio sfuggito per sempre dalla wunderkammer di El Morisco e dai manicomi e dalle prigioni di questo paese normale, è finito a fare il modello in un istituto superiore di marketing.

...Oh just hiking them streets of the sky
Just walkin', hiking the streets of the sky
Just hiking the streets of the sky
Hey Zero

(*) L'immagine in alto è l'unica foto di Mefisto presente su Internet (da Wikipedia).
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domenica 14 febbraio 2010

Commento a un commento ai PS (n. 8)

Ritorno sui miei passi e tiro il fiato.

"Carneade! chi era costui? (1) – ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’ambasciata. – Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letterato del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? […]”

(1) Carneade! chi era costui? Il povero don Abbondio in questo momento è tranquillo, quasi come quella sera che tornava dalla passeggiata dicendo l’ufizio […] Nello scritto Eco d’una notte mitica, il Pascoli ha paragonato questa notte all’ultima di Troia […]

Eccolo lì il nostro caro don Abbondio, con il libricciolo aperto in mano e lo sguardo perso nel vuoto, catturato nel vano tentativo di cercare nella memoria un riferimento qualsiasi per riempire il vaso di pandora, il mistero di quel nome famoso & sconosciuto, e liberare così la mente gravata dal peso, proseguendo nella lettura del libricciolo aperto davanti, che per di più gli è stato imprestato da un collega curato, dunque più di tanto non può tenerselo a covare in grembo. Il collega curato imprestava libri a don Abbondio con la stessa sensibilità di un giovane cane boxer che, lasciato solo con una libreria a disposizione, sceglie un libro dagli scaffali e se lo mangia crudo. Don Abbondio, seduto nel suo seggiolone in una stanza del piano superiore, una sera di novembre, intanto che sopra la sua povera testa, e sopra il suo tetto, le stelle indifferenti si disponevano nelle usuali costellazioni di quella stagione e di quella latitudine, andava leggendo un certo panegirico in onore di San Carlo, quello delle patatine fritte, ed era arrivato al punto dove il sant’uomo era paragonato ad Archimede, e fin lì don Abbondio andava mentalmente confermando, all right all right, ma poi l’autore del libricciolo chiamava a paragone anche Carneade e lì il lettore era rimasto arenato, a bocca aperta e lo sguardo sperso nel vuoto siderale, svolazzando tra le costellazioni di quella stagione e di quella latitudine. Ma sentiamo un po’ cosa ne deduce il nostro buon figliuolo, ac:

Vedi con quanta finezza il M. ha trovato il nome dove don Abbondio restasse arenato: non è di quelli che tutti conoscono, come Archimede o Aristotele, che sarebbe stato un far torto anche a don Abbondio; e non dei minori, noti soltanto agli eruditi di professione, che sarebbe stato ridicolo pretendere che lo conoscesse don Abbondio […] Per colpa di don Abbondio un nome così illustre è venuto nell’uso a significare uno sconosciuto qualunque.

Per colpa e merito di Manzoni (che non era mica tra i finalisti, l’altra sera alla tv, nella gara a chi è tra gli italiani famosi il Numero Uno), Carneade si è trasformato in uno sconosciuto qualunque. Vedo bene che è impossibile stare dietro alla falcata di Manzoni, testa bassa e mani in tasca, è capace di camminare tutta notte per raggiungere l'alba; chiedo venia, che nel post precedente, vi è un errore capitale (sing): il ridicolo paragone tra Balabù & Berlusconi e Carneade.
Carneade, nativo di Cirene e morto decrepito nel 129 a.C, era un insigne filosofo ed oratore eloquentissimo, infatti, stupì i romani del tempo, ancora boccaloni e sempliciotti, con la sua eloquenza colorita e solenne, poi sul quel nome famoso & riverito ci mise l’occhio quel figlio di un temporale d’estate, quel mago dei tarocchi del Manzoni.
Non avete capito? devo fare un disegnino alla lavagna? O forse è meglio chiudere il post con una parabola, dal Vangelo apocrifo dello scriba Rag. Fantozzi Ugo:

Gesù alla folla curiosa che si era radunata ai piedi della collina chiede, Avete pesci? Nooo!!! Avete pani? Noooo!!! E allora che c[avolo?] vi moltiplico!?


It's midnight in Manhattan, this is no time to get cute
It's a mad dog's promenade
So walk tall or baby don't walk at all

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venerdì 12 febbraio 2010

Corrispondenza interna ed esterna di uno staterello dell'Asia Anteriore Antica, I

Con questo post inizio una serie dedicata alla corrispondenza sia interna sia esterna di uno staterello, ancora ignoto il nome ma ci stanno lavorando su (notte e dì), sappiamo solo che era situato nell'Asia Anteriore Antica (ah, l'ho scritto!) e qualche millennio prima i fatti raccontati nel Vangelo di Saramago.
Per brevità e mio personale comodo i restanti post avranno il seguente titolo, CEIsAAA, numero romano progressivo.

Nella zona dei famelici Kaska fameliche cavallette hanno divorato il raccolto, assaltano il grano da Gascipura, lo divorano a quattro palmenti, non ci sono soldati, non ci sono carri da guerra, per difendere il grano. Un funzionario locale, preso atto del dramma, detta piangendo allo scriba una lettera per il re dello staterello, dice,

O Re!
Devi mandare carri [da guerra?] e guerrieri per difendere il grano maturo dalle cavallette, altrimenti sono c[avoli?] amari.
Fai [un po'] di tè. (*)
Ti saluto [con la faccia sotto i tuoi] piedi.

