sabato 28 agosto 2010

Case in capo al mondo, VIII


La strada tutta sepolta tra due crinali di colline, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca, o almeno così avrebbe scritto il Manzoni, e nella fanga passano e sostano cose, persone e animali; ecco per esempio un bianco bove che trascina un carretto, dappresso quattro portantini con cappelli bianchi trasportano una portantina, e un vecchierello canuto poco distante sta strascinando un baule fornito di quattro ruote cigolanti e in fondo alla strada c’è un pastore dietro un branco di pecore (anch'esse bianche), un pellegrino dal cuore nero è diretto in Terra Santa, ma per ora sta seduto su un sasso e si riposa. I crinali delle colline disegnano il profilo di una città perduta, forse etrusca, dalla quale, estrema propaggine, si dirama quel che resta di un muro e di una fonte con una vasca d’acqua fangosa, o forse nascondono i crinali le vertebre e le membra di un drago azzurro. Al confine con il cielo radi alberelli stanno di sentinella ad avvisare il drago dell’invisibile presenza di una tigre bianca che sbadiglia e si stira, appena dietro le colline. E’ un paesaggio che nemmeno alla lontana assomiglia a quel luogo perso nei meandri della memoria, silenzioso, verde ombroso e arcadico che i nonni forzisti di una volta sognavano essere l’Italia-Magica, piuttosto è un paesaggio brullo, un tempo antropizzato e ora perennemente fatiscente, pare masticato e sputacchiato da generazioni di barbari, barboni e barbagianni in saio. Paesaggio ingombro di rovine e ruderi di una estinta civiltà, da innumerevoli secoli i ruderi hanno preso il colore della terra, semiaffioranti tra i sassi e le erbe aromatiche che crescono spontanee nei campi incerti sono solo d’inciampo al pellegrino e agli sparuti coltivatori diretti.
La figurina che trascina il baule, che poi è la sua casa e la sua bottega (e chi non ha sognato almeno una volta di girare il mondo in roulotte), su ruote cigolanti si chiama Abacuc, è un robivecchi ebreo, vecchio più del cucco. Si dice di un oggetto o di un essere animato che è vecchio come il cucco quando è di molto ma di molto vecchio. E’ possibile usare il cucco come pietra di paragone per datare un oggetto o un essere vivente: un macinino del caffè, una macchina per cucire a manovella, Abacuc. Notate bene, questo modo di dire è usato solo in senso peggiorativo, se non dispregiativo. Infatti, non si dirà mai di un Commodore 64 con 48 K di Ram capace di generare il grafico a fil di ferro di una sinusoide dopo appena cinquanta minuti di calcolo che è vecchio come il cucco, ma di un vecchio PC 486 certamente sì. Un ragionamento analogo vale anche per un essere animato: il cane incontinente dei vicini di casa, il gatto spelacchiato della zia, il chiarissimo professore ottuagenario, e così via, sono classificabili vecchi come il cucco.
Una domanda sorge a questo punto spontanea: quanto è vecchio il cucco? E’ possibile trovare su ebay un cucco usato ma ancora in buono stato? E come riconoscere un cucco originale da una vile imitazione, solo dal prezzo esoso? O esistono parametri oggettivi, razionali, una lista razional-tipologica del cucco. E l’esperienza sul campo aiuta? Come quella che consente, per esempio, di distinguere a colpo d’occhio un fungo porcino da un fungo che sembra commestibile al profano ma non lo è. Già, esistono cucchi velenosi?
