sabato 31 ottobre 2009

Un gioco per Halloween

Halloween è una festa tipicamente americana, e quindi solare anche se si fa di notte. E' la notte delle streghe, infatti, quando gruppetti di bambini sghignazzanti e tutti compresi nel ruolo e nei panni di innocenti fantasmini, girano per le strade deserte delle città di provincia, e salgono i pochi gradini delle verande illuminate e bussano alle porte a rete, esigendo il solito aut aut (che non è quello del fidanzato pedicelloso, ma semmai quello di Soren Kierkegaard) tra dolcetti o scherzetti.

Ed ecco uno scherzetto, provate ad indovinare chi sono gli autori delle tredici citazioni seguenti.
Per rendere meno banale il gioco ho sostituito i nomi presenti nelle citazioni con degli asterischi (***). Gli autori sono il senese Federigo Tozzi (Bestie) e l'americano John Fante (Chiedi alla polvere). Via! Si parte.

(1) La città che si stendeva ai miei piedi sembrava un albero di Natale, carico di lumini rossi, verdi e blu. Salve, vecchie case, hamburger succulenti che cantano nei caffè di infimo ordine, salve ***, che canti anche tu.

(2) La strada per tornare a *** è là. Vado.
Le case si facciano un poco a dietro, e quel mendicante non mi cada addosso. Almeno, l’altro è seduto per terra! Dio mio, tutte queste case! Più in là, più in là! Arriverò dove trovare un poco di dolcezza!
Dio mio, queste case mi si butteranno addosso! Ma un’allodola è rimasta chiusa dentro l’anima, e la sento svolazzare per escire. E la sento cantare.

(3) Non escono quasi mai insieme; ed ella è seguita da un canettaccio bastardo, spelacchiato e rattrappito, che dopo ogni trenta metri s’arresta per non cadere su le gambe di dietro.

(4) ***, dammi qualcosa di te! ***, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia.

(5) Cosa non avrei dato per una ragazza ***! Ci pensavo tutto il tempo, alla mia ragazza ***. Io non l’avevo, ma le strade ne erano piene, la Plaza e il quartiere cinese ne erano come incendiati, e nella mia fantasia le possedevo tutte, questa e quella…

(6) Dunque dicevo che la mia zia aveva una voce che ricordava le pasticche biascicate senza che nessuno se n’avveda.

(7) Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i geranii. Di primavera m’ostinavo a doventar cattolico e d’inverno sognavo di doventar ricco.

(8) La mia filosofia, allora, era che si dovessero amare tutti gli esseri viventi, uomini e bestie, dello stesso amore, e *** ne era la dimostrazione. Purtroppo il formaggio aumentò di prezzo, e io fui costretto a nutrire col pane sia lui sia tutti gli amici che invitava.

(9) Mi chiedo se la mia anima è già macchiata, se devo voltarmi e tornare indietro, se un angelo veglia su di me, se le preghiere di mia madre mi tranquillizzano o se, piuttosto, non mi infastidiscono.

(10) Ho sempre desiderato donne le cui scarpe valevano tutto quello che ho mai posseduto.

(11) …tutto il medio evo era dinanzi a me: io mi sentivo una spada in mano, e dovevo per primo cominciare battaglie che duravano secoli.
Io sorridevo guardando il sagrestano che zoppicando portava la scala da un punto all’altro delle lunghe pareti.
I sacerdoti mi benedicevano, il papa m’invitava a trovarlo.
Scricchiolò in una cappella, da un lato, una cassapanca antica: corse attraverso tutto l’impiantito, sparì, come il brivido dalla testa ai piedi, un topo.

(12) Anche l’altezza mi mette paura, e il sangue e i terremoti; per il resto non temo nulla, tranne la morte, il pensiero di mettermi a urlare in mezzo alla folla, l’appendicite, e un attacco di cuore, già, anche questo…

(13) Era come un santuario, quel locale. Tutto lì era santo, le sedie, i tavoli, lo straccio che aveva in mano, la segatura che calpestava. Lei era una principessa maya e quello era il suo castello.

Ed ecco il dolcetto, cioè le risposte :)

(1) Fante; gli alberi di Natale non esistevano in Italia, al tempo di Tozzi (e neppure gli hamburger). Il personaggio asterizzato è Bing Crosby (sarebbe stato troppo facile).

(2) Tozzi; e la città è ovviamente Siena. Non facile, ché anche Fante soffriva di claustrofobia, ma il particolare del mendicante palesemente – per Tozzi - privo di gambe (seduto per terra) è tipicamente tozziano. Poi basta leggere le frasi ad alta voce per sentire la calata senese (niente punti interrogativi!)
Escire e non uscire, non è un mio errore di copiatura.

(3) Sempre Tozzi; per gli stessi motivi del punto (2).

(4) Fante; la città è Los Angeles (quella del Tenente Colombo e degli zombie e di Sanford & Son). Difficile da indovinare, ma c’è il particolare del triste fiore nella sabbia, Tozzi lo avrebbe schiacciato con il tacco della scarpa.

(5) Fante; che sogna una ragazza messicana e pagana, Tozzi c’ha la fidanzata, pure cattolica.

(6) Tozzi; sembra ironico e sarebbe Fante, ma non lo è, quindi è Tozzi.

(7) Tozzi; è il doventar che lo frega.

(8) Fante; il personaggio asterizzato è Pedro, un topo. Tozzi non avrebbe mai dato un nome ad una bestia, ma se lo avesse fatto la avrebbe chiamata (fedele al pensiero di Arturo Bandini): Abramo, Mosè.

(9) Fante; per l’allusione alla città degli angeli, se mancasse l'allusione si dovrebbe tirare a sorte.

(10) Fante; che si innamora della ragazza messicana con le huarachas logore e sfilacciate.

(11) Tozzi; Bandini vuole bene anche ai topi.

(12) Fante; Tozzi è un’enciclopedia medica con le gambe.

(13) Fante; Santanico Pandemonium sta per arrivare.

Ritornati dalla polvere (n.1)

Con questo post inizio una serie di post dedicati alle biblioteche presenti nei film e nei romanzi.
Il titolo del post, in sintonia con questa notte di Halloween, è copiato pari pari dal titolo di un romanzo di fantasmi e di strani esseri immortali e di streghe e maghi, di Ray Bradbury.

Da dove si comincia? Dalla biblioteca del monastero di Eco dirà qualche lettore. No, si comincia da una serie di stanze e corridoi deserti di un palazzo sfarzoso e direi principesco.
Un palazzo che è come un labirinto, fatto di cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse, scuderie, serre afose, di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di mobili, di corridoi stretti e tortuosi, dove a furia di giravolte e di ritorni è facile perdere l’orientamento ed è necessario affacciarsi da una finestra senza vetri per capire dall’aspetto di una corte, dalla prospettiva di un giardino, in quale ala dell’immenso palazzo ci troviamo.
Testimoni muti del passaggio di esseri viventi sono, come contrassegni, la carogna di un animale, una manciata di pasta al pomodoro buttata o vomitata via.
Pensate che sto parlando per allegoria, e che il palazzo principesco sia l’Italia?
Ma no, è il palazzo di Donnafugata, così descritto, nella sua parte disabitata, nel romanzo di Tomasi di Lampedusa.

E i libri? i libri dove stanno, dirà il solito lettore astioso (e pure pedante… e ignorante). Be’, a parte lo strisciare di una lettera centenaria dimenticata che il vento faceva errare sul pavimento, tutti i libri del palazzo di Donnafugata o sono dispersi su per i muriccioli o sono in casa di Umberto Eco o sono stati traditi e sono polvere nel vento, come il povero Bendicò.

E quella sua famosa libreria? E’ forse ancora dispersa su per i muriccioli. (A. Manzoni)

Paese d'Ottobre

La vita è il paragone delle parole. (Alessandro Manzoni)
Utilizzate la parola giusta e non una sua cugina di secondo grado. (Mark Twain)

La vita è il paragone delle parole, quindi non utilizzate mai la parola giusta, solo una cugina di secondo grado.
La vita è una variegata e pirotecnica metafora barocca di un semplice sì, un semplice no.
La vita è il paragone delle parole, quindi per fare bella figura tutti silvi, sorridenti e pettinati.

***

Ho sentito da un professore con barbetta, baffi e occhiali, raccontare divertito ai colleghi divertiti la storia di un cane che si era tolto la vita, buttandosi da una finestra al secondo piano di una casa, e che il suo padrone (del cane, non del professore) nel riconoscerlo giù in strada, e quasi sospettoso di un dono di ubiquità nel cane, vivo in casa e morto in strada, si era pure meravigliato ché gli aveva appena somministrato uno psicofarmaco (per l’ansia da abbandono).

mercoledì 28 ottobre 2009

La soffitta (tra 2 e 3)

Tutte le volte che il ragazzo tirava fuori la testa dal pavimento, salendo gli ultimi scalini della scala a chiocciola, la prima cosa che gli balzava agli occhi, abbagliati da una lama di pulviscolo infuocato che solcava in diagonale l’ombra stagnante nella soffitta, era un vecchio armadio con le ante di vetro smerigliato, accostato e compresso tra la parete della soffitta e le travi del tetto. Come un grosso androide squadrato e accucciato, in eterna attesa del comando vocale di attivazione, così l’armadio dominava gli altri oggetti in soffitta, grazie al suo essere alto circa due metri e mezzo, largo un metro e mezzo, profondo ottanta centimetri e pesante in proporzione. Eppure un giorno era stato smontato, portato su per la scala a chiocciola e rimontato in soffitta, forse perché non c’era più spazio nelle stanze abitate, o perché stonava con l’arredamento minimalista, o perché le tarme volano basso e non lo avrebbero potuto raggiungere lassù in alto. Non c’erano più i ripiani interni, probabilmente erano andati smarriti nel corso del tortuoso viaggio. Era un armadio del tipo “cristalliera”.