Incide lo scriba di palazzo tre tacche sulla superficie di una tavoletta d’argilla cruda...
Sono così lontani all’orizzonte i cavalieri, sono immobili all’orizzonte, eppure corrono come il vento i cavalieri anatolici sulla superficie del deserto, portano una lettera, una tavoletta d’argilla cotta, con il sigillo del funzionario locale. E il re, che ha già trovato la soluzione per salvare capra e cavoli, detta ridendo allo scriba di palazzo la risposta per il funzionario locale, dice,

Ho già mandato venti coppie [di cavalli?], che fine hanno fatto? e io che c[avolo?] ne so, mica sono m[ago Mer]lino.
Adesso ti manderò un formidabile [mago] che d[orme in piedi], un mago che quando per tutti gli esseri [è notte] lui è sveglio e quando [tutti gli esseri] sono svegli per lui [è] notte.
Fai un po' te.

Pensa il re di fare cosa gradita agli abitanti di quella terra perduta, una tra le tante terre del suo sconfinato regno di argilla cotta e di argilla cruda. Intanto i Kaska magri, secchi e allampanati, quelli ancora vivi sognano anche da svegli pizze al pomodoro e focacce ai quattro formaggi e panini all’olio, ché si sono stancati di cavallette arrostite, condite con miele, coriandolo e senape.
Incide lo scriba del palazzo tre tacche sulla superficie di una tavoletta d’argilla cruda...
Sono così lontani all’orizzonte i cavalieri, sono immobili all’orizzonte eppure corrono come il vento i cavalieri anatolici sulla superficie del deserto, portano una lettera del re…

Il dio della tempesta locale guarda giù e decide di intervenire, ridendo e piangendo a un tempo, un tempo di quattro quarti e ½ , soffia nuvole nere sui campi di grano maturo e sulle cavallette, elabora, disegna e progetta un altro memorabile diluvio sopra la superficie di argilla cruda e di argilla cotta.

(*) nota del traduttore, la rchiesta del funzionario di una tazza di tè era sicuramente rivolta al maggiordomo di palazzo e non al re, ma si sa gli scriba sono quel che sono, applicativi senza cervello.


mercoledì 10 febbraio 2010

The mystery of the three notches (release n.2)

Three notches, le tre tacche di Arne Saknussen, Three notches, sembra quasi il titolo di una canzone cantata da un Mel Brooks che imita the voice, Frank Sinatra, three notches, tre segni per indicare la Via per raggiungere il centro delle cose. Tonight I’ll be on that hill ‘cause I can’t stop, I’ll be on that hill with everything I got, no, non è Mel Brooks…
Signore, my Lord (se i buoni giuseppini me lo consentono), davvero si potesse un giorno arrivare a toccare il cuore nascosto delle cose che ci danzano intorno, semplicemente seguendo i segni lasciati dagli altri viandanti ai crocevia delle strade, come i neghittosi turisti a Venezia, che non si perdono mai, non c’è pericolo, perché seguono le frecce dipinte sui muri per Rialto o San Marco, fingendo di conoscere la natura delle cose, imitano perfino la camminata dell’ultimo eroe del cinema muto o del cinema 3D, ma credono veramente di aver toccato il cuore segreto delle cose, portandosi dietro una bottiglia di acqua gassata di due litri e ½? Guardali, sono come turisti nel deserto, come gli ultimi eroi romantici accanto a una jeep parcheggiata al confine di un deserto rosa fumetto, studiano, calcolano, disegnano flow-chart, progettano algoritmi per rispondere alla fondamentale domanda, quanto di benzina e quanto di coca-cola® e quante scatolette simmenthal® dovranno stipare, i materialisti atei, nel bagagliaio della jeep, la nuova Jeep® Grand Cherokee che ha un fondo reversibile del bagagliaio con un elegante strato di moquette da un lato e uno strato di plastica lavabile, quanto basta per arrivare all’oasi incantata, fata morgana, isola azzurra che vola e plana come la fenice sopra la sabbia perduta da una clessidra spezzata, e, soprattutto, senza finire come codesto bucranio che un regista simpatico e ottimista ci mostra sempre in primo piano, così che gli ultimi eroi romantici accanto alla jeep con elegante strato di moquette inquadrati nell'orbita vuota sembrano formichine che si agitano intorno a un chicco di caffè (la jeep).