Per trovare una risposta a queste e simili domande si deve, per prima cosa, sgombrare il campo da un equivoco, duro a morire e anch’esso vecchio come il cucco: il cucco non è un oggetto, il cucco non è un essere animato, il cucco non è un animale o una pianta. Il cucco è un monte, o meglio era un colle, anzi era una collina situata nei dintorni di Firenze, in Oltrarno. Poco dopo la metà del XV secolo, sul pendio di quella collina, chiamata per l’appunto Montecucco, fu fatto costruire da tale Luca Pitti, pare su progetto del Brunelleschi, un palazzo che da allora in poi fu sempre conosciuto come Palazzo Pitti, nonostante i molteplici passaggi di proprietà (vi abitò anche Vittorio Emanuele II). Si potrebbe quindi affermare che Abacuc è vecchio almeno quanto Palazzo Pitti. Ma si può andare ancora più indietro nel tempo. Sembra che Luca Pitti fece pesare tutta la sua autorità per ottenere i permessi necessari per l’edificazione del suo palazzo, ché non poteva vivere altrimenti. In quel tempo di Rinascimento incipiente la mancanza di abitazioni popolari era già notevole, ciò nonostante Luca Pitti fece demolire le case che esistevano su Montecucco. I proprietari delle case, invitati a far fagotto delle loro quattro prugne (un altro modo di dire) e sgomberare, non ebbero né un compenso né un nuovo alloggio, ecco che prendeva campo una consuetudine, vecchia come il cucco. Le macerie di quelle case costituiscono, di fatto, il terminus post quem per datare il nostro macinino del caffè e il cane dei vicini, mentre Palazzo Pitti è il terminus ante quem del cucco.
Possiamo sicuramente datare Abacuc all'Alto Medioevo, prima del cucco.
A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi, osserva il Manzoni. E da quei campi scendevano 3 fuggitivi urlanti come se cavalcassero 3 mountain bike usate o rampichini: un grassone, un mercenario dei paesi del nord e un ragazzino residente in un villaggio limitrofo appena passato a ferro e fuoco. Essi correvano contro il vecchio rigattiere già tremolante di suo e adesso arciconvinto di terminare i suoi giorni davanti a una vasca battesimale piena più di fango che d’acqua; a scanso di equivoci si serra il vecchio a chiave dentro la sua roulotte, ma i tre figuri si rivelano essere ridenti, anche se un po’ selvaggi, venditori di cianfrusaglie. Cosa vendevano e cosa compravano i rigattieri di quei tempi là? Almeno una testa con gambe e strane bestie lumacose fuoriuscenti da seriche conchiglie e il canto di una sirena intrappolato in una conchiglia, e poi piante zoomorfe e facce lunari e ali di pipistrello e creste di drago e code di rospo, forse un carapace di testuggine marina, i denti incisivi persi a scuola dai bambini in un anno scolastico, piattole e ragni (sia vivi sia morti) in abbondanza, erbe aromatiche, erbe medicinali, fiori di Bach, pidocchi, incubi e demoni con ali d’angelo e demoni cinocefali e demoni con proboscide d’elefante, un ornitorinco imbalsamato, la pelle di un tapiro, il cranio di un polifemo siculo, pietre del fulmine, la mappa del tesoro di Teodorico, la dentiera di Attila, le foglie della Sibilla, un prisma ottico, lenti per vecchi e per vedere lontano, tappeti e stracci penduli, vasi ming e attici, cappelli piramidali, un coniglio nel cilindro, tarocchi e carte da gioco, statuette di Budda, barattoli di miele d'acacia e misteriosi animaletti e pesci degli abissi marini conservati in vasi di vetro colmi di alcool, la testa sotto spirito dell’imperatore buono Traiano e interi universi dentro palle di vetro, rocce zoomorfe, il corno di un unicorno, un ciocorì, macchie di muffa sui muri, la vasca con la fontana, una copia autografa della Bibbia e qualche mummia di santo, larve e coleotteri, nere farfalle e maschere polinesiane, polverose uova di emù e di gallina mugellana, uova quadre e una cartapecora con l’autorità di assegnare titolo e feudo al portatore della stessa.
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giovedì 26 agosto 2010