La cristalliera era un mobile in uso alla fine dell’Ottocento per custodire e proteggere oggetti di cristallo. Esistono vari tipi di cristalli: il cristallo di Boemia fatto con l’aggiunta di calce, il cristallo inglese, il cristallo di Flint usato per oggetti d’ottica, ecc. Si chiama cristallo anche il vetro circolare, di forma più o meno convessa, che se ne sta incastrato nel quadrante dell’orologio. Il cristallo è un tipo di vetro, e il vetro è un materiale solido di struttura amorfa, non cristallina. Com’è allora che alcuni vetri sono chiamati cristalli? Ti diranno di dimenticare, cancellare la parola cristallo, quando penserai ad acquistare oggetti di vetro, perché dal punto di vista scientifico è una parola errata. Il vetro è un materiale composto essenzialmente di sabbia (silice), e la silice fonde a circa 2000°C, una temperatura notevolmente alta, e per abbassare il punto di fusione della silice si usavano fin dall’antichità particolari sostanze, chiamate fondenti, ad esempio l’ossido di piombo.
Plinio il Vecchio racconta una leggenda sulla scoperta del vetro. Era già sceso il tramonto quando su una spiaggia deserta di un fiume in Fenicia approdò una nave di mercanti di salnitro provenienti dall’Egitto, per passare la notte. I mercanti pensarono bene di cuocere la cena e per tenere sollevati i pentoloni sopra il fuoco usarono alcuni blocchi di salnitro. Durante la cottura una parte del salnitro si mescolò con la sabbia provocando l’abbassamento del punto di fusione e fondendo la sabbia in una pasta vetrosa.
È opinione comune tra gli storici che il fatto narrato da Plinio non sia realmente accaduto, anche perché un focolare di legna raggiunge al massimo la temperatura di 800° C, insufficiente per la fusione della sabbia, pure se in presenza di un fondente naturale.
A contatto con l’aria il liquido vetroso si solidifica velocemente, acquistando una struttura amorfa, eppure la sabbia silicea ha una struttura cristallina, così come lo zucchero che se si scalda fino alla liquefazione e lo si versa in uno stampo si condensa in un materiale amorfo d’aspetto vetroso.
Si potrebbe affermare che il termine vetro non definisce un materiale quanto una procedura, un metodo, così il termine cristallo ha origine da un procedimento inventato dai veneziani nel XV secolo per ottenere vetri di elevata trasparenza. Essi sottoponevano le ceneri di piante usate come fondente a un processo di depurazione per ricavare il sale di cristallo o così almeno è riportato nel libro delle procedure e delle storie del e attorno al fuoco. [...]

La cristalliera era in legno di noce, con bande decorative orizzontali in alto e in basso e verticali ai lati delle ante, con ornati vegetali applicati in rilievo. Su entrambe le bande laterali si stagliava uno strano essere zoomorfo; una creatura per sempre in bilico sul crinale che separa il regno vegetale dal regno animale, con un volto di sfinge, e la bocca spalancata in atto di urlare o dilaniare. L’essere era dotato di otto coppie di melagrane spaccate alternate a ornati vegetali. Il corpo totemico terminava in basso in una valva di conchiglia del genere “a pettine”.
La cristalliera era un simbolo del Tempo, custode di oggetti in cristallo, un tempo sabbia.
In passato la cristalliera custodiva una coppa trasparente di cristallo, scrigno di caramelle di menta, orzo, rabarbaro, liquirizia, geléè di anice, fragola, ribes, mora, mirtillo, arancia, limone, mandarino, pompelmo, caramelle che frizzano sulla punta della lingua, caramelle di zucchero che si sciolgono in bocca o nelle tasche nei pomeriggi infuocati d’estate, e caramelle gommose che il Tempo trasforma in piccoli ciottoli duri arrotondati dalle correnti di gelidi torrenti montani.
Gli esseri zoomorfi erano forse un presidio odontoiatrico contro le carie infantili? Forse erano un monito ai bambini nell’età delle paure irrazionali, la paura dell’Uomo Nero che gratta alla porta, e dell’essere impalpabile che si vede solo con la coda dell’occhio, dei futuri danni arrecati alla dentizione da una alimentazione basata prevalentemente su banali zuccheri e misteriosi aromi.

Ma se il ragazzo avesse guardato con più attenzione il pavimento polveroso, nei pressi dei pesanti piedi zoomorfi della cristalliera, avrebbe notato alcune collinette di polvere biancastra, formate da trucioli di legno finemente tritato, e piccoli forellini sparsi qua e là sulla opaca superficie della cristalliera. Erano i silenziosi testimoni di una metamorfosi, generazioni di tarli si erano mutati in evanescenti farfalle, che caduto l’ultimo velo di legno erano volate via. E chissà che in fondo ai cunicoli che sprofondavano nel legno ci fosse ancora qualche spaurito tarlo, scampato alle iniezioni di veleno; di notte si sarebbe destato inquieto, battendo la testa contro le pareti del cunicolo, tic-tac, tic-tac, tic-tac. Piccolo orologio della morte che segnava i giorni, i mesi e gli anni che restavano da vivere al vecchio armadio, prima che le zampe spugnose cedessero, sotto il peso del legno e del vetro e del Tempo, in un secco schianto di vetri e legni esplosi.
E lontano lontano, perso nel mare di legno, gli tornava indietro l'eco di un altro solitario naufrago, tic-toc, tic-toc, tic-toc; battiti spaventati del cuore di un fantasma dimenticato. (*)


(*) Claudio Piccini, Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza, luglio 2008)

lunedì 26 ottobre 2009

Local Hero

Barko è il nome del cane da slitta protagonista di una storia, datata e ambientata nel 1965 (U.S. «North of the Yukon», 9/1965), del grande Carl Barks, dove si racconta di un vecchio e avarissimo multimiliardario, sconosciuto papero che per la prima volta in vita sua rilascia un'intervista, a pagamento, diventando così improvvisamente famoso in tutto il mondo. Ma il servizio giornalistico risveglia in un vecchio strozzino in Alaska il ricordo di un pagherò, firmato dal papero nel lontano 1898. In realtà a suo tempo l'uomo aveva dichiarato di aver smarrito quel foglio e aveva firmato un'altra ricevuta come estinzione del debito del papero. Ovviamente il papero-che-non-buttava-mai-nulla ha conservato la ricevuta e la porta con sé in Alaska. E alla fine della storia, di una semplice storia a fumetti, dopo varie disavventure e un’estenuante corsa su una slitta trainata dall’ultima scalcinata muta di cani, Uncle Scrooge sceglie di perdere tutto il patrimonio pur di salvare la vita a Barko, in passato il più famoso cane da slitta dell’Alaska.

domenica 25 ottobre 2009

Luna ora che abbiamo la tua attenzione rispondi alle nostre domande

Ho dimenticato le domande...

...Essi ci troveranno alfine -  una notte d’inverno  -  in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona...

Backstreets

Retro di una strada secondaria di periferia (in giro con il cane).
In lontananza vedo un uomo che sfrega in terra la suola di una scarpa. Mi avvicino e mi preparo malevolmente a una rissa verbale. Ma quando sono vicino mi avvedo e vedo che sta sbriciolando con il piede una fetta di pane secco per gli uccelli.
Lo Straniero, forse dell'Est, mi guarda e sorride, di un sorriso timido e lieve.

sabato 24 ottobre 2009

Uccidiamo la Luna

Eccomi di nuovo su questo vecchio blog a scrivere, e cercando di scrivere qualcosa che non sia un ricco sfogo, sebaceo; e visto che ho aperto e chiuso nel giro di una settimana un nuovo blog "a tema libero" mi posso ben definire un bloggista ondivago, ma a parte il carattere che è quello che è, mica ho voglia di buttare a mare dieci anni di presenza in Internet producendo non barbarici balbettii e baggianate da primo della classe della serie il "primo portale del Cad (in Italia)", ma solo, e scusate se è poco, qualche centinaio di lisp e programmi di grafica e vision e render e ora e adesso riflessioni rifrazioni diffusioni e speculazioni in questa Terra di Mezzo, sospesa tra grulli e Geni (della lampada).

Mattino di primavera


Come se fosse tutto un sogno incantato portato via dal mattino...

Alieni a Firenze (Ghetto e astronavi)

Una riflessione, che mi riprometto di sviluppare nei prossimi post, una riflessione su una connessione che ho scoperto qualche mese fa, fra il modello architettonico del Ghetto e il tema dell’Astronave-Città-Mondo (la connessione non si può sviluppare c'è o non c'è, per me c'è).

L'autore del blog CG-CAD aveva iniziato con queste parole un post intitolato Una connessione.
Poi tutto è drammaticamente precipitato, il blog CG-CAD si è chiuso domenica 18 ottobre, e la promessa di sviluppare la riflessione non è stata mantenuta (falso allarme: il blog è stato riaperto).
Caso vuole che l'autore di questo blog (alludevo al blog che è vissuto per quasi una intera settimana di ottobre) era anche l'autore del blog CG-CAD, e forte di questa straordinaria coincidenza, può riprendere le fila del discorso, con un primo tentativo di spiegazione, di chiarimento, ovvero una prima riflessione sulla connessione Ghetto-Astronave, citando una affermazione di Stendhal:

Firenze, pavimentata a grandi blocchi di pietra bianca di forma irregolare, è di una pulizia rara; nelle sue vie si respira non so quale straordinario profumo. Se si fa eccezione di qualche borgo olandese, Firenze è forse la città più pulita dell'universo.

(Mi scuso se non cito il riferimento, ma la citazione era in un libro che mi è stato mangiato dal cane). Attenzione, Stendhal non scrive che Firenze è la città più pulita d’Europa (e fin qui), ma è la città più pulita dell’Intero Universo. Se qualche lettore ha letto l’affermazione di Stendhal in chiave psicosomatica (qui ci starebbe bene un link per Wikipedia, vedi voce Sindrome di Stendhal, ma il lettore può chiedere l'indirizzo a Google che glielo fornirà subitaneamente, ma se scontento e ingrato mi manderà a prendere un caffè be' almeno quello che me lo paghi), insomma quel lettore di prima non mi potrà seguire fino in fondo a questo post, che continua, infatti, con una affermazione ancora più radicale, 'sta volta di Dante, e cioè che la sua Divina Commedia, ma generalizzando qualsiasi opera umana, anche l'affermazione su citata e buttata là da Stendhal mentre disteso in terra aspettava beato l'arrivo dei volontari della Misericordia, può essere letta e interpretata in almeno quattro modi: letterale, allegorico, morale e anagogico. Come puoi generalizzare? mi chiederà il solito lettore astioso ma, dico io, se il tipico impiegato statale, cioè quello che esiste nei sogni di Brunetta e della miglior gioventù e vecchiezza hitaliana, nel prepararsi il caffè autarchico, miscela pregiata di cicuta e circolari arabiche e voucher a fondo perduto, rigorosamente tappato dentro l'ufficio, sopra un fornelletto con il cavo elettrico mangiucchiato dal grigio topolino collega d'ufficio, ascolta Letter To Lucille di Tom Jones fischiettando comunque allegro è perché non sa l'inglese? ché a leggere la traduzione c'è da piangere, quasi come il capitano Kirk sulla sorte dell'alieno con il muschio addosso, o perché, comunque, la canzone gli consente quella libertà semantica?
Insomma, chiamo a testimone Dante, e la sua lettera a Cangrande:

[7]. Per chiarire quanto stiamo per dire, occorre sapere che non è uno solo il senso di quest'opera: anzi, essa può essere definita polisensa, ossia dotata di più significati. Infatti, il primo significato è quello ricavato da una lettura alla lettera; un altro è prodotto da una lettura che va al significato profondo. Il primo si definisce significato letterale, il secondo, di tipo allegorico, morale oppure anagogico. E tale modo di procedere, perché risulti più chiaro, può essere analizzato da questi versi: "Durante l'esodo di Israele dall'Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo straniero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio". Se osserviamo solamente il significato letterale, questi versi appaiono riferiti alll'esodo del popolo di Israele dall'Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato allegorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione dell'anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso anagogico indica, infine, la liberazione dell'anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna. E benchè questi significati mistici siano chiamati con denominazioni diverse, in generale tutti possono essere chiamati allegorici, perché sono traslati dal senso letterale o narrativo. Infatti allegoria viene ricavata dal greco alleon che, in latino, si pronuncia alienum, vale a dire diverso.