Nel post precedente ho scritto, stop, sostiamo un attimo, magari spegniamo un attimo le lampade Ruhmkoff, è vero che sono autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata, ma è il "pressoché" che ci frega tutti, perché le lampade stanno dando chiari cenni di spegnimento, dunque ragioniamo, quante volte il conte Sak ha raggiunto il centro della Terra? Una volta? Due volte? Tre volte? Forse la prima volta c’era arrivato per caso, certo non pensava mica a scalpellare segni sulla pietra, ché poteva precipitare in un buco appena dietro l’angolo, e non era, il conte, d'indole bastarda come il suo discendente in linea diretta, la sorpresa doveva essere stata notevole, genuina, Oibò, guarda un po’ dove sono arrivato, al centro della Terra! Ma ragioniamo un po’, ragioniamo un po’ per assurdo, tanto per perdere un altro po’ di tempo della clessidra spezzata, e se le tacche il conte primigenio le aveva incise nel suo primo, unico e irripetibile viaggio, come faceva a sapere che quella era la strada, quella la Via per toccare il centro del mondo e non un'altra, magari meno tortuosa e quindi più economica.
La soluzione del mistero delle tre tacche…
Forse il conte aveva con sé una capra, capram, per dissetarsi con il latte e un’enorme scorta di cavolo, fasciculum cauli, per nutrirsi. Il conte che era un tipino scaltro aveva sospinto davanti a sé la povera capretta belante e impaurita fino al centro del mondo, giù lungo strette e tortuose cenge su insondabili abissi, che se ci fosse caduto dentro quale sarebbe stata la perdita per l’umanità io mica lo so, agli animalisti ricordo che non sempre la Divina Provvidenza vede e sostiene il giusto (guardate Giobbe), e comunque stava già rimboccandosi le maniche per sostenere i piccoli Adolf e Benito, invece una capretta, via anche per definizione e luogo comune, rientra nella categoria biblica del capro espiatorio e quindi alè giù nell’abisso, comunque anche a dispetto dei santi erano arrivati il conte e la capretta sani e salvi al centro della terra. Piantata la bandierina, il conte aveva legato la capretta ad una stalagmite, ed era risalito in superficie, correndo come un accolito in amok che si era dimenticato il cavolo, e senza tirare il fiato era ridisceso nuovamente dentro il provvidenziale buco nel cratere dello Sneffels Yocul in Islanda, portandosi questa volta con sé un lupo al guinzaglio, tutti sanno che i nobili sono tipi estrosi, c’è da dire che nella risalita il conte aveva inciso una tacca sul suolo petroso e quindi adesso che ripercorreva, per la terza volta, la strada poteva andarsene a spasso con il can… cioè con il lupo al guinzaglio, pavoneggiandosi tutto e mirandosi vago nelle pozze d'acqua sorgiva. Arrivato al capolinea daccapo era risalito trascinando con sé la capretta stressata, intanto aveva abbandonato, come un cane sull’autostrada, il povero lupo, tutti sanno che i nobili sono volubili, oggi penso bianco domani penso nero, e disperato il lupo si mise ad ululare alla luna, anche se da quel luogo la luna era praticamente invisibile. Strada facendo il conte incideva una nuova tacca accanto a tutte le tacche che incontrava. Il tempo di tirare fuori la testa dal buco, sfogliare la posta, lasciare la capra libera di brucare la prima erba della primavera islandese e giù di nuovo in cantina, ma questa volta si portava sulle spalle l’enorme scorta di cavolo, che anche i nobili piangono se hanno fame, e andava mangiando cavolo a pranzo cavolo a cena e cavolo a merenda, arrivato nel fondo del fondo il conte ebbe sete, e ahimé dovette tornare indietro per riprendersi la capra, durante la passeggiata, ormai ci aveva preso gusto, incideva una terza tacca accanto alle prime sul suolo petroso. Finalmente giunto alla fine del suo settimo viaggio al centro del mondo, il conte Sak se ne stava seduto al buio, con accanto la capra, un lupo e la scorta di cavolo, e pensando a tutto il tempo trascorso a salire e scendere lungo la crosta del mondo meditava di scrivere su un peso di piombo le sue memorie, Memorie di un saliscendi, ma aveva appena terminato di scrivere il prologo (e nel prologo c’era già tutto) che gli cascò la penna di mano... se un medico di scuola lapalissiana fosse passato di là avrebbe certo sentenziato che il conte Saknussen un secondo prima era ancora vivo ma un secondo dopo era bell’e morto.
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martedì 9 febbraio 2010