Case in capo al mondo, VII

Siete turisti atterrati, in una calda mattina di fine estate dell’anno 1971 (o forse 1972), nella città degli angeli. E dopo poche miglia scarpinate lungo piccole e grandi strade assolate ecco che v’imbattete in un cantastorie. E sta cantando. Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia. Salve, vecchie case, hamburger succulenti che cantano nei caffè di infimo ordine, salve Bing Crosby, che canti anche tu.
E’ vero, qualcuno sta proprio cantando (a parte il cantastorie) ma non è Bing. Dietro una parete di legno di una casa in stile "casa-di-Paperino" qualcuno sta effettivamente cantando. Bang! Meraviglia delle meraviglie meravigliose, state per incontrare un mito della vostra infanzia bruciata davanti al televisore a colori nel corso dei mitici (per voi) anni ottanta, del secolo scorso.
Vi infilate in una backstreet, ancora qualche passo strascicato, tra muri di calce bianca e pittura rosa e sotto un cielo azzurro senza una nuvola, e siete entrati da una porta finestra nella spaziosa e luminosa cucina di un vecchio robivecchi canterino. E’ lui che sta cantando, Fred Sanford, mentre cucina per il suo primogenito e unico figlio, Lamont. Il vecchio sta preparando la sua “ricetta speciale” per la prima colazione del figlio. Tirate fuori da una delle 100 tasche del vs. giacchetto alla pescatora il vs. taccuino con la copertina nera e prendete appunti della procedura, ché ‘ste occasioni sono da afferrare al volo, capita solo una volta nella vita di incontrare una cesarina così speciale come Fred Sanford (e vi siete già persi la ricetta dei colli di pollo fritti, con la storiella del cugino goloso di colli di pollo fritti che fu punito dagli dèi per la sua smodata avidità, infatti inghiottiva gli ossicini dei colli di pollo invece di risputarli nel piatto come esige il bon ton e così una notte nera e tempestosa gli spuntò un puntuto gozzo di pollo, tanto che da allora non potè più radersi il pomo d’Adamo ma se lo doveva fare spennare tutti i sabati del villaggio dal pollivendolo sotto casa; storiella che pare scappata per la disperazione dalle pagine delle Origini delle buone maniere a tavola di Claude Lévi-Strauss).

La ricetta speciale del vecchio robivecchi per la prima colazione del figlio, Lamont.

Affettate 1 cipollotto bianco e inciotolatelo in una bella ciotola fonda (tipo pappa per mastino napoletano);
affettate ½ pomodoro rosso da insalata, inciotolate;
spezzate 3 uova intere nella ciotola;



pepate e salate in abbondanza, indi mettete in scena un rito scaramantico per il sale versato;
mescolate gli ingredienti con brio, fino a formare un composto eterogeneo;


versate il buglione in una padella e date fuoco al gas;
mescolate, dall’esterno all’interno della padella, con un mestolo di legno per ben 35 secondi;




impiattate sopra 2 stringhe di pancetta, precedentemente (chissà quando) rosolate in un po’ di strutto;


grattate il bruciaticcio in eccesso da un paio di fette di pane in cassetta dimenticate nel vecchio fornetto elettrico, quindi spezzatele a metà;


decorate il piatto con i ¾ dei toast, mi raccomando con modi alla francese (e intascate il restante ¼ di toast caduto in terra).

Giudizio estemporaneo di Lamont: ha un aspetto orribile!
Giudizio organolettico di Lamont: non pervenuto.


La finestra scomparsa nella casa dei Sanford è quella a destra nell’immagine-collage, sembra che l’immagine abbia catturato anche lo spettro irrequieto del vecchio rigattiere, si agita qua e là, ovviamente sta solo fingendo di spazzare un tappeto. Niente paura, ché non c'è da aver paura dell'uomo nero... a meno che non siate leghisti, ma in questo caso sono ben altre le paure, be' comunque non siate tristi, piuttosto date un'occhiata fuori dalla finestra. Si vede la parete esterna della casa, e al di là della parete ci sarà ovviamente la cucina. Ma, come si è visto nel post n. 6 (punto A) non siamo in un interno borghese, quindi la cucina diventa ben presto uno spazio vivibile e autonomo, il cuore della casa, il focolare dove Lamont trascina il padre in accese discussioni. Ma la finestra in quel punto limitava fortemente il nuovo spazio scenico.