Quindi Stendhal ragionava come un alieno, probabilmente era un alieno. Ma questo che c'entra con la connessione Ghetto-Astronave? Nulla; però anche gli ebrei in quanto separati e isolati nel Ghetto erano alieni, indi il Ghetto di Firenze era una astronave. C.v.d.

Commento a un commento ai PS (n.2)

Capitolo primo dei Promessi Sposi (PS), ultima nota di ac (anonimo commentatore).

[…] Giunto sulla soglia (49) si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: “per amor del cielo!” e disparve. […]

(49) Fa sorridere, ma fa anche un po’ compassione. Accade a tutti qualche volta nella vita di sentirci un po’ don Abbondio, il quale perciò in generale non ci parrà repugnante, anzi non di rado finiremo per compatirlo pensando “Chi è senza peccato…”.

E con questo ecumenico commento ac dichiara implicitamente di non aver capito un'acca dei PS, cioè che tutta la storia (anche tacendo del titolo) ruota tutta lì, dalla pavida decisione del parroco di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, e perché poi? Per far vincere una scommessa al bavoso signorotto locale, di fatto una me*** (non il signorotto, il parroco). E, di fatto, ac dà di me*** a ogni lettore dei PS commentati da lui. Vorrei chiarire il pensiero dichiarando esplicitamente che don Abbondio non è Paperino. E a supporto reco a testimonianza la seguente citazione:

Paperino è prima di tutto un lazzarone, per cui il lavoro è la più triste condanna. Paperino è di una presunzione addirittura grottesca, a sentir lui nessuno lo supera in bravura, intelligenza, coraggio, vigore fisico. Paperino è sempre pronto all’inganno e al raggiro, pur di sistemarsi in qualche modo. Paperino, così baldanzoso in ogni vigilia, al momento buono è la pavidità, la fifa personificata. I suoi vizi insomma sono tra i più miserabili e meschini. Come si spiega che ottiene la nostra indulgenza? Il motivo, secondo me, è molto semplice. Anche se ciascuno di noi è più laborioso di Paperino, più onesto, leale, coraggioso, ciononostante vede instintivamente in lui un fratello minore, un fratello, se si vuole, più disgraziato. (*).

Ora, tutto si può dire di un parroco ma non che sia il fratello disgraziato della parrocchia, il poverello a cui è dedicata la cassetta delle elemosine della settimana. Don Abbondio rappresenta un'autorità forse superiore a quella esercitata da un signorotto locale, eppure si piega a un dio minore, io lo trovo ripugnante. (Tra parentesi non dimentichiamo che il vero Paperino, quello di Carl Barks, è in grado di fare mille lavori in modo geniale, ed è così altruista da mantenere 3 (tre) nipotini incendiari).


(*) Dino Buzzati, Prefazione a "Vita e dollari di Paperon de' Paperoni" (Oscar Mondadori, 1968)

Commento a un commento ai Promessi Sposi (n.1)

Con questo post inizio una serie di post dedicati al commento di una serie di note poste a commento a una vecchia edizione dei Promessi Sposi (PS). Il libro, comprato nel lontano 1997 è una ristampa di una vecchia edizione, commentata quasi virgola per virgola da un petulante e anonimo commentatore, probabilmente vivente e operante nella prima metà del secolo scorso.
Come dire, un modo come un altro per (a) esercitare la vista: i caratteri che compongono le note di commento sono assai minuti; (b) rileggere i PS; (c) capire perché professori di scuola superiore invitano alla compera di PS che costano una sassata perché contengono almeno 10.000 note.

Piccola legenda alla lettura dei post:
[…] testo dei PS […]
(x) commento dell’anonimo commentatore

Da dove si comincia? Ovvio, dalla seconda nota.

[...] il resto, campi e vigne, sparse di terre, (2) di ville, di casali; [...]
(2) cioè di paesi: forse più chiaro sarebbe sparsi, perché si riferisce anche a campi.

Ora, Manzoni scrive in italiano, anzi in toscano, forse in fiorentino, infatti, Renzo che vive da qualche parte nei pressi del lago di Como ciarla liberamente con mezzo mondo, e con genti di città e con genti di campagna e tutte le terre porgono orecchio e, soprattutto, lo capiscono, anche gli asini e i maiali lo capiscono (e viceversa), e se farfuglia fra i denti una frase con i puntini di sospensione l'oste della malora fa subito sì con la testa, e non solo ma Renzo chiama tutti buoni figliuoli; un po’ come succede in Star Trek (dove anche l'alieno di forma e sostanza di un sasso con il muschio sopra è un bravo figliuolo, infatti, comunica con Spock e prima o poi farà piangere il Capitano per qualcosa o per qualcuno o per qualcosa che ha perso qualcuno da qualche parte, benedetti 'sti alieni distratti), però Manzoni era nato a Milano, mentre dell’anonimo commentatore (strutturalmente parlando scriverò ac d’ora in poi) che incombe, narcisticamente parlando, sul povero Manzoni come un pipistrello spelacchiato priapescamente ossessionato dalla grammatica, non conosciamo né la data né il luogo di nascita. Noi avanziamo una peregrina teoria, che dietro ac ci sia il nostro buon figliuolo Renzo. Sempre così refrattario a declinare indirizzo e mostrare carta d'identità e codice fiscale ai birri e ai preti, solo con don Abbondio fa un'eccezione, non richiesta e non gradita dal povero parroco di campagna, che avrebbe fatto volentieri a meno di conoscerlo; ma questa è un'altra storia.
Eccolo Renzo, una volta accompagnato all'uscio di scuola da uno stuolo di professori in lacrime, con il suo bravo diploma di scuola superiore sotto braccio, eccolo libero nel vasto mondo, libero di far - o come direbbe nei panni di ac - fare le bucce al Manzoni.

Il nostro comune amico Charly

Qualche sera fa, mentre portavo a spasso il cane, ho fatto notare a un tizio che stava parcheggiando un’auto rossa sulle strisce pedonali che quello non era il posto giusto per lasciare l’auto in sosta, e il tizio, emulo di Guicciardini, dice, Per lei è un problema?

L'insegnamento notturno di filosofia del particulare e il successivo mio ripensare a una riflessione scritta in un post, e che avrebbe voluto essere buffa, insomma una facezia, cioè una battuta, ma che dico una battuta, una battutina-ina-ina, ma proprio a livello di scuola non dirò elementere, ché certi bambini d’oggi sono alti (quasi) come Brunetta e svegli e ganzi come il Magico Silvio, ma proprio a livello di scuola rudimentale, ammesso e non concesso che esista una simile scuola in Italia, mi hanno fatto scoprire, insomma, una connessione. E qui riporto la riflessione (per i lettori giustamente pigri):

Zichichi ha scritto che l'evoluzione biologica non è scienza galileiana, ché ad essa mancano i due pilastri che hanno permesso la grande svolta del millesei: riproducibilità e rigore.
E' vero, Darwin guida ancora una vecchia 500 (l'ho visto ieri che svoltolava in Via Circondaria).


La parte faceta della riflessione è, ovviamente, contenuta nella seconda frase, che ho messo a commento alla parte seria della riflessione, e questa da attribuire al fisico Antonino Zichichi.
OK, e fin qui ci siamo, ma come si chiamava di nome Darwin? Non c’è bisogno di chiederlo a Google perché tutti sanno, e quindi anch’io, che Darwin di nome faceva Charles. E con ciò sono già quasi alla meta e oltre la metà di questo post: urge mostrare la prima immagine esplicativa (presa come le altre due dal film Duel di Steven Spielberg):



Chi ha visto il film, e se lo ricorda bene, sa che del misterioso camionista (che prima non da strada e poi insegue su e giù per le colline di mezza America un conducente, coi baffi e gli occhiali da miope, di un’automobile rossa fiammante) si vedono solo un paio di stivali di pelle e una mano.

Ecco l’immagine dove si vede la mano sinistra del camionista invitare l’automobilista coi baffi e occhiali da miope a superare senza indugio e timore ché la strada è tutta libera.


Ed ecco l’ultima immagine con l'azzardato sorpasso (e con ciò mi avvio velocemente alla conclusione del post). Notare il sottotitolo in inglese con il commento dell’automobilista al modo di guidare ondivago e flemmatico del camionista.


Il mistero, come direbbe Ellery Queen, è risolto. Per il lettore che ha ancora qualche dubbio sull’identità del camionista, si può procedere con il metodo deduttivo.

Chi è Charlie? Charlie Brown? No, troppo piccolo per avere già la patente per guidare il camion.
Charlie Chaplin? No, troppo vecchio per guidare il camion. Charly lo scimpanzee dello Zoo di Berlino? Suvvia, certo è possibile, ma mi pare assai poco probabile. Insomma, escludendo mentalmente, con similari argomentazioni, mille altri Charlie non resta che concludere che il camionista è Lui, il Magico S... no :) Ovvio che è Charles Darwin, che vispo come un bradipo addormentato sopra un pero fece passare più di vent’anni in studi e in prove prima di pubblicare l’Origine delle Specie. Ma perché Charles Darwin ce l’ha con l’automobilista coi baffi e gli occhiali da miope?
Come una ciliegia tira l’altra così nella Scienza delle Deduzioni e delle Connessioni una felice risposta a una domanda genera sempre una nuova e infelice domanda, finora senza risposta.

venerdì 16 ottobre 2009

Significato simbolico ed emotivo dei colori

La maggior parte dei colori (o almeno quelli con un nome) rivestono per noi un contenuto altamente simbolico ed emotivo. Questo contenuto però non è assoluto e immutabile, ma può cambiare nel tempo ed è sempre relativo alle varie culture umane. Così, per esempio, il nero è associato all’ombra, alle tenebre e alla morte nelle culture occidentali. Tuttavia per Omero l’oceano (fonte di vita) è di colore nero; gli antichi greci sacrificavano tori neri a Nettuno. Il nero perciò è anche simbolo di fertilità e di vita: la terra fertile è nera. Il colore nero in numerose culture è un simbolo del male (la mano nera, la morte nera, la peste nera, Macchia Nera) o di uno stato emotivo malinconico (l’umor nero, e il sole nero degli alchimisti raffigurato anche in alcune pitture di Giorgio De Chirico). Colore bandito dalle tavolozze degli impressionisti era invece molto amato da Vincent Van Gogh. Per Leonardo da Vinci la luce ideale per dipingere un ritratto è la luce sul far della sera o quando di giorno l’aria s’abbuia appena, perché si avvicina un temporale:

Se avrai una corte da poter coprire a tua posta con tenda lina, questo lume sarà buono; ovvero quando vuoi ritrarre uno, ritrailo a cattivo tempo, sul far della sera, facendo stare il ritratto con la schiena accosto a uno de' muri di essa corte. Pon mente per le strade sul fare della sera ai visi di uomini e di donne, quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede in essi. Adunque tu, pittore, avrai una corte accomodata co' muri tinti di nero con alquanto sporto di tetto sopra esso muro, e sia larga braccia dieci e lunga venti, ed alta dieci; e quando non la copri con tenda, sia sul far della sera per ritrarre un'opera, e quando è o nuvolo, o nebbia; e questa è perfetta aria (1).