The mystery of the three notches



There’s some marks on the surface.
Looks like a letter or some notches.
Three notches made by the hand of man…
…pop out of a volcano across the world?
What’s your conclusion?
Science does not jump to conclusions.
Science is not a guessing game.

Three notches, le tre tacche di Arne Saknussen, Three notches, sembra quasi il titolo di una canzone cantata da un Mel Brooks che imita the voice, Frank Sinatra, three notches, tre segni per indicare la Via per raggiungere il centro delle cose. Tonight I’ll be on that hill ‘cause I can’t stop, I’ll be on that hill with everything I got, no, questo non è Mel Brooks…
Signore, my Lord, si potesse davvero un giorno arrivare a toccare il cuore nascosto di queste cose palesi che ci danzano intorno, semplicemente seguendo segni lungo la strada, come i turisti indolenti e neghittosi girano Venezia, non si perdono mai, non c’è pericolo, non devono chiedere la strada agli ultimi abitanti gentili. Essi, i turisti non i gentili, si limitano a seguire le frecce sui muri per il ponte di Rialto o per piazza San Marco, finzione di finzioni, e così avanti vanno prodi per la loro strada, fingendo di conoscere la natura delle cose, e imitano nel passo la camminata dell’ultimo eroe del cinema muto o 3D o di Joseph Beuys, e pensano veramente di aver toccato il cuore segreto delle cose, ma si portano dietro una bottiglia di acqua gassata di due litri e 1/2, come turisti nel deserto, come gli ultimi eroi romantici accanto a jeep ferme ai margini di un arido deserto da fumetto, studiano, calcolano, disegnano flow-chart, progettano algoritmi per rispondere alla fondamentale domanda, quanto di benzina e quanto di coca-cola e quante scatolette simmenthal dovranno stipare i materialisti atei sulla jeep per arrivare all’oasi incantata, fata morgana, isola azzurra che vola e plana come fenice sopra la polvere di una clessidra spezzata, e, soprattutto, senza finire come codesto bucranio che un regista simpatico e ottimista sempre inquadra in primo piano, così che gli ultimi eroi romantici appaiono nell'orbita cava come formichine che si agitano intorno a un chicco di sesamo.
Nel post precedente ho scritto, stop, sostiamo un attimo, magari spegniamo un attimo le lampade Ruhmkoff, è vero che sono autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata, ma è il "pressoché" che ci frega tutti, perché le lampade stanno dando chiari cenni di spegnimento, dunque ragioniamo, quante volte il Conte Sak ha raggiunto il centro della Terra? Una volta?, due volte?, tre volte? Forse la prima volta c’era arrivato per caso, e certo non pensava mica a scalpellare segni sulla pietra, ché poteva precipitare in un buco appena dietro l’angolo, e non era, il conte, d'indole bastarda come il suo discendente, e la sorpresa doveva essere stata notevole, genuina, Oibò, guarda un po’ dove sono arrivato, al centro della Terra! Ma ragioniamo un po’, ragioniamo un po’ per assurdo, tanto per perdere un altro po’ di tempo dalla clessidra spezzata, e se le tacche il conte primigenio le aveva incise nel suo primo, unico, irripetibile viaggio, come faceva a sapere che quella era la strada, quella la Via per toccare il centro del mondo e non un'altra, magari più lineare e quindi più economica. La soluzione del mistero delle tre tacche…
Forse il conte aveva con sé una capretta per mungere il latte, e un’enorme scorta di cavoli, e un lupo al guinzaglio, per difenderlo dalla paura del buio eterno; e avrà sospinto davanti a sé la capretta belante e impaurita fino al centro del mondo, non sia mai fosse caduto in un orrido precipizio, e arrivato al centro della terra aveva legato la mite capra ad una stalagmite, ed era tornato indietro in una folle corsa come un accolito in amok, e senza tirare il fiato di nuovo era tornato dentro al buco, portandosi con sé questa volta il fedele lupo, ma nel risalire alla superficie il conte scaltro aveva inciso una tacca sul suolo petroso e quindi praticamente correva in discesa e ad occhi chiusi, e giunto al capolinea era sceso e risalito portando con sé la capretta, un tantino stressata a dire il vero, e lasciando solo al buio il povero lupo, che si mise disperato ad ululare di solitudine alla luna invisibile, nuovamente il conte aveva inciso una tacca accanto alla prima, messo fuori la testa dal buco era daccapo sceso giù in cantina lasciando la capra libera e felice a brucare la prima erba di una primavera islandese; ‘sta volta il conte si portava dietro il cavolo, che era quasi il tocco e qualcosa doveva pur mangiare, e andava per la sua strada seguendo le due tacche mangiando cavolo, a pranzo e a cena e pure a merenda, arrivato al fondo del mondo sentì il conte un po' di sete, dunque dovette tornare a riveder le stelle (e riprendersi la capra), e già che c’era, ché ci aveva preso gusto, incideva un’altra tacca accanto alle prime due sul suolo petroso. Finalmente al termine del suo settimo viaggio al centro del mondo, il conte Sak se ne stava seduto al buio, con accanto la capra, il lupo e la scorta di cavolo, e pensando a tutto il tempo trascorso andava scrivendo su un peso di piombo le sue memorie, ma come capita a tutti, un secondo prima era ancora vivo, ma un secondo dopo era già morto.

domenica 7 febbraio 2010

Immagini del Tempo, n. 4 (funghi & peyote)

Dopo il pernottamento in grotta con topi in soffitta, la spedizione Lindenbrook ha ripreso la marcia verso l’interno della Terra, ma l’anabasi del professor Oliver Lindenbrook è assai poco gloriosa, è come girare per Venezia seguendo le targhe per i turisti pigri, infatti, il nostro professore si limita a seguire le indicazioni stradali lasciate dal vecchio conte Saknussen, tre tacche incise nella pietra del suolo indicano la Via per toccare il centro della Terra… stop, sostiamo un attimo, magari spegniamo un attimo le lampade Ruhmkoff, è vero che sono autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata, ma è il “pressoché” che ci frega perché le lampade stanno dando chiari cenni di spegnimento, dunque ragioniamo, quante volte il Conte Sak ha raggiunto il centro della Terra? Una volta?, due volte?, tre volte? Forse la prima volta c’era arrivato per caso, e certo non pensava mica ad incidere tacche perché poteva cadere in un burrone appena girato l’angolo (e non era d'indole bastarda, come invece sarà il suo discendente), la sorpresa doveva essere stata notevole, ma guarda un po’ dove sono arrivato, al centro della Terra! Ragioniamo per assurdo, se le tacche il conte zio le aveva incise nel suo primo e unico viaggio, come faceva a sapere il conte nonno, insomma l'avo, che la strada era quella giusta? Mentre la comitiva rifletteva su questo problema di vera lana caprina, 50% di sconto all’Esselunga, il giovane Alec si era allontanato dal gruppo. Vedi Alec, nell’immagine (*)