E sicché scomparve la finestra e fu come se non ci fosse mai stata.


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mercoledì 18 agosto 2010

Case in capo al mondo, VI


Chi non ha sognato, guardando fuori dal finestrino di un aereo che vola sferragliando sopra le nuvole bianche e le nuvole bigie, di atterrare a Los Angeles in un azzurro e troppo lungo pomeriggio d’estate dell’anno 1971. E dopo poche miglia di strade sconosciute entrare da una porta finestra in una casa di legno, passare da stanza a stanza, aprire il frigorifero e versarsi un bicchiere di succo di mela. Case in capo al mondo, case dietro l’angolo, case capovolte, case nascoste da una collina di materiale di scarto.
Il collage di frame che apre questo post mostra una veduta panoramica, quasi veneta, quasi fiamminga, della casa-baracca-magazzino di Fred Sanford e figlio, Lamont. E' la scenografia del primo episodio della prima stagione (1971-1972) della serie tv, ed è già perfetta così. Un uomo canta allegramente con accompagnamento di pianoforte. A sinistra c'è una porta finestra, la telecamera ruota e mostra una stanza che nemmeno alla lontana assomiglia a quel luogo perso nei meandri della memoria, silenzioso e in penombra e quasi atemporale e magico che i nonni buoni di una volta definivano il salotto-buono, piuttosto è una stanzaccia assolata, illuminata da 3 finestre e 1 porta finestra. Stanza perennemente crollante pare masticata e sputacchiata da un boxer di ventuno mesi, ingombra di oggetti che hanno preso il colore della tappezzeria, e viceversa, di cianciafruscole guaste e sparpagliate sui tappeti sbiancati dai soli di innumerevoli estati. E' il vecchio Fred Sanford, il robivecchi, che canta e suona; ma poi il cameraman muove la telecamera in avanti quanto basta per permetterci di vedere: meraviglia, il vecchio sta solo spolverando il piano, di fatto una pianola. E' abbiamo già capito che (A) non siamo in un interno borghese e (B) che è una radicata abitudine quella del vecchio di passare il tempo in ozio canicolare, libero il vecchio come un usignolo o il giglio del campo da preoccupazioni gioie e doveri borghesi (ben presto al posto della pianola spunterà un suonato televisore in bianco e nero, nella seconda stagione Lamont porterà a casa un divano spelacchiato e alé al vecchio resterà solo di sognare un tv-color con telecomando a tre tasti). Tanto è il figlio Lamont che lavora e suda, scrutando dall'ombra del suo pick-up giacimenti di materiali di scarto ai bordi delle strade di Los Angeles, e accumula indifferentemente dentro e fuori casa hardware, porcellane inglesi e bare e mode e manie e nere radici d’Africa di religioni vagamente orientali.
Eppure, anche nella casa luminosa dei Sanford si agita il mistero di una finestra che prima c’era e poi non c’è più.

Continua…
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sabato 14 agosto 2010

Case in capo al mondo, V

Torniamo ancora una volta all’interno dell’appartamento, situato al primo piano di una palazzina del primo novecento, stile eclettico moderno, situata chissà dove nella città di Tokyo, per effettuare un ultimo rilievo all’appartamento. Con la macchina del tempo torniamo indietro nel tempo a venerdì e nello spazio del soggiorno...