Il giallo è il più caldo ed espansivo dei colori, è il colore del grano maturo e del sole fecondo, ma anche della terra arida, spaccata dalla vampa del sole; è il colore della terra degradata in sabbia. Il giallo come colore minerale (le ocre e le terre) è un colore caldo che sfuma nel rosso, come colore vegetale è il colore del limone e sfuma nel verde. Una altra dicotomia nel significato simbolico del giallo è data nelle due nozioni di brillantezza e opacità. È il caso dell’Islam, dove il giallo brillante significa saggezza, mentre il giallo opaco tradimento e inganno. Nell’araldica viene valorizzato il colore giallo oro rispetto al giallo opaco. Come sempre il simbolo è una moneta a due facce:

se gli antisemiti del Medioevo e del Terzo Reich volevano, con l’abito e la stella gialla, stigmatizzare “l’infamia” del popolo ebraico, quest’ultimo poteva invece a sua volta individuare nell’abito e nella stella la luce di Jahvè (2).

Il bianco è simbolo della purezza, del candore, ma anche del gelo (neve e ghiaccio). Il bianco puro, come il giallo, si distingue in base alle nozioni di brillantezza e opacità. Il termine bianco deriva dalla parola latina candidus, e quindi è il colore del candidato, di colui che inizia (ad essere iniziato). Per molti popoli è il colore dell’Est e dell’Ovest, cioè delle zone della Terra un tempo misteriose, là dove ogni giorno sorge e tramonta il Sole. Il bianco è il colore del sudario dei fantasmi, delle notti bianche (negazione della notte e della luce delle stelle), degli Occhi bianchi sul pianeta Terra, è il colore, per molti popoli, del lutto e della morte. Il bianco prende forza e si esalta se viene accostato al colore nero. Leonardo da Vinci così scrive nel Trattato della Pittura:

Nessun termine di colore uniforme si dimostrerà essere eguale se non termina in campo di colore simile ad esso. Questo si vede manifesto quando il nero termina col bianco e il bianco col nero, che ciascun colore pare piú nobile ne' confini del suo contrario che non parrà nel suo mezzo (3).

Questa osservazione di Leonardo, insieme alla seguente:

La cosa bianca si dimostrerà piú bianca se sarà in campo piú oscuro, e si dimostrerà piú oscura se sarà in campo piú bianco; e questo ci ha insegnato il fioccar della neve, la quale, quando noi la vediamo nel campo dell'aria, ci pare oscura, e quando noi la vediamo in campo d'alcuna finestra aperta, per la quale si veda l'oscurità dell'ombra di essa casa, allora essa neve si mostrerà bianchissima […] (4)

anticipa di qualche secolo la scoperta delle righe di Mach. Le righe di Mach sono formate da due sottili bande, una luminosa e una scura, e si osservano lungo i margini di una zona di penombra e sembrano renderne più definiti i bordi. La simulazione di questo fenomeno è stata notata in opere pittoriche appartenenti a varie epoche.

Il verde è il colore del regno vegetale, della natura; è un colore rassicurante e rinfrescante (il tè verde). È il colore dell’infanzia e della giovinezza (gli anni verdi). Il verde è anche il colore dell’invidia (l’erba del vicino è sempre più verde, verde d’invidia, ecc.). Il verde è il colore della nostalgia: «We'd ride out of that valley down to where the fields were green» (5). Il verde se accostato al rosso genera un forte contrasto. Vincent Van Gogh scriverà, in una lettera al fratello Theo, a proposito del quadro Caffè notturno ad Arles: «Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane».

L’azzurro è il colore delle profondità: il mare azzurro, il cielo azzurro. È un colore impalpabile; lo sguardo si perde nel cielo azzurro e desidera ancorarsi ad una nuvola. Talvolta un cielo troppo azzurro suscita pensieri malinconici. Un muro dipinto di azzurro, con qualche nuvoletta sparsa qua e là, può trasformarsi in un orizzonte carico di speranze e promesse (elettorali), ma come scopre il protagonista di The Truman Show l’orizzonte azzurro talvolta è soltanto un fondale di scena.

Il rosso è il colore del fuoco, della violenza e dell’aggressività. Simbolo e segno di passioni umane, e anche segno di pudore e timidezza. È un colore che si tinge di malinconia, colorando di sé i tramonti d’estate e le foglie sui rami in autunno.

Ma tutti i colori del mondo sono solo un aspetto particolare del colore della luce. Alle soglie del Novecento il padre dell’arte moderna Paul Cézanne spiegava con le seguenti parole la sua visione della pittura:

Il mio motivo, vedete, è così (Cézanne apre le mani con le dita divaricate, le riaccosta con tutta lentezza, le unisce, le serra, le intreccia convulsamente). Ecco quel che si deve raggiungere. Se passo troppo in alto o troppo in basso tutto è perduto. Non ci deve essere una sola maglia troppo allentata, un solo foro attraverso il quale la verità possa sfuggire […] Tutto quel che vediamo, non è vero? si disperde, dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata. Deve farcela gustare eterna. Che cosa c’è dietro il fenomeno naturale? Niente forse; forse tutto. […] La mia tela stringe le mani, non vacilla, è vera, è densa, è piena (6).

In reazione all’impressionismo, considerato troppo effimero e superficiale, Cézanne, e la generazione successiva agli impressionisti, desiderano andare oltre il fenomeno naturale, per sua natura mutevole come le nuvole, e approdare alla verità ultima delle cose.
Paul Gauguin gli risponderà con la famosa frase: «Ho chiuso gli occhi per vedere».
E Vincent Van Gogh scriverà al fratello: «Sai bene che una delle radici o verità fondamentali non solo del Vangelo ma di tutta la Bibbia è: La luce che brilla nelle tenebre. Attraverso le tenebre, verso la luce». (Lettera a Théo, n. 126).
E sarà la luce della lanterna protesa in avanti ad illuminare e proteggere la vita dei minatori nel cuore nero della miniera, e la luce della lampada sulla povera cena dei Mangiatori di patate. Sarà la luce stridente sui disperati del Caffè notturno ad Arles. La vampa del sole sui campi di grano giallo. La luce imprigionata per sempre nei Girasoli e nelle stelle rotanti nei gorghi delle notti blu di Saint-Rémy. (*)

(*) Claudio Piccini, Opus incerta 2007

(1) Leonardo da Vinci, op. cit, I, 2, 135.
(2) Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Vol. I (A-K). Rizzoli, 1987, p. 501.
(3) Leonardo da Vinci, op. cit, I, 2, 200.
(4) Leonardo da Vinci, op. cit, I, 2, 227.
(5) Bruce Springsteen, The River.
(6) Leonardo Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza, 1973, p. 295.

domenica 11 ottobre 2009

Paese d'Ottobre n.7

La matematica è una liberazione; una liberazione sapere che il 90% di essa è utile solo ai matematici e che al restante 11% ci pensano i computer.

La matematica è una liberazione; una liberazione sapere che il 90% di essa è utile solo ai matematici e che al restante 10,99% ci pensano i computer.

Zichichi ha scritto che l'evoluzione biologica non è scienza galileiana, ché ad essa mancano i due pilastri che hanno permesso la grande svolta del millesei: riproducibilità e rigore.
E' vero, Darwin guida ancora una vecchia 500 (l'ho visto ieri che svoltolava in via Circondaria).

La storia umana, che è parte non terminale della storia naturale, anch'essa non è scienza galileiana: il fenomeno del lager non si ripete (almeno non con le stesse modalità e fruizioni, forse).

Perché il dubbio, perché questa relativa mancanza di fede in un assoluto?
Almeno scrivilo con la maiuscola... Ok! scrivilo pure in corsivo:
Perché il dubbio, perché questa assoluta mancanza di fede in un Relativo?

Un blog dedicato a un incredibile professore (e attore) di Fisica.

La soffitta (3)