saltellare di masso in masso, come un gaio capretto di montagna in primavera, solo che Alec sta saltellando in mezzo a funghi dalle dimensioni notevolmente surreali, cosa è accaduto mentre riflettevamo al buio? Niente di strano, Alec ha scoperto un piccolo appezzamento di terreno fertile coltivato a funghi porcini, e ha mangiato un fungo, non è spirato, avvelenato, anzi ha chiamato, con un lieto canto yodel, gli altri membri della comitiva al banchetto di funghi crudi. Tutti hanno mangiato i funghi, il professore, Carla Goetaborg, il giovanottone islandese dal dente d’oro, la sua oca gheertrud, e anche il membro esterno della comitiva, il perfido discendente del conte Saknussen, non solo ma tutte le comparse e le maestranze e pure il regista del film. Così tutto quello che vediamo d’ora in avanti, fino al the end, è probabilmente una visione causata da indigestione di funghi allucinogeni. Una intera settimana sosta la comitiva all’interno della foresta di funghi giganti, Carla si sbizzarrisce tra i fornelli, cucina manicaretti a base di funghi allucinogeni: bistecche di funghi, zuppe di funghi, funghi saltati, risotto coi funghi, funghi trifolati, funghi in umido, funghi a vapore, funghi crudi fuori e cotti dentro, funghi cotti fuori e crudi dentro, funghi al sangue, funghi al dente, funghi alla Saverio-funghetto-poco-serio, funghi in salsa di fungo, funghi fritti, funghi in padella, funghi in teglia, funghi grigliati, funghi evaporati, funghi riscaldati, funghi ribolliti, funghi rivoltati, funghi essiccati, funghi liofilizzati, funghi sterilizzati, funghi sciroppati, funghi marmellatizzati, funghi morti e risorti dalle ceneri, funghi immacolati, spauriti, invidiosi, spericolati, spenti e accesi, tagliati a dadetti, a fette, a quadri, a losanghe, a strisce, a guisa di spaghetti, funghi evoluti, magici, spirituali, spiritistici, funghi canonici, funghi eretici, funghi in piedi, funghi seduti, funghi sdraiati su letto di funghi, funghi & funghi.


E’ giorno o è notte? I tre orologi naturali sono nascosti, nascoste le costellazioni, nascosta la luna, nascosto il sole, sia mezzogiorno o sia mezzanotte di fatto è solo un problema di ora locale, dell’ora segnata dal cronometro del professore. E l’orologio del professore segna le due del pomeriggio, dunque il professore dorme, dorme il sonno del giusto, beatamente spaparanzato come un gatto satollo all'ombra di un fungo, fino a quando il buon Alec e la buona Carla non lo svegliano con il profumo di una ciotola colma di zuppa verde di fungo. Non ho mai dormito così bene, niente baccano dalla strada, niente campane, né lo sbattere di stoviglie in cucina, potrei restare qui per sempre. Questo è il pensiero del professore, ma un istante dopo cambia fisionomia e s’abbuia in volto, si è accorto che qualche metro più in là il gigante islandese sta abbattendo una mezza foresta di funghi surreali a colpi d’ascia, perché il conte Sak gli ha ordinato di fabbricare una zattera e il gigante ha prontamente obbedito, lo spirito feudale non è acqua. Trasecolando e sbigottendo ad ogni passo il professore segue le orme del conte fino a raggiungere l’ingresso (o l’uscita) della grotta, là lo aspetta la visione generata dalla mente megalomane del conte Sak.


Il conte ha creato un mare sotterraneo con onde correnti venti pesci e balene, adesso è stanco e si riposa nel settimo giorno della creazione, davanti al mare e alla propria coscienza di alienato mentale, ovviamente il conte Sak si riposa in piedi (come un cavallo). Qui parte un dialogo allucinato:

Sak. - Scommetto che vuole sapere perché non mi sto riposando. Odio dormire, considero il sonno una morte transitoria.
Lin. – E’ un mare.
Sak. – Un oceano, con onde e correnti. L’oceano del mondo sotterraneo. Un terremoto all’inizio dei tempi causò delle fenditure sul fondo del mare che ne fecero sprofondare le acque. Poi le fenditure si rinchiusero. Nessuna mappa ha mai indicato l’Oceano di Saknussen. L’ho battezzato così mentre lei dormiva.


Ecco spiegato l’ordine del conte, d’ora in avanti il viaggio proseguirà sulle onde di un oceano che non c’è. Immaginiamo i sei disgraziati appollaiati sopra una zattera deposta sul suolo di una grotta, cantare canzonette di San Remo, pagaiando a tutta randa nella sabbia, i loro occhi abbacinati vedranno mostri antidiluviani, precipiteranno nel gorgo che segna il centro del mondo, si risveglieranno asciutti su una spiaggia, vedranno precipitare il conte Sak, colpevole di avere mangiato cruda la povera Gertrude, vedranno la perduta Atlantide, spezzeranno il pane raffermo della pace, e poco più in là lo scheletro fossile del conte Sak Primo, steso in terra indicherà con l'ultimo anelito di vita, e la falange, falangina e falangetta del dito indice, la Via per tornare alla superficie. Vedranno la salvezza ostruita da un masso e una borsa di polvere pirica, 1+1=2. Intanto, in superficie, nelle prime ore di un pomeriggio d’estate, sulla sponda messicana del Rio Bravo, nell’estrema periferia di Pilares, Tex Willer e il suo fedele pard, Kit Carson, stanno seguendo alla lettera il consiglio di un loro amico, rinomato medico chirurgo e discreto capitano dell’esercito a cavallo americano, che in una lettera consiglia ai due rangers del Texas di chiedere ad un certo El Morisco chiarimenti sui “funghi sacri”, e mentre sono lì che sostano un po’ perplessi davanti alla porta d’ingresso di un’inquietante abitazione, la bella Esmeralda fa il bagno tutta nuda in un lago che circonda un tempio azteco, nuota in mezzo a coccodrilli sacri, e un discendente di Cortés la guata concupiscente. E il tempo si è cristallizzato, sono tutti fermi, come insetti nell'ambra. Ma Tex, con spirito pratico ed empirico, busserà alla porta, ed ecco Eusebio, lo strano domestico di El Morisco, apparire alla porta con un coltellaccio in una mano e un lucertolone morto nell’altra. Caffè, whisky o tequila? chiederà il buon El Morisco, e sarà subito salotto. Seduti intorno ad un tavolinetto tondo a tre zampe i due pards ascoltano, zitti zitti buoni buoni, la lezione magistrale dello strano naturalista egiziano su peyote, mescalina e funghi sacri, ma Tex come Tommaso dubita, ché è mai possibile che le religioni si affidino alle droghe? e il buon El Morisco gli offre un pezzettino di fungo sacro e Tex parte, come una star del rock, e vola nel cielo degli archetipi, dinosauri, trafitti da frecce scagliate da centauri indiani, danzano attorno ad un tempio azteco, dalla cui sommità si alza nel cielo nero una colonna di luce che si tramuta nel volto del suo antico irriducibile Nemico.