Steve seduto su un letto improvvisato, messo al corrente dell’importo in Yen, del cambio in Sterlina Inglese (British Pound), e del cambio in Dollaro USA, dal cambia valute Sir William, del valore di 1/8 dell’affitto mensile pagato dall’inquilina inglese allo sconosciuto padrone di casa giapponese, convince Sir William a subaffittargli per qualche giorno la metà della sua metà dell’appartamento in cambio di 1/16 dell’affitto mensile. Solo una tradizionale parete in legno e carta di riso difende dai ragionamenti contabili dell’atleta americano il silenzio orientale della stanza accanto, la camera da letto della ragazza. In primo piano un acquario e a destra e al di là del muro c'è la cucina, la porta del soggiorno si apre su un disimpegno: alla nostra destra c'è la porta d’ingresso dell’appartamento, a sinistra la camera e in fondo al disimpegno (o corridoio) e dopo qualche scalino in discesa, il bagno. Nessun’altra stanza né finestra sembra esistere nell’appartamento 2A, che potrebbe essere locabile come bilocale; bazzecole, pinzillacchere, insomma niente che possa finire nella scatola dei gioielli di famiglia (o nel sacco di juta) di qualche parente, parentastro, affine, anfibio con le branchie o collaterale della banda Bass… cioè di un eroe locale della politica italiana.


Sabato mattina. Una veduta del soggiorno visto dalla camera da letto, come se la tradizionale parete in legno e carta di riso fosse aperta.


Sabato pomeriggio. Una veduta del soggiorno, lato ingresso. Steve, in compagnia di un atleta dell’Unione Sovietica, invita a cena Sir William che accetta ben volentieri non avendo niente di meglio da fare, a parte leggere un libro con la copertina rigida di colore rosso, e che fine ha fatto la sovraccoperta? (per tacere di Monica Vitti e Luca Pitteri).


Rieccoci alla mattina di sabato. Sir William ha appena bussato alla finestra del bagno, dove l'inquilina inglese è appena uscita dalla doccia. L’immagine-collage mostra il prospetto dell’appartamento lato strada: la finestra appannata del bagno (con il tondo fatto con la mano dall'inglesina), la finestra misteriosa, la finestra della camera dove entrerà Sir William con la bottiglia del latte per la prima colazione e finalmente la porta finestra del soggiorno, dove Steve sta rifacendosi il letto.


Cary Grant passando accanto alla finestra misteriosa getta un’impossibile occhiata curiosa dentro la stanza fantasma dell’appartamento 2A situato al primo piano di una palazzina, primo novecento stile eclettico moderno, a Tokyo, 235 Osako Road.
Solo un'occhiatina metastorica e la trama è salva.
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venerdì 13 agosto 2010

Case in capo al mondo, IV

Dove eravamo rimasti? avevamo appena lasciato Sir Rutland e l’atleta della disciplina misteriosa Steve, un venerdì dell’anno 1964, nell’atrio fatiscente, eppure luminoso, di una palazzina del primo novecento, stile eclettico moderno, situata chissà dove in un quartiere della città di Tokyo, e nell’ultima immagine del post precedente si intravedeva appena la prima rampa di scale, e nel vano scale era allocata una bicicletta, probabilmente di un inquilino, e dalle etichette attaccate con la colla uhu sopra le rosse cassette postali il blogger aveva scommesso, in palio un torroncino di Fred Sanford, che gli appartamenti occupati erano i 5/6 del totale, probabilmente abitati per la maggioranza da genti strane strambe (senza dio), perché né San Francesco né Gesù hanno mai avuto un pied-a-terre a Tokyo: si sono fermati in un Bed & Breakfast in India, e con tutti quegli inviti a pranzo e a cena e a colazione di cugini di secondo, terzo, quarto grado (e dire che il nonno di Gesù, dio della tempesta, lo aveva avvertito, guarda, te lo dico con esperienza non accettate mai quegli inviti di dei di second'ordine, per lo piu ti molestano, ti minacciano, ti insultano, ti si attaccano alle vesti piangendo un'elemosina) alla fine hanno pensato bene di tornare a Eboli.

Strano ma vero, in quella terra senza misericordia ci vivono creature misericordiose, i bambini. Volendo bastava guardare un frame più là ed eccone due esemplari piccini picciò, maschio e femmina, seduti su un gradino della prima rampa di scale.

Ebbene sì.


Sabato mattina. Sir Rutland mandato a prendere il latte è rimasto fuori casa, causa la porta di casa chiusa per sbaglio da un assonnato Steve, e il destino si è compiuto, il frame ce lo mostra in atto di uscire in vestaglia per strada (e i bambini - come le stelle - stanno a guardare).


Anzi lo seguono in strada, e mentre Rutland guarda la porta-finestra di legno e carta del soggiorno (e a destra nell'immagine si vede la finestra piccola rettangolare della cucina) loro guardano Rutland come se fosse una commedia con Ginger Rogers e Fred Astaire (ma con il tip tap sottotitolato in giapponese, è ovvio). La tettoia in primo piano cela le finestre del lato ovest.

Ma è il mistero, il mistero di una finestra in più nell’appartamento che dà a questa casa un fascino unico? O è il suo essere fragile di carta e legno, un riparo di muri fatti di niente e nonostante è una casa, una casa all’angolo di due vie calpestate da gente orientale notoriamente indaffarata, ma ci siamo distratti e intanto Sir Rutland sta scalando la parete ovest della palazzina (in ciabatte).


A sinistra la finestra che dà aria e luce ad una stanza misteriosa.

Continua…
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domenica 8 agosto 2010

Case in capo al mondo, III

La casa di questo post è un appartamento a Tokyo, preso in affitto da tale Christine Easton (Samantha Eggar), fidanzata con un tizio ampolloso e saccentino, segretario della locale ambasciata inglese. L’appartamento è al primo piano di una palazzina del primo novecento, stile eclettico moderno, un po’ fatiscente, palazzina situata da qualche parte a Tokyo. Ok, e fin qui, tutto bene. E’ un giovedì (non nero) dell’anno millenovecentosessantaquattro. E allora? Ebbene, era il 1964 l’anno delle Olimpiadi Moderne a Tokyo. Ecco, con due giorni in anticipo sulla prenotazione in un grande albergo della città nipponica approda l’industriale inglese Sir William Rutland (Cary Grant), ma viene subito rimbalzato fuori dalla reception dell'albergo con tante scuse e inchini. La sorte benigna vuole che l’industriale legga sulla bacheca dell’ambasciata inglese, dove dietro un bancone staziona l’ampolloso segretario di cui sopra, un messaggio scritto di proprio pugno della Easton, dove offre la condivisione di appartamento e affitto (implicitamente l’offerta era dedicata solo ad esponenti del sesso femminile). Rutland convince la riluttante Christine alla condivisione dell’appartamento per una settimana; nessun gossip per le malelingue, Rutland, come l'anziano pard di Tex Willer, si aggira attorno alla sessantina, infatti viene subito scambiato dall’amica giapponese di lei per un anziano parente in visita.

Rutland, la mattina di venerdì, mentre si prepara un caffè all’inglese: una tazzina d’acqua e il filtro del caffè pieno oltre l’orlo.

Rutland con un foglietto in mano, vi legge i rigidi orari nell’utilizzo del bagno dettatigli dalla coinquilina e affittuaria. Alle sue e nostre spalle c’è il bagno, a sinistra la porta d’ingresso dell’appartamento 2A e a destra la porta della camera della ragazza; in fondo al disimpegno (o corridoio) alla nostra destra si apre il piccolo ma luminoso soggiorno, riattato per l’occasione in stanza da letto di Sir Rutland.

Rutland nella stanza da bagno mentre si guarda attorno (notare il foglietto con le note orarie appiccicato allo specchio): calze appese, calendario giapponese e una presa elettrica che oggi in Italia non sarebbe a norma ma forse lo era in Giappone nel 1964.

Sempre la sorte vuole che il venerdì mattina l’industriale si imbatta in certo Steve Davis (Jim Hutton, l’attore della serie televisiva Ellery Queen), architetto e atleta americano, olimpionico di una misteriosa disciplina e ora in attesa di entrare in possesso di una camera nel villaggio olimpico, beccato dalla sicurezza di un edificio, sede di un produttore di transistor con cui l’industriale inglese è in affari, a tracciare schizzi su un taccuino da disegno, in compagnia di un atleta sovietico. Risolto l’equivoco, Steve è interessato alla forma e non ai segreti celati all'interno della costruzione architettonica, esempio notevole di vecchio moderno antico Giapp in nuovo stile occidentale, con originali soluzioni in occorrenza d'eventi sismici (eventi che accadono sempre e solo all’altro capo del mondo), l’atleta convince ben presto Rutland a subaffittargli per qualche giorno metà della metà (qui non è un quarto ma un terzo) dell’appartamento, proprio quello che il giorno prima l'inglese aveva preso in affitto, però pagandogli metà della metà di ¼ dell’affitto che la ragazza una volta al mese paga al proprietario di casa.

Rutland e Steve mentre entrano nell’atrio della palazzina, a sinistra si intravede la prima rampa di scale (nel vano scala è allocata una bicicletta, probabilmente di un inquilino, dalle etichette appiccate sopra le cassette postali si evince che gli appartamenti occupati sono 5 su 6).

Il resto della storia è una commedia americana (Cammina, non correre, 1966) e ai fini dei post di questa serie non c’interessa sapere come andrà a finire la storia (non bene per il segretario dell'ambasciata). C'interessa denunciare (purtroppo non risolvere) un mistero, il mistero di una finestra in più nell’appartamento giapponese, comunque un mistero affatto tenebroso, siamo in una classica commedia americana anni sessanta del secolo scorso.

Continua...
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lunedì 2 agosto 2010

Case in capo al mondo, II

Da dove si comincia? Da una casa che non è una "casa" ma una capanna, costruita con materiali portati dal mare e raccattati sulla spiaggia, materiali di scarto.



Attenzione, in questa casa si entra dalla finestra, difatti da una porta-finestra, che si apre su un “giardino” che in effetti non è un giardino ma una spiaggia situata in Scozia, in altre parole in capo al mondo (dal nostro relativo punto di vista, s'intende).


Chi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di possedere una spiaggia in Scozia? Be’, il protagonista del film Local Hero (1983) ne possiede una, e non la vuole vendere. Il magnate del petrolio Felix Harper, erede della dinastia dei petrolieri Knox, spedisce un suo collaboratore, un certo Mac, in capo al mondo con il compito di comprare spiaggia, villaggio e terreni attorno alla spiaggia, perché proprio lungo quel tratto di costa dovrà essere costruito un impianto per la raffinazione del greggio. Tutti sono più che felici all'idea di vendere le proprie proprietà, anche il prete (però è un prete protestante), cioè tutti meno uno, il proprietario della capanna (in quanto legittimo proprietario della spiaggia), un certo Ben Knox. Perché non vuole vendere la spiaggia? Non è importante ai fini di questo post. Spiagge esotiche da cartolina in cambio di una grigia e umida spiaggia scozzese sono rifiutate dall’eccentrico personaggio. Valigie zeppe di dollari sono respinte al mittente. Che importa sapere perché. Importa la contrapposizione visuale tra un elicottero, una grigia spiaggia deserta e una capanna priva di porta ma con una “porta-finestra”. Ora, noi non sappiamo com’è fatto l’interno della capanna, perché noi guardiamo con gli occhi di Mac e Mac non entra mai nella capanna… Ma i vincoli di questa serie di post sono rispettati (anche quelli edilizi), perché esiste forse un dentro e un fuori in una capanna costruita con materiali di scarto? In altri termini, mica stiamo parlando del mulino bianco della pubblicità o dei fienili riattati a villini…

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domenica 1 agosto 2010

Case in capo al mondo, I

Chi non ha sognato, guardando fuori dal finestrino di un treno regionale che corre sferragliando in un pomeriggio d’estate, di scendere alla prima stazione e dopo pochi metri di strade sconosciute entrare in un portone di una casa, passare da stanza a stanza come se fosse nostra. Case in capo al mondo, case dietro l’angolo, case nascoste da un muro di giardino. Case vuote ma familiari, con il frigorifero spento e la spina sul pavimento e nella credenza qualche barattolo polveroso di pomodori, piselli, qualche scatola di pasta e ovviamente il caffè... be’, certo anche la marmellata e poi via, c’è il forno proprio sotto casa; un gatto salta il muro in opus incertum del giardino e ci viene a fare visita in cucina, mentre il cane resta fuori ad abbaiare. Case viste nei film e impresse per sempre nella memoria.

Mettiamo subito un vincolo: queste case non sono wunderkammern. Ci sono tanti esempi di wunderkammern nel cinema ma non sono poi molte le case mostrate da cima a fondo nella cinematografia mondiale. Ok, qualche volta la casa si riduce ad una camera ammobiliata in affitto dove l’assassino scrive una lettera (anonima) alla polizia, ma al regista interessa mostrare la mano grassoccia dell’assassino che scrive la lettera (anonima) mica la camera… Spesso il protagonista è lì che si torce le mani, chiuso in una cella, uno studio, un laboratorio, un ufficio statale, oppure gira, con le mani in tasca, le sale di un museo di storia naturale, ma cosa c’è dietro quella porta e dove portano quelle scale e cosa c’è nelle altre stanze della casa, noi non lo sappiamo e probabilmente (salvo un sempre possibile remake) non lo sapremo mai. E se la stanza è mostrata nei minimi dettagli allora è una wunderkammer, non una immagine del tempo ma una capsula del tempo. Una stanza delle meraviglie, separata per sua natura dalle altre stanze quotidiane di una casa che può essere fatta di nebbia (Solaris di Tarkowskij) o di cartapesta o di finzioni.

E ora poniamo il secondo vincolo. E’ vero, esistono case che il regista ci mostra da cima a fondo ma noi non ci vorremmo mai abitare (La Casa di Raimi), mica per altro ma gli spettri sono presenze troppo ingombranti e inquinanti, ti deformano la visuale in un'assurda prospettiva, non ti lasciano mai bere in pace un caffè… dunque siamo alla ricerca (nella cinematografia mondiale) di case luminose, case serene anche sotto cieli neri di tempesta.

E ora l'ultimo vincolo. Il protagonista di una canzone di Guccini (Argentina), immagina di entrare a caso in un portone, di fresco, scale e odori abituali, posar la giacca, fare colazione e ritrovarsi in giorni e volti uguali… tutto ok fin quando disegnando un labirinto di passi tuoi per quei selciati alieni ti accorgi con la forza dell’istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni. Città aliene, e quindi per definizione città deserte di esseri umani (o scarsamente abitate da scarsamente umani), città del dopo bomba, virus, a ferragosto, città canicolari o autunnali, finalmente città metafisiche. Le città sono conglomerati di case, scuole, uffici, banche, ospedali, musei… e soprattutto di persone. L’ultimo superstite in una città deserta entra in una casa, scavalcando la mummia grigia di una vecchietta rattrappita sul pianerottolo, guarda nella credenza in cucina, è alla ricerca oziosa di qualche barattolo di pelati, ceci, caffè; è ozioso perché l’intera città gli appartiene. L’ultimo eroe superstite cammina senza fretta su strade solitarie, attraversa piazze metafisiche… vivere in un quadro metafisico sarà affascinante per qualche giorno, forse un paio di settimane, ma alla lunga sopravvivere in un quadro di De Chirico deve essere di una noia mortale… dunque, cerchiamo esempi di case in mezzo a quartieri affollati (anche se in capo al mondo), anche se nascoste dagli alberi di un giardino mediterraneo, o sul confine di un villaggio di pescatori.
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