Quella domenica di Pasqua dell’anno 2036 doveva essere, per gli oggetti addormentati in soffitta, un giorno come un altro. In fondo che fosse Pasqua, Natale, ferragosto o il 24 Giugno agli oggetti in soffitta non interessava; essi dormivano, un sonno forse inquieto, sicuramente duro come il marmo. Anche l’armadio non era da meno, nonostante il suo ruolo di bel tenebroso recitato sul palcoscenico polveroso della soffitta, era o meglio non era che un oggetto, una altra cosa dimenticata, che si ricopriva pian piano di polvere, solo soletto. Ma alle ore nove del mattino le ante della cristalliera si erano spalancate, come per una folata di vento proveniente dall’interno dell’armadio, e alcune foglioline gialle, accartocciate come patatine fritte, si erano allontanate dall’armadio, crepitando e saltellando tutte stizzite sulle mattonelle grigie. Ora l’interno dell’armadio era ben visibile (no, nessun ripiano), ed era colmo di una materia fluida di colore perlaceo. Un fluido verticale che ruotava silenzioso su se stesso, descrivendo una spirale, formando un gorgo antiorario. Una visione da film horror di serie B, ma sufficiente a far sollevare due martelletti della macchina per scrivere e a intrecciarli insieme in un abbraccio di paura; a provocare numerosi giri di manovella alla vecchia macchina per cucire; a far tremare in un lungo brivido gelido tutti gli ossicini del gatto scheletrito, dalla punta del naso fino all’ultima vertebra caudale che si staccò; ad inarcare ancora di qualche grado la schiena al centauro chiomato. E forse la veduta equina aveva approfittato della diffusa e oggettiva inquietudine serpeggiante tra gli oggetti per espellere un crine di cavallo spurio con un calcio nella parte prossimale (non è un crine di cavallo, era stato il verdetto di alcuni marroni secchi d’ippocastano, domiciliati dentro una ciotola posta sopra il tavolino a tre zampe, e che non si facevano mai i cazzi loro).
E tutto questo demoniaco pandemonio solo per essere stati involontari testimoni muti di un evento metafisico; veramente, gli oggetti che dormono nelle soffitte sono troppo materialisti, sarà la polvere? Certo, se un osservatore umano fosse stato presente in soffitta avrebbe obiettivamente preso nota, sul suo taccuino moleskine, dell’evento metafisico e della reazione degli oggetti; ma nessun osservatore umano era presente in soffitta quel mattino di Pasqua (il ragazzo era già sul tetto e la vecchia signora in soffitta non ci saliva più da anni), così si può solo immaginare la straordinaria meraviglia suscitata negli oggetti nel vedere uscire con un balzo dal fluido perlaceo due esseri dall’aspetto umano, un maschio e una femmina, nel vederli inciampare in alcune sfortunate cornici in orone scrostato, là addormentate - a loro eterno disdoro – proprio in prima linea davanti all’armadio, e terminare l’esibizione con una capriola sul pavimento (l'esemplare femmina), e un doppio salto mortale concluso con un avvitamento antiorario sulla testa (l'esemplare maschio).
Passato l’evento solo il silenzio era regnato tra gli oggetti contorti e pietrificati in un crampo di doloroso stupore. Essi tentavano di ristabilire un ordine naturale, di capire la causa che aveva scatenato l’evento, ma già il fluido verticale era svanito in una impalpabile nebbiolina di marzo. Ristagnava nell’aria viziata della soffitta un lieve odore di sciroppo di orzata. Lo straordinario evento non era durato più di un minuto d’orologio. Ora la soffitta era abitata da due creature aliene sedute sul pavimento, che si guardavano attorno come bambini in un bosco.
Se immaginare è lecito, descrivere non è questione di cortesia, infatti qui lo storico si ferma, mette punto e va a capo, perché manca, sulla scena del crimine, il testimone oculare. Colui che si alza in piedi ed esclama: io so in quanto ho veduto; io, soldato spartano, ho veduto il tumulo eretto nella pianura di Maratona, dove 192 ateniesi persero la vita ma fermarono l’avanzata dell’orgogliosa barbarie; io ho visto lo stolto leccare il barattolo del miele dall’esterno, camminare a testa in giù, dormire con un cane; io ero a Qadesh alla finale di coppa dell’anno 1293 a.C. combattuta tra gli Ittiti di Muwatalli e gli Egizi di Ramesses e ho visto chi ha vinto, anche se poi Faraone d'Egitto si era incensato campione del mondo in ogni villaggio di fango e in ogni città di mattoni cotti al Sole, dal Basso all’Alto Nilo.
Ma 'sta volta nessuno si era alzato. E gli oggetti in soffitta? Gli oggetti, come gli animali, non hanno personalità giuridica e dunque non possono testimoniare.
Se solo si potesse tornare indietro nel tempo, quanto basta per chiamare con un cenno della mano il testimone di Geova passante giù in strada, il tempo sufficiente perché ascenda in soffitta, e poi mentre salmeggia e saliva vedere, attraverso i suoi tondi occhi glauchi, della nave in porto il rispiegare le vele e riprendere il vento e ritornare al largo, nel vasto mare aperto.
O se si potesse essere della Penelope notturna il fedele Argo, sdraiato ai piedi in attesa di Nessuno, e vederla sciogliere i nodi nella trama che la Penelope diurna intrecciava sulla tela, tessendo e ritessendo senza fine la trama del futuro per i gonzi Proci in attesa, seduti fuori l’uscio di casa.
Vane fantasie, né i grandi eventi sedimentati nelle pagine dei libri di storia, né i piccoli eventi dissolti in polvere lungo le strade, sui posti di lavoro, nei letti di ospedale, negli interstizi nel muro del pianto della Storia potranno essere ripetuti, tornare in vita; la storia non è scienza galileiana. (#)
Va be', ma a Qadesh hanno vinto gli Ittiti. (*)

(#) "Diciamo subito che la Teoria dell'Evoluzione Biologica della specie umana non è Scienza galileiana. Essa pretende di andare molto al di là dei fatti accertati [...] Una teoria con anelli mancanti, sviluppi miracolosi, inspiegabili estinzioni, improvvise scomparse non è Scienza galileiana. Essa può, al massimo, essere un tentativo interessante per stabilire una correlazione temporale diretta tra osservazioni di fatti ovviamente non riproducibili, obiettivamente frammentari e necessariamente bisognosi di ulteriori repliche [...] Se l'uomo dei nostri tempi avesse una cultura veramente moderna, dovrebbe sapere che la teoria evoluzionistica non fa parte della Scienza galileiana. A essa mancano i due pilastri che hanno permesso la grande svolta del milleseicento: la riproducibilità e il rigore. Insomma, mettere in discussione l'esistenza di Dio, sulla base di quanto gli evoluzionisti hanno fino a oggi scoperto, non ha nulla a che fare con la Scienza. Con l'oscurantismo moderno, si".
(Antonino Zichichi, Perchè io credo in Colui che ha fatto il mondo Tra fede e scienza, Il Saggiatore, Milano 1999, pp 82-85).

Citazione copiata da un sito.

(*) Claudio Piccini, Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza, luglio 2008, con minime variazioni ora. Nota bene che la nota # è solo una puntualizzazione ad uso post).

La soffitta (2)

...In un angolo oscuro della soffitta c’era un gatto. Non chiedetemi se aveva il pelo lungo o il pelo corto, di che colore aveva il mantello, se era maschio o femmina, se era di razza mediterranea, nordica, persiana, abissina o soriana, o quanti anni avesse visto allora e con quale timbro di voce miagolava. Oscuro il carattere, forse era stato un tranquillo e timido micino o forse come la lince, che in luoghi gelidi e montani agguata cervi e caprioli e li abbranca e sbrana, uccidendo più di quel che non divora, graffiava grandi e piccini, donne di servizio e militari a metà prezzo.
Il gatto era immobile, ritto sulle quattro zampe, la testa protesa in avanti, la coda abbassata: un fermo immagine di un agguato a un topolino dalla memoria di ferro. Era lo scheletro completo di un gatto, dal più fragile ossicino del cranio all’ultima vertebra caudale, ricostruito, con la pazienza di un gatto certosino, in perfetta connessione anatomica. Opera incerta di minuti e levigati ossicini, tenuti assieme con colla Uhu e fili di ferro. Era (era stato) il gatto della figlia adolescente della vecchia signora. Morto, dalla figlia era stato disciolto in acido, e lo scheletro, pulito dalla carne e dal pelo superfluo, era stato rimontato osso su osso, come una bianca casetta in mattoncini lego. La figlia, già insegnante di anatomia artistica in un liceo cittadino, ne parlava talvolta agli studenti, promettendo loro una fotografia, e qualcuno, scarso in materia, lo aveva creduto vero, in carne e pelo.
Amalasunta, se le capitava di pensare al gatto lassù in soffitta, e ci pensava quando il ragazzo saliva la scala a chiocciola per andare sul tetto, chiedeva al ragazzo, con la voce che le tremava un po’, come stava il gattino. Povero gatto, trasformato in oggetto e dimenticato tra gli oggetti che non hanno cittadinanza nel presente, irraggiungibile al di là del bianco soffitto, sopra la bianca fragile testa di passerotto curioso di Amalasunta. E quando ci pensava allora immaginava se stessa, sfuggita per un magico incantamento agli incartamenti dell’anagrafe comunale, alla misericordia dei vicini e dei parenti e agli accertamenti del medico fiscale, coprirsi pian piano di polline e polvere, lassù in soffitta. Tra scatole di cartone e pentole di acciaio inossidabile, le ossa corrose dall’osteoporosi, i neri grani del rosario mescolati alle bianche falangi delle dita, erano in attesa. Muti e immobili, come levigati sassi addormentati in un verde prato di montagna, Amalasunta e il gatto, testimoni involontari di una glaciazione millenaria, erano in attesa, con le gocce di pioggia che cadevano dall’alto di nuvole nere, tamburellando allegramente sulle tegole del tetto e contro il vetro allumacato dell’abbaino, con il saluto incerto e pian piano più esuberante dell’alata genia all’ultimo tuono che rotolava via, lontano; erano in attesa che la luce rosata del tramonto sciogliesse la colla, spezzasse i fili di ferro, ché il gatto si sarebbe strusciato con la testolina pelosa contro le gambe di Amalasunta, fremendo di vita, fissandola con occhi di ambra.
Queste erano le fantasie della vecchia signora, simili alle ultime volontà di Shakespeare, incise sulla lapide:

Benedetto sia colui che risparmia queste pietre e maledetto chi muoverà le mie ossa.

Strano come le ultime volontà del Bardo immortale fossero identiche alle fantasie di una vecchia e sconosciuta signora di Firenze. Ma la conservazione delle ossa o delle ceneri in eterno e il mantenimento del capitale investito in mattoni, non preoccupava il ragazzo, vista l’età e lo scarso interesse nel farsi una posizione elevata (a parte salire sul tetto). Eppure la visione dello scheletro impolverato, del gatto e non della vecchia signora, ché quella era una fantasia inarticolata e nota al narratore di questa storia solo per virtù onnisciente, lo scheletro impecettato dicevo lo portava a riflettere sul paradosso del gatto imburrato... (*)

(*) Claudio Piccini, Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza, luglio 2008)

mercoledì 7 ottobre 2009

Ultima Wunderkammer

Una camera delle meraviglie può avere l’aspetto, la forma, le dimensioni spaziali e la consistenza di una scatola (che poi la scatola sia di cartone o di legno questo è un particolare puramente contingente). Si è visto, in un post precedente, che un particolare sottoinsieme dell'insieme W’ (noto come W’’) è l’insieme degli elementi w” che pur non avendo l’aspetto e la forma di un vano abitativo sono comunque recipienti, contenitori, scatole o piani di appoggio di manufatti, oggetti strani e curiosi e reperti naturali. Un esempio di elemento w” è mostrato in questa immagine (catturata dal film Il buio oltre la siepe).
L’immagine mostra la scatola e il suo contenuto, è insomma una immagine sincronica di una wunderkammer.



Il film è stato tratto da un famoso libro di Harper Lee (Il buio oltre la siepe, editore Feltrinelli).
La scatola è il contenitore di una collezione di oggetti trovati dentro la cavità del tronco di una vecchia quercia nel corso di un intero anno scolastico. Gli oggetti sono il dono di Boo a due bambini che vivono in un piccolo paese nell’Alabama.
Ecco l’elenco ordinato degli oggetti, l’elenco è ovviamente una immagine diacronica di una wunderkammer:

- 2 chewing-gum scartocciati al gusto di menta;
- una scatoletta ricoperta dalla stagnola che avvolge la gomma da masticare con dentro due monetine da un penny, perfettamente lucidate e messe una sopra l’altra (teste di indiani del millenovecentosei);
- un gomitolo di spago grigio;
- 2 figurine scolpite nel sapone, raffiguranti un bambino e una bambina;
- un pacchetto intero di gomme da masticare;
- una medaglia annerita, premio scolastico per l’ortografia;
- un orologio da tasca che non funzionava legato insieme con un temperino di alluminio a una catena.