(*) Le quattro immagin sono prese dal film Viaggio al centro della Terra (1959).
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venerdì 5 febbraio 2010

Immagini del Tempo, n. 3 (morning has broken)


Falce martello e la stella d'Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!

Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell'idea
che gli animi affratella; chiude: "E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro".
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico
dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Umberto Saba

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Immagini del Tempo, n. 2 (topi in soffitta)


A sinistra l’immagine (*) mostra l’interno di una enorme e oscura grotta, situata in un punto imprecisato della crosta terrestre, probabilmente sotto il cratere dello Sneffels Yocul in Islanda, però adesso non andate a cercarla con il filo a piombo. Le persone che giacciono addormentate sul suolo sabbioso della grotta sono i cinque membri interni della spedizione Lindenbrook. Dorme come un sasso, a destra nell’immagine, il professor Oliver Lindenbrook, quando è sveglio è il titolare della cattedra di Geologia Applicata alla Ricerca di un Pertugio per Toccare il Centro della Terra (GARP-tct, corso che dà diritto a sei crediti più 300 punti da spendere nell’acquisto di un cronografo per la registrazione della temperatura del vapore), purtroppo il corso era attivo nell’università di Edimburgo l’anno 1880, l’esame attualmente è riservato ai soli fuori corso. Dorme di un sonno leggero la vedova del professore di Stoccolma, l'esperto in sassi e ladro di idee, Carla Goetaborg. In mezzo dorme l’allievo e assistente del professor Lindenbrook, Alec McEwen e sogna la fidanzata. Ai loro piedi dorme pacificamente il giovanottone dal dente d’oro, Hans Belker di Reykjavik. E sono quattro, il quinto elemento della spedizione non è persona umana ma un’oca, di nome gheertrud. Noi non la vediamo nell’immagine ma c’è. I vecchi paletnologi vi diranno che una cultura è data anche da quello che manca, che non si trova. Vicino al fuoco del focolare dorme una teiera.
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E’ giorno o notte? I tre orologi naturali sono nascosti, nascoste le costellazioni, nascosta la luna, nascosto il sole, che sia mezzogiorno o mezzanotte è solo un problema di ora locale, dell’ora segnata dal cronometro del professore. E l’orologio del professore segna la mezzanotte, dunque la comitiva dorme. Chi non dorme è il conte Saknussen e la sua pavida guida, in alto sopra le teste addormentate della comitiva il conte Sak, zitto zitto chiotto chiotto, passa e trapassa da un sentiero, come ombra di un ladro dai passi felpati, ma non abbastanza da non destare dal sonno leggero uno dei due membri femminili della spedizione (la donna, non l’oca che russa beata in braccio all’islandese dal dente d'oro), che esclama, c’è qualcuno lassù, ho sentito passi, passi umani, il professor Lindenbrook mugugna, è dall’alba dei tempi che le donne sentono passi. Mia moglie sentiva i topi in soffitta, di solito la notte prima di un’importante conferenza. Mi toccava salire di sopra armato di scopa. Ecco, è sufficiente una frase banale, buttata là quasi per caso, e noi siamo prigionieri per sempre di un’immagine del Tempo.
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Come passa il tempo. Entrando da via de’ Calzaioli la piazza era viva e rumorosa, ciarlatani, cantastorie, saltimbanchi, giocatori di prestigio, casotti di burattini, carri con scimmie e cani ammaestrati, venditori di semi, lupini, sapone per le macchie indelebili dell’anima e lumini da notte e per i trapassati (il conte Saknussen e la sua pavida guida), c’erano venditori di rimedi contro ogni dolore, dal mal di denti alla metastasi ossea, e propinatori di unguenti miracolosi e sciroppi per la tosse e il catarro, guardate in un angolo c'è pure l’inventore della coca-cola, e c’era Trentuno, il cavadenti, che estirpava i denti senza scendere da cavallo, se estirpava un dente sano in un baleno era già lontano. I ciarlatani erano di fama mondiale, stavano seduti come monarchi assiri assisi su carrozzoni alti come i primi piani delle case, e guardavano dall’alto in basso i garzoni affacciati da porte di bottega con il muricciolo rialzato da un lato e gli sportelloni verdi coperti di grossi chiodi, loro ricambiavano lo sguardo dal basso in alto. Seminano, i ciarlatani, i sogni sulle lastre di pietra delle strade. E in piazza della Fonte c’era un vecchio ebreo, sempre lo stesso, friggeva le ciambelle, e le vendeva pure ai cristiani, che tagliavano dal Ghetto per affrettare il ritorno a casa, le compravano per i ragazzi che ne erano ghiotti. Case di sette piani, case di nove piani, case di undici piani, case come torri di babele, il Ghetto era un’astronave che affiorava dal centro di Firenze come una rosa del Sahara. Nel 1439 gli ebrei a Firenze erano già settanta (70), e iniziano i problemi, cominciano a dar nell'occhio. I problemi aumentano, e aumentano con gli anni fino a portare alla decisione, irrevocabile e definitiva, di cacciare a pedate nel culo gli ebrei dalla città nel 1495. Il bando è revocato solo nel 1499, ma con una penale e pedaggio di 200.000 fiorini. Cosimo dei Medici, il Grande, importa e copia il modello Ghetto. Cosimo vuole, Cosimo ordina, Cosimo scrive che tutti gli ebrei devono abitare in un solo luogo chiuso, con qualche ora di libera uscita. Sarà il Buontalenti, di nome e di fatto, a ridurre tutte le case di un isolato situato a ridosso del Mercato Vecchio in un solo enorme stabile, murando tutti i vicoli tranne due, sbarrati però da cancellate. In quest’immenso condominio gli ebrei di Firenze andarono ad abitare il 6 dicembre 1571. Un giro intricatissimo di scale metteva in comunicazione le case da un lato all'altro del Ghetto. Un dedalo di corridoi, pianerottoli e abbaini permetteva di salire sui tetti dai quali poi si ridiscendeva per altre scale in altre case e in altre strade. Giravano, i ciechi, le strade di Firenze suonando, chi la chitarra, chi il violino (quest’ultimi erano forse ciechi importati dall'Ungheria?). E cantavano, i ciechi, la storia della Samaritana, di Sansone, di Marziale che nacque con due denti, della ‘Gnora Luna, di Brandano, e della Strage degli Innocenti, e della fuga in Egitto, e del professore che sognava di tornare dietro i banchi di scuola a imparare cose nuove. Ed era un gridare, un vociare continuo di briachi, ortolani, fruttaroli, friggitori, fagiolai, peracottai, cenciaioli che giravano tutta Firenze al grido, Donne chi ha cenci. E da via de’ Calzaioli passava il Manzoni, testa bassa e mani in tasca, e alé inciampava in un sasso, che era sempre lo stesso, giovinastri bruciati se lo tramandavano di generazione in generazione di scioperati, era il sasso di via de’ Calzaioli, lo gettavano in mezzo alla via, e i passanti distratti lo spingevano su e giù per la via, dal Bigallo fino a San Michele, all’inizio dell’Ottocento era un macigno grosso come quello che rincorre Indiana Jones, pian piano si è consumato, oggi è un sassolino, neppure don Abbondio se tornasse in vita e passasse per via de' Calzaioli lo spingerebbe di lato. Ecco in un angolo della soffitta il progetto dell’architetto Leoni per la costruzione di 53 case per i poveri nei pressi della Fortezza (via di Barbano). E’ il 1838. Il Comune metterà il terreno, s’immagina dopo una gran sudata in consiglio comunale, è tutto grasso che cola, infatti, vi nacque un bel quartiere signorile, per i poveri neppure uno stanzino per le scope, ma lo spazio per una bella piazza fu trovato, un giorno sarà piazza dell’Indipendenza, per ora si chiamerà piazza Maria Antonia, da lì, il 27 aprile 1859, partirà il corteo, al grido di Viva l’Indipendenza Italiana. 1839, il Comune installa le gronde sotto i tetti delle case. 1846, primi lampioni a gas, ma tenuti spenti nelle notti di luna piena. Dickens scrive che a Genova le case e le strade mandavano un odore di cacio riscaldato, e a Firenze? Stendhal disteso in terra attende l'arrivo dei volontari della Misericordia, tesse le lodi, "pavimentata a grandi blocchi di pietra bianca di forma irregolare, Firenze è di una pulizia rara, nelle sue vie si respira non so quale straordinario profumo. Se si fa eccezione di qualche borgo olandese, Firenze è forse la città più pulita dell'universo". Stagna nei vicoli il puzzo dei fritti nel lardo e delle acque marce dove hanno cotto i cavoli, le bietole e gli spinaci. Fetore di fogne e di sudore e di spazzature rovistate da cani e gatti che il più sano c’ha la rogna.
Superfetazioni, solo superfetazioni.
Si definisce superfetazione edilizia quella parte aggiunta a un edificio, dopo la sua ultimazione, il cui carattere anomalo sia tale da compromettere la tipologia o da guastare l'aspetto estetico dell'edificio stesso, o anche dell'ambiente circostante. “Dovunque c’era un angolo, uno spazio fra costruzione e costruzione hanno ficcato una casa, che sembra voler cader giù da un momento all’altro. Se c’è un cantuccio, un angolo rientrante nei muri di una chiesa, siete certi di trovarvi una specie di abitazione”. (Dickens, Impressioni d’Italia). Un esempio? Il ponte vecchio.
Modi di dire che oggi non si usa più. I francesi erano soprannominati nuvoloni dai fiorentini della fine del settecento e dei primi anni dell’ottocento. Nel 1799 i francesi piantano a Firenze l’albero della libertà in piazza Nazionale (oggi piazza Signoria), coprono le mura con i loro proclami che iniziano sempre così, Nous voulons, il 9 aprile 1799 furono celebrati 18 matrimoni sotto l’albero della libertà. Alle pulizie delle strade ci pensavano i forzati, legati in coppia con catene; spazzava, il forzato, le strade e portava con sé un non so che di tristezza e pittoresco, perduto per sempre. I passanti, nel sentire dietro l’angolo il rumore delle catene, cambiavano strada, ma solo per non vedere i colori sgargianti delle casacche dei forzati. Rosso, chi doveva scontare mesi o anni. Giallo, i condannati a vita. Oggi nessuno farebbe più caso ai colori.
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Il mondo senza di noi, di Alan Weisman, numero 1 nelle classifiche di vendita americane per diversi mesi, descrive un mondo senza di noi. L’intento è poetico il risultato è prosaico. L’autore parte dalla premessa che per distruggere un fienile è sufficiente fare un buco di un centinaio di centimetri quadrati nel tetto del fienile, e poi stare a guardare, se a bocca aperta non è scritto. Il giorno dopo la scomparsa dell’uomo la natura già prende il sopravvento, senza incentivi, un esile filo d’erba lasciato a sé stesso si trasforma, piano piano, anno dopo anno, in un possente albero che sbriciola il marciapiede, passano gli anni, l’albero cade sulla strada. Il lettore però non si deve aspettare fantasie da dopobomba o dopovirus o da dopolavoro, quando seduti in tram, con gli occhi che si chiudono, vediamo gli alberelli stenti del giardino che ci passa accanto invadere la strada ingombra di auto rosse di ruggine, perché il Saggio è abitato da scienziati seriosi e preoccupati, ma con la barbetta brizzolata, e snelli e giovanili a più di cinquant’anni, e con occhi che disegnano una mezzaluna quando riflettono, che si stringono nelle spalle, e forse si torcono le mani. Un libro che va avanti e indietro, zooma nel passato e poi nel futuro, e non ti lascia il tempo di fantasticare su occhi bianchi sul pianeta Terra e licantropi, e alla fine la tesi che sostiene è che non resterà niente dell’opera terrena di ogni uomo quando sarà scomparso dalla faccia della terra, grazie già si sa.
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E nel 1982 era uscita la traduzione italiana di After Man, a zoology of the future autore Dougal Dixon. La storia splendidamente illustrata della vita sulla Terra 50 milioni di anni dopo la scomparsa dell’uomo. In questa storia l’uomo è come se non fosse mai esistito, i topi di città si sono differenziati in molteplici specie, anche la Statua della Libertà si è dissolta in polvere, non emerge mica dalla sabbia come nel Pianeta delle Scimmie, e se qualche osso e cranio fossile di Homo sapiens sapiens giace sotto i sedimenti, ebbene è muto e paziente almeno quanto il buffone di corte, Yorick. Ma anche il libro si è estinto, non era il numero 1 nelle classifiche di vendita americane, di conseguenza non è stato più ristampato, forse qualche copia fossile si trova su Maremagnum.com, ma non andate a cercarlo con il filo a piombo o con il cronografo alla mano.
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Esperienza straordinaria è la lettura e la visione del volume Firenze 1892-1895, immagini dell'antico centro scomparso di Maria Sframeli (Editore Pagliai Polistampa, 2007). Trecento e più fotografie, scattate fra l'agosto del 1892 e il dicembre del 1895, documentano i palazzi e le case del centro storico prima e durante le demolizioni. E' il centro medioevale di Firenze che viene giù, l'area che si estendeva da via Porta Rossa a via de' Cerretani, da piazza Strozzi e via dei Pescioni a via Calzaioli. Il risanamento dell'antico centro intorno al Mercato Vecchio, compiuto a fine secolo, è lo specchio della volontà della classe borghese di affermare il proprio prestigio. Il mezzo per tale operazione è anche in questo caso quello della speculazione edilizia. Per tamponare i duri giudizi espressi, soprattutto sulla stampa estera, la giunta comunale nel marzo del 1888 nomina una Commissione Storico Archeologica CSA per rilevare e studiare gli edifici della zona da demolire. Ma i rilievi non dovevano in alcun modo ritardare i lavori, così nell'aprile del 1892 viene nominata una Nuova Commissione NCS, con una sfera di competenza che escludendo l'archeologia si estendeva a tutto il territorio comunale, e per ovviare all'impossibilità di misurare gli edifici che scomparivano dalla mattina alla sera la Nuova Commissione avanzò la richiesta di utilizzare lo strumento fotografico. “Una camera oscura per prove 18x24 con soffietto di pelle a cono girevole, otturatore istantaneo e a pose facoltative, treppiede e sacco” (Firenze 1892-1895). Le immagini non sono belle, sono vere, e ferisce la quasi totale assenza di vita, il silenzio assordante del dopo bomba, i cartelli attaccati ai muri annunciano ai rari passanti che il venditore di pesci d'Arno fritti si trasferirà in faccia alle Logge n. 1, così il trasloco del pizzicagnolo, del salumiere, del rosticciere, del fagiolaio, ecc. Pubblicità di cerotti per calli, letti e mobili in ferro vuoto e sagomato, Synger Cycles, pastina diastasata alla pepsina. Muratori posano in bilico su assi appoggiate su scale sospese sul vuoto. Esperti della Commissione immobili ed impettiti. Ragazzini con il cappello in testa, garzoni di bottega, guardano nell'obiettivo del fotografo con sguardi da gatto, un ragazzino visto di profilo è l'esatto opposto del militare petto in fuori e pancia in dentro, ma dove sono andati a finire 'sti tipi alla Huck Finn? E i nomi delle vie? piazza del Vino, piazza delle Cipolle, via delle Ceste, piazza delle Ricotte... ormai era stata imboccata una strada in discesa, si comincia con piazza vittorio emanuele secondo, il monumento al re a cavallo è già al suo posto. Attorno crescono i palazzoni di facciata colmi di banche, uffici, alberghi, assicurazioni; igienici ma scarsi di vita e di cortili. Nelle strade attorno alla piazza a nuova vita restituita la vecchia Firenze muore, muore come un vecchio in un letto d'ospedale un giorno di inizio primavera.
Alec. Prendi nota che un membro della spedizione ha segnalato topi in soffitta. Lights out.
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(*) L’immagine è l’elaborazione con Autostitch di 14 immagini in formato JPG del film Viaggio al centro della Terra (1959).

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