I due bambini pensano bene di scrivere una lettera di ringraziamento e la infilano nella cavita del tronco della vecchia quercia, ma il giorno dopo, tornando da scuola, i bambini vedono che il buco nell’albero è stato riempito con del cemento. Chi è Boo, forse un folletto del folklore americano - straniero misterioso del villaggio; o forse Joseph Beuys in gita turistica in Alabama (con lo zaino pieno di feltro e grasso e legno e cera e acciaio e piombo e rame e juta, un ferro da stiro e una piastra per capelli); o forse una persona che avrebbe avuto bisogno, da bambino, di tre o quattro insegnanti di sostegno per crescere diritto, integrato e fuori casa, al sole dell'Alabama; o chissà…


“…da qualche parte, nei boschi, esiste un particolare animale, un particolare cervo, o una certa locusta, una certa donnola, una qualche creatura selvatica, insomma, che ha il vantaggio di possedere una dose particolarmente forte di potenza vitale, ed è questo l’individuo con cui dovete far conoscenza e di cui dovete ottenere, coltivare e conservare l’amicizia. Andate nei boschi e trovatelo. Cercatelo nei luoghi solitari, vicino alle sorgenti. Chiamatelo. Tornateci. Affamatevi fin quasi a morire e tornate. Chiamatelo. Cantate la sua canzone. Provate prima una canzone, poi un’altra. Forse una volta era il protettore di qualcuno, di qualcuno che è morto, e ora lui ode quella canzone e dice: Questa è la mia canzone, questa è la canzone di mio fratello, è un pochino differente ma è quasi uguale, deve essere qualcuno che assomiglia proprio a mio fratello, credo che sia meglio andare a vedere. Allora verrà e ti darà un’occhiata. Non verrà molto vicino, perché è un po’ selvatico. Deve abituarsi a te. Ma un giorno, magari dopo che tu lo hai chiamato per un pezzo e ti senti solo e piangi e sei stanco morto e cadi addormentato – è perché lo senti arrivare che perdi i sensi, sei proprio come un morto – allora lui viene e ti sveglia. Col piede ti darà un colpetto sulla testa e dirà: He! Svegliati! Hai dormito abbastanza, tu, adesso vattene a casa. Questo è tutto quel che dirà, ma tu sai che lui è il tuo dinihowi, che lui è la tua potenza, che lui è la tua medicina.” (*)





(*) Jaime de Angulo, Racconti indiani (Oscar Mondadori, 1981)


    martedì 6 ottobre 2009

    Paese d’Ottobre n. 6

    Sul tavolo accanto al portatile ho una copia di un libro di Emilio Cecchi intitolato, semplicemente e con squisita modestia, Firenze (editore il vecchio Mondadori, quello di Topolino, l'anno il 1969). Il libro l'ho comprato su Maremagnum, ed è usato. Ci sono sottolineature e riflessioni del precedente possessore del libro, scritte a matita. Mi piacciono i libri usati e commentati, soprattutto se i commenti sono scritti con il lapis. Già nella seconda pagina c’è una annotazione:

    Mattino di fine Primavera: sole caldo e nubi procellose su sfondi di azzurro oltremare.
    16 giugno 1972


    Le annotazioni e le sottolineature sono come una guida alla raccolta dei saggi su Firenze di Emilio Cecchi. Talvolta alla fine di un paragrafo c’è un breve tratto a matita, come un segno a significare una sosta, una pausa di riflessione. Il lettore pare intimamente solidale col Cecchi, che così scrive a proposito del Diario postmoderno del Pontormo:

    Nel diario sono segnate piccole novità ed incidenti: l’uomo che viene nell’orto a legare la vigna; o il garzone e figlioccio che, una volta che il Pontormo è malato, resta fuori tutta la notte lasciandolo solo come un cane, “talché io l’arò a tenere a mente sempre”. Il Berlingaccio del ’55, mangiano col Bronzino la lepre, eppoi vanno a vedere “le bagatelle”; che saranno state qualche meschino trattenimento di maschere e suonatori. (*)

    Il lettore segue l'Emilio passo passo in quella primavera dell'anno 1972; per esempio le “infermità pestifere” paventate dal rancoroso e strambo pittore dal carattere di vecchia suocera bizzosa sono così commentate dal lettore-nuora: forse una specie di forma influenzale.

    Quello che non capisco nel lettore è l'animo da correttore di bozze che qua e là fa capolino; per esempio dove nel libro c’è scritto “sia pura ispirata al pessimismo più nero”, il lettore corregge in pure. Mi chiedo qual è lo scopo di correggere una copia di un libro stampato? Lettore, se sei capace di beccare un errore oggi, lo sarai anche domani, e se domani non ne sarai più in grado, dimmi a che ti servirà la correzione scritta a matita?

    Questa sarebbe la riflessione autunnale del post.

    Poi, volendo, il consiglio è di lasciar perdere Cecchi e leggere Saramago, del suo correttore di bozze e del suo coraggio di cambiare la Storia.
    E, infine, il consiglio gratis, ma non gratuito, di fuggire da una stanza dove tutti sono d'accordo.

    (*) E. Cecchi, Firenze (Mondadori, 1969)

    lunedì 5 ottobre 2009

    Wunderkammer n. 7 (finale andante mosso)

    Nel post "Wunderkammer n. 6" ho mostrato un esempio di wunderkammer veramente terribile, spaventosa, orripilante. Ho mostrato una... nursery. E la connessione che ho proposto nel post era con una visione dell’arte come palcoscenico, dove un occulto regista controlla tutto e tutti. Dove anche la leggerezza non è mai spontaneità, perché è priva di casualità.
    Poi ho mostrato una wunderkammer molto speciale che ha per soffitto il cielo e per pareti alberi (naturalia) e siepi (artificialia) di un giardino pubblico (i canis solo se condotti al guinzaglio), e un contenitore-schermo-palcoscenico (curiosa): la parte esplosiva di un teatrino di burattini (mirabilia).
    E nella parte seconda del post ho visto la bella burattinaia guardare, attraverso una griglia posta sulla parete frontale e in basso del teatrino, le facce dei bambini: dalle espressioni dei loro volti lei saprà come procedere nel raccontare la storia.
    E nella parte terza del post ho connesso il fenomeno psichico della pareidolia alla casualità (e spontaneità) nella creazione di immagini, già esistenti nell'esperienza dell’artista.
    Guido Carboni nel suo “Invito alla lettura di Mark Twain” (Mursia, 1992) a proposito del romanzo Le avventure di Huckleberry Finn e in particolare dell’episodio del circo con l’ubriaco che in realtà è un acrobata che gioca un tiro al domatore-direttore del circo (in realtà siamo autorizzati a pensare che acrobata e domatore siano d’accordo e che lo “scherzo” sia ripetuto a ogni replica dello spettacolo) scrive:

    Huck rimane incantato ed ingannato dallo spettacolo. Ma se Huck è ingannato dentro al circo, dove è legittimo aspettarsi che la realtà venga trasformata dalla finzione dello spettacolo, come possiamo fidarci che la sua rappresentazione/interpretazione dell’episodio del linciaggio sia corretta? Forse anche Sherburn, che appare come una sorta di superuomo non è altro che un domatore ingannato, preda dell’autoinganno, un “attore” incosciente come la famiglia Grangerford”.

    Huck, il mio cane boxer ingannato dall’autunno, i bambini ingannati dalla bella burattinaia, non hanno ancora lo sguardo dei grandi. Una nuvola è una nuvola, un nome è un suono. Frammenti di manifesti e suoni come un'opus incerta, in opposizione a titoli ruoli e divise.
    La finzione dell’artista che scopre il manoscritto dello zio scempio su in soffitta frugando e ravanando tra ragnatele e scatole di cose passate e cose future va bene per Eco ma era una barzelletta vecchia al tempo dei sumeri. La più interna camera della meraviglie è in assoluto una camera delle meraviglie dubitative (da dove si può sempre fuggire, dalla finestra).
    Conduttori di locomotive e trattori, domatori di leoni e direttori di circoli didattici, direttori di orchestra che vorrebbero costringere al silenzio orchestrali queruli, sono tutti fuori da tutte le wunderkammern di questo mondo. E quindi, per rispondere al lettore astioso, no, non tutto il mondo è una wunderkammer. Purtroppo.

    domenica 4 ottobre 2009

    All The Roadrunning (Wunderkammer n. 7, parte terza)

    Giunto alla terza parte del post dedicato al settimo esempio di wunderkammer vedo bene che è necessario - prima di proseguire il cammino e giungere alla meta - fare una sosta, come se fossi un turista a zonzo per contrade sconosciute, anche se amene. Ok… a parte togliersi le scarpe e massaggiarsi i piedi, e guardare le nuvole bianche che si dipanano lente nel cielo azzurro, il viandante in sosta usa misurare la strada percorsa, dare una occhiata alla bussola e alla carta geografica del territorio, anche solo per non dare l’impressione alla gente del posto di essere una formica scempia e vagabonda, che vaga qua e là cercando la via per fuggire il più lontano possibile dal formicaio.
    Quindi ho fatto un disegnino, che non linko qui perché ho lo scanner nell’armadio (non che sia rotto solo che sul tavolo mi manca lo spazio). Comunque, immaginate tutte le wunderkammern del mondo (W) come fossero racchiuse dentro un cerchio, all’interno di questo cerchio disegnate un altro cerchio ma prendendo come centro un punto qualsiasi tranne che il punto centrale del cerchio più grande. Chiamate W’ questo cerchio (sono le "camere delle necessita appagate", per esempio la camera n. 29 di una locanda di Reykjavik). Fatto? Ora disegnate un cerchio più piccolo interamente contenuto in W’ prendendo come centro un punto qualsiasi di W’ tranne che il suo punto centrale. Chiameremo questo cerchio W’’, ovvero l’insieme delle "camere non ortodosse delle necessità appagate" (per esempio la tavola da pranzo del Capitano Nemo).
    Fatto? Ora disegnate un cerchio più piccolo interamente contenuto in W’’ prendendo come centro un punto qualsiasi di W’’ tranne che il suo punto centrale. Chiameremo questo cerchio W’’’, ovvero l’insieme delle "aule delle meraviglie dubitative" (per esempio una qualsiasi stanza dove accade un dialogo fra sordi).
    Fatto? Bene, vi sembra di disegnare un frattale? Ne siete certi? Vedo bene che è necessario autocitarmi (da Opus incerta, 2007):

    “Il termine frattale deriva dalla parola latina frangere, cioè suddividere un oggetto in frammenti irregolari. Il termine frattale è stato coniato dal matematico Benoit Mandelbrot nel 1975. Mandelbrot scoprì che alcune strane curve inventate nel corso degli ultimi due secoli dai matematici Peano, Cantor, von Koch e altri, non erano stramberie matematiche da nascondere in solaio ma elementi di una nuova geometria: la geometria frattale. Di questa geometria sono membri onorari anche alcuni oggetti naturali come le nuvole, i cristalli di neve, le coste della Gran Bretagna, le montagne (ma non le colline): «Le nubi non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste non sono cerchi né la luce di un lampo viaggia in linea retta» (B. Mandelbrot, The Fractal Geometry of Nature). Sono oggetti frattali.
    Il tipico esempio di oggetto frattale è il frammento di roccia, ha una forma simile alla montagna da cui è stato staccato, e un frammento del frammento ha ancora una forma simile alla montagna, e così via… Ma il gioco non può durare all’infinito, poiché molto prima di arrivare all’atomo la somiglianza con la montagna scompare.
    In realtà affermare che un frammento di roccia è simile a una montagna è solo un’astrazione mentale, e non solo perché se cambia la dimensione dell’oggetto cambia anche lo strumento usato per l’operazione di frammentazione (una piccozza da geologo non può spezzare un granello di sabbia). Noi, fedeli spettatori di SuperQuark lo sappiamo: esiste un avvoltoio che spacca le uova di cui è ghiotto con un sasso; la lontra marina utilizza un ciottolo come martello e la propria pancia come incudine per rompere le conchiglie; le cornacchie spaccano le noci facendo cadere sopra delle piccole pietre; e infine certe cornacchie gettano le noci sopra le strisce pedonali della strada (e in questo caso le pietre sono le ruote delle automobili) e poi quando il semaforo è verde, ne mangiano i gherigli. Ma costruire uno strumento significa avere un’immagine mentale di un oggetto che non esiste in natura. Il primo manufatto umano è un ciottolo scheggiato per ricavare un margine tagliente (chopper), e risale a circa due milioni e seicentomila anni fa. Ma se il ciottolo scheggiato assomiglia al ciottolo integro perché lavorarlo?
    Non solo gli oggetti frattali non sono veri frattali, ma anche i frattali generati dal computer sono solo pseudo-frattali (analogamente i numeri generati da un programma informatico non sono veramente casuali), perché le operazioni matematiche eseguite da un computer, in un tempo finito, non sono infinite.
    Con buona pace dell’etimologia il termine frattale non spiega cos’è un frattale, anzi l’azione di suddividere un oggetto in frammenti irregolari non necessariamente è un’azione frattale. Puoi dividere un capello in quattro per la lunghezza, ma il risultato non è un frattale ma quattro capelli spessi un quarto il capello originario.
    Una figura geometrica è un frattale se rispetta due proprietà: deve essere autosomigliante, cioè al variare della scala assomiglia sempre a sé stesso, e deve avere una dimensione frazionaria. Perché una figura geometrica frattale deve avere una dimensione frazionaria? Per rispondere a questa domanda si deve riflettere sulle due proprietà che definiscono il frattale (autosomiglianza e dimensione frazionaria): esse sono connesse l’una con l’altra.
    Consideriamo tre entità geometriche: la linea, il quadrato e il cubo. La linea ha dimensione uno. Il quadrato ha dimensione due. Il cubo ha dimensione tre. La dimensione è data dall’esponente del rapporto tra le unità di misura: ad esempio una linea lunga 20 cm è formata da 20 segmenti di 1 cm, ovvero da 200 segmenti di 1 mm, il rapporto tra 200 e 20 è 10:1 cioè 10'. E uno è la dimensione della linea.
    La dimensione può essere determinata anche calcolando il logaritmo del rapporto tra le misure. Ad esempio scalando di quattro unità il lato di un quadrato di lato x si ottiene un quadrato contenente 16 quadrati di lato x, quindi log 16 / log 4 = log 4'' / log 4 = 2(log 4 / log 4) = 2. Scalando di quattro unità il lato di un cubo di lato x si ottiene un cubo contenente 64 cubetti di lato x. La dimensione del cubo è log 64 / log 4 = log 4''' / log 4 = 3(log 4 / log 4) = 3.
    La linea gode della proprietà dell’autosomiglianza, cioè può essere divisa in n parti (n = n'), e ogni parte è grande 1/n della linea originale. Il segmento di linea può tornare identico alla linea originale se ingrandito di un fattore n. Un quadrato è una figura autosomigliante a due dimensioni, e si può ottenere unendo insieme n'' quadrati grandi 1/n la grandezza del quadrato d’origine. E infine un cubo è una figura autosomigliante a tre dimensioni, infatti può essere scomposto in n''' cubetti di grandezza 1/n del cubo originale. Queste figure geometriche sono autosomiglianti, però possiedono dimensioni intere, quindi non sono frattali.
    Consideriamo due punti sul piano α e β. Noi siamo in α e vogliamo giungere in β. Percorriamo il primo terzo della strada in linea retta, poi deviamo a sinistra di 60°, quindi a destra di 60°, e poi di nuovo a sinistra di 60°, sempre coprendo un terzo della distanza tra α e β. Alla fine otteniamo una curva lunga 4/3 della distanza da α a β. Se si ripete per un numero infinito di volte la procedura, su ogni tratto della curva, si ottiene una curva di lunghezza infinita, e di dimensione frazionaria, infatti log 4 / log 3 = 1,2618... E ogni tratto della curva ripete il profilo della curva completa, cioè la curva è autosomigliante. Questa curva è un frattale, ed è chiamata curva di Koch.
    Le curve frattali possiedono una dimensione compresa fra uno e due, esclusi. Le superfici frattali possiedono una dimensione compresa fra due e tre, esclusi.”

    Ora che siamo dentro un’aula delle meraviglie dubitative possiamo sempre fuggire da una finestra - se l’aula si trova al pianoterra - e andare a spasso per il Giardino di Boboli, ché non siamo prigionieri di un insieme frattale, ma di una semplice routine.
    Per chiudere degnamente il post devo ancora esaminare la figura del “direttore di orchestra”, ma prima un’ultima citazione (sempre da Opus incerta) per chiarire tutti i lati del problema:

    “Il fenomeno psichico della pareidolia (1) è antico almeno quanto l’arte figurativa. Nel suo Trattato della Pittura Leonardo consiglia un utile espediente per «aumentare e destare l’ingegno»:

    Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l'ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di varî misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lí vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne' loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t'immaginerai.
    Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de' muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne' quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l'ingegno del pittore a nuove invenzioni sí di componimenti di battaglie, d'animali e d'uomini, come di varî componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l'ingegno si desta a nuove invenzioni
    […] (2)

    È stato fatto notare che la «nuova invenzione» di Leonardo era già stata inventata in Cina, dal pittore Sung Ti, vissuto nell’XI secolo d.C.:

    Scegliete un vecchio muro in rovina, stendete su di esso un pezzo di seta bianca. Guardatelo poi sera e mattina, finché attraverso la seta possiate vedere questa rovina, le sue protuberanze, i suoi livelli, gli zig-zag, le fenditure, fissandoli nel vostro spirito e nei vostri occhi. Fate delle prominenze le vostre montagne, delle parti più basse le vostre acque, degli incavi i vostri burroni, delle fenditure i torrenti, delle parti più chiare i punti più vicini, di quelle più oscure i punti più lontani. Fissate tutto ciò profondamente in voi e ben presto vedrete uomini, uccelli, piante, alberi e figure che volano e si muovono in mezzo a essi. Voi potrete allora usare il pennello seguendo la vostra fantasia. E il risultato sarà una cosa del cielo e non dell’uomo (3).

    Sono state trovate profonde analogie nei due passi sopra citati, solo il pezzo di tela, teso davanti alle pietre del muro, è assente in Leonardo; «ma l’uomo occidentale è forse incapace di vedere le ombre e i tratti ricoperti da un tessuto quando perfino un figlio del Celeste Impero li vede solo dopo una lunga contemplazione» (4).
    Fermo restando le analogie è il caso di evidenziare anche le notevoli differenze: se in Leonardo l’immagine balza fuori, per così dire, dal muro e desta la fantasia del pittore (così come improvvisa è l’associazione tra un nome e il suono delle campane), per Sung Ti l’immagine evocata è il portato di una lunga e quasi ipnotica contemplazione. E un conto è farsi sorprendere dal profilo di un animale fantastico, che si staglia nella trama accidentata di un muro, e un altro è fissare, attraverso una tela, un vecchio muro in rovina «sera e mattina», fino ad evocare un’immagine fantastica.
    Leonardo nel suggerire la sua invenzione (quasi scusandosi con il lettore: «benché paia piccola e quasi degna di riso») esorta a «vedere nelle macchie de' muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi» il volto fantastico della natura. Il Maestro Sung Ti (al di qua del cielo e al di là dei soliti rimandi triti e ritriti allo Zen e all’arte di riparare i motorini) a conti fatti ci rifila una ricetta di pittura.
    Non è un fatto contingente se questa visione improvvisa che afferra e ammalia lo sguardo, questa epifania (nel significato attribuito alla parola da Joyce (5)) di un muro scrostato, è fissata da Leonardo in figure naturalistiche; poiché è possibile vedere nelle macchie di un muro il profilo di un animale solo se quel muro, attraverso un gioco di segni, di rilievi e di ombre, ci suggerisce una figura che noi già conosciamo.
    Una conseguenza di questa riflessione su un muro muffito è che quel muro (e tutti i muri crostosi e muffiti del mondo), quel tronco d’albero muschioso (e tutti i tronchi d’albero), le nuvole nel cielo questa mattina alle 6,30 (e tutte le nuvole che si sono dipanate nel cielo dalla prima alba sul mondo) possiedono una straordinaria fantasia immaginativa. Nascondono in sé un serbatoio di immagini ancora non sognate (e segnate) dal genio di un Leonardo da Vinci, o di un Walt Disney:

    If you can dream it you can do it

    In una scena del film Contact quando la scienziata astronoma, dopo un viaggio in un tunnel spazio-temporale, si ritrova su una spiaggia deserta davanti a un mare nero, su un pianeta al di fuori del sistema solare, e vede avvicinarsi in lontananza, lungo la battigia, una forma aliena che dopo pochi istanti riconosce essere una figura umana e quindi una persona familiare, è come se da un incerto scarabocchio emergesse, in virtù di un’epifania di segni e consuetudini, la conferma di un’identità perduta e ritrovata. D’accordo, è solo un trucco degli alieni (che proprio perché alieni sono inimmaginabili) per instaurare un primo contatto, ma il concetto vale lo stesso: possiamo riconoscere solo ciò che già conosciamo.
    Vorrei porre l’accento su un’ultima differenza tra i due passi sopra citati, a proposito del paragone fatto da Leonardo da Vinci tra la capacità di tradurre un’immagine fantastica in una figura disegnata e alla capacità di riconoscere nel suono delle campane un nome o una parola: «come del suono delle campane, che ne' loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t'immaginerai». Parafrasando una famosa frase di Lévi-Strauss si può affermare che come i colori e i rumori appartengono all’ordine della natura (6), così il disegno e i suoni si collocano nella cultura. Infatti, il canto degli uccelli - animali sociali - si colloca ai confini del linguaggio, ed è il legame che unisce i membri di una comunità (anche se volatile).
    La musica e il disegno richiedono attenzione e disponibilità sociale. Infatti, se si apprezzano i rumori, i colori e gli odori naturali nel tempo di una camminata nel bosco, lo scarabocchio «alternativo» sull’intonaco dei muri delle case, i cellulari che suonano durante un concerto di musica o un funerale, e in generale lo squallore dei centri e delle periferie urbane - e delle genti che le abitano - ci colpiscono come un sopruso alla nostra libertà di persone (animali sociali). Se il colore è strettamente legato alla materia, al pigmento e quindi alla natura, il disegno è invece «cosa mentale»: come non esiste in natura il suono delle campane così non esiste il disegno.
    Secondo Plinio il Vecchio, la pittura nasce in Grecia, e in particolare a Corinto, grazie ad una fanciulla: «la quale presa d’amore per un giovane, e dovendo questi partire, alla luce di una lanterna fissò con delle linee il contorno dell’ombra del viso di lui» (Storia naturale, XXXV, 15). Leonardo da Vinci nel Trattato della Pittura riprende il mito di Plinio: «La prima pittura fu sol di una linea, la quale circondava l'ombra dell'uomo fatta dal sole ne' muri» (7).
    È un dato di fatto - allo stato attuale delle ricerche - che le più antiche testimonianze d’arte risalgono agli inizi del Paleolitico (8) superiore (circa 35.000 anni a.C.) e si manifestano in un modo già tecnicamente maturo in tutti i generi canonici dell’arte figurativa: pittura, disegno, rilievo e plastica, sia con raffigurazioni veristiche di animali e persone sia con figure astratte e probabilmente simboliche.
    I sostenitori dell’origine dell’arte preistorica da forme geometriche e astratte, non naturalistiche, nel tentativo di scoprire testimonianze ed evidenze fossili anteriori alle figurazioni naturalistiche, hanno ipotizzato un’«alba delle immagini» (Leroi-Gourhan), caratterizzata da oggetti e manufatti non «artistici» e tuttavia portatori di segnali «artistici». Oggetti meritevoli di essere esposti, a mio parere, in una stanza delle meraviglie, forse la prima (e forse anche l’ultima) sala di un ipotetico museo dell’arte occidentale.
    Visitiamo dunque questa sala. Entrando, alla nostra destra, in una vetrinetta fanno bella mostra di sé frammenti di ocra rossa trovati in numerosi siti risalenti alla fine del Mousteriano (periodo culturale caratterizzante il Paleolitico medio), cioè intorno a 50.000 anni fa. Non sono stati trovati oggetti naturali né manufatti dipinti con ocra rossa risalenti a quest’epoca, tuttavia s’ipotizza l’uso dell’ocra rossa per decorazioni corporee, maschere, e forse primitive forme di magia.
    Poco distante, sopra uno squisito tavolino di fine settecento, un mucchio di sassi sferoidi (scavati in siti francesi e tunisini dello stesso periodo, non del tavolino ma dei frammenti di ocra rossa).
    E a sinistra, a ridosso di un silente custode, seduto e leggente un giornale cittadino, muti oggetti portatori di un enigma millenario, stanno in una vetrinetta dai vetri polverosi. Sono «due masse di pirite di ferro formate da sfere ruvide agglomerate, uno stampo interno di una grossa conchiglia di gasteropode fossile, un polipaio sferico dell’Era secondaria» (9). Raccolti dai nostri lontani cugini neandertaliani (10), forse perché strani, bizzarri, vere curiosità naturali, furono custoditi nel fondo del cuore della loro caverna, nei pressi di Arcy-sur-Cure. Essi rappresentano la prima collezione naturalistica di una specie umana non sapiens (ma in fondo c’è qualche cosa di non sapiens in tutti i veri collezionisti).
    In mezzo alla saletta, alloggiati dentro una vetrina sotto un lucernario, il pezzo forte della sala: oggetti d’osso e di pietra decorati da serie di tratti scalfiti. Gli oggetti più antichi sono databili alla fine del Mousteriano, dunque contemporanei dei coloranti d’ocra e manganese, ma si fanno più numerosi verso il 35.000 a.C., all’inizio del Paleolitico superiore e con le prime testimonianze d’arte.
    Il significato di queste incisioni parallele ed equidistanti è ignoto agli studiosi, anche se è indubbio che rappresentano una ripetizione, forse un ritmo. L’archeologo francese Leroi-Gourhan gli paragonò ai churinga australiani: piccole lastre di pietra o di legno incise con motivi astratti, simboli dell’antenato mitico.

    […] Il churinga mobilità le due fonti dell’espressione, quella della mobilità verbale, ritmata, [dall’officiante durante i riti magici] e quella di un grafismo trascinato nello stesso processo dinamico. Non intendo affatto dire che le serie di incisioni del Paleolitico superiore siano assimilabili ai churinga; ritengo però che, tra le possibili interpretazioni, vada presa in considerazione quella di un sistema ritmico di carattere magico o declamatorio (11).

    Ma non tutti i churinga sono decorati da incisioni; tra quelli decorati i motivi astratti più comuni sono cerchi concentrici, linee rette parallele, linee curve e linee punteggiate. Ad esempio in un churinga di un aborigeno del totem rana i grandi cerchi concentrici, rappresentano tre alberi che segnano il luogo totemico, uniti da linee rette: le grosse radici degli alberi. Le linee curve sono le radici piccole, e i piccoli cerchi concentrici rappresentano alberi minori (collegati dalle radici piccole). Le linee punteggiate «sono le tracce lasciate dalle rane saltellando sulla sabbia in riva all’acqua» (12). Un tocco di naturalismo degno di Masaccio.
    L’antropologo francese Lévi-Strauss osserva che alcuni churinga - tra i più preziosi - non sono affatto decorati e non sono neppure manufatti. Infatti, anche un masso naturale o un albero può essere un churinga. Lévi-Strauss li assimila ai nostri «documenti d’archivio»:

    che noi chiudiamo nei forzieri o affidiamo alla segreta custodia dei notai e che di tanto in tanto esaminiamo con i modi dovuti alle cose sacre, per restaurarli se necessario, o per riporli in cartelle più eleganti. In simili occasioni anche a noi piace recitare i grandi miti, la cui memoria è ravvivata dalla contemplazione delle pagine strappate e ingiallite: fatti e gesta dei nostri antenati, storia delle nostre dimore, dalla loro costruzione o dal momento in cui furono cedute (13).

    A chi ipotizza la sacralità dei churinga perché recano, inciso o disegnato, il contrassegno totemico, Lévi-Strauss risponde con una felice similitudine:

    Un documento non diventa sacro per il solo fatto di portare un timbro prestigioso, per esempio quello degli Archivi Nazionali: esso porta il timbro perché prima è stato riconosciuto sacro, e anche senza lo resterebbe ugualmente (14).

    Inutile quindi ammantare i churinga di un carattere sacro e magico perché sono maneggiati da officianti, decorati da incisioni (i timbri totemici), e spalmati (restaurati) con ocra rossa:

    quando un’usanza esotica ci attira a dispetto (o a cagione) della sua apparente singolarità, il motivo generalmente sta nel fatto che ci suggerisce, come fosse uno specchio deformante, un’immagine familiare che riconosciamo confusamente come tale senza però riuscire a identificarla (15).

    Sulla base delle nostre osservazioni sulla citazione dal Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, e sulla scorta di questa riflessione del grande antropologo francese, l’ipotesi di leggere negli oggetti d’osso e di pietra paleolitici una «testimonianza dell’origine della figurazione distaccata da una concreta figuratività» (16) non ci convince affatto. Tuttavia Leroi-Gourhan scrive che «se c’è un punto sul quale abbiamo raggiunto ormai l’assoluta certezza, è che il grafismo inizia non nella rappresentazione ingenua della realtà bensì nell’astratto» (17), partendo da segni (le tacche incise su oggetti naturali) che sembrano aver espresso prima di tutto dei ritmi e non delle forme. Per Leroi-Gourhan l’arte figurativa delle origini è «direttamente collegata al linguaggio e più vicina alla scrittura nel senso più ampio della parola, che non all’opera d’arte» (18).
    Nella raccolta e conservazione di strani e bizzarri oggetti naturali da parte dei neandertaliani si è voluto trovare l’origine della ricerca del fantastico nella natura, e la conseguente nascita di un «sentimento estetico che spinge verso il mistero delle forme bizzarre, conchiglie, pietre, denti o zanne, impronte di fossile» (19). Quindi per Leroi-Gourhan «l’arte figurativa propriamente detta è preceduta da qualcosa di più oscuro o di più generale che corrisponde alla visione ragionata delle forme» (20).
    Affine a questa teoria dell’origine dell’arte da forme astratte, fantastiche e ritmiche (e ancora non disegnate, cioè non figurate), è l’ipotesi delle irregolarità naturali, per esempio le sporgenze della roccia, come stimolo per una germinazione spontanea di forme di animali o di figure fantastiche nella mente dell’artista paleolitico, poi stabilizzate con integrazioni a disegno o in pittura. Ma non è affatto dimostrabile che l’utilizzo di accidentalità naturali caratterizzi specificamente la fase iniziale dell’arte preistorica (21). Infatti, esempi di utilizzo di accidentalità naturali sono presenti un po’ dovunque nella documentazione etnologica, ad esempio:

    Egli [Koch-Grünberg] racconta che gli Indiani [del sud-america], quando si accampano nei pressi di un guado, in attesa che il fiume sia navigabile scalfiscono segni naturali sulle rocce trasformandoli in forme suggerite dai contorni naturali, oppure continuano le linee lasciate da un gruppo precedente, che si è divertito allo stesso modo […]. Esistono ampie prove del fatto che rocce di forma curiosa non solo sono paragonate a esseri animati ma vengono anche realmente considerate uomini o animali trasformati in pietre (22).

    L’usanza di continuare (e modificare) disegni iniziati da altri e lasciati non finiti per motivi forse contingenti, è un fatto assodato nella documentazione etnologica, e riscontrabile nelle varie zone dell’ecumene. Ad esempio presso i nomadi pastori delle tende nere tale fatto potrebbe:

    esser interpretato [anche] come una sospensione intenzionale di un lavoro per invitare qualcun altro a continuarlo. Fatto questo di cui si è avuta netta sensazione non poche volte: i motivi chiaramente ci sfuggono, ma inducono a sospettare che la cooperazione di altre mani in un lavoro, al fine di completarlo o migliorarlo, fosse oggettivamente cercata più che lasciata al caso (23).

    La letteratura e la poesia non richiedono uno spazio e un tempo dedicati; infatti, si può comporre una poesia o un canto anche nel corso di un’attività lavorativa, come può essere la caccia o la raccolta di piante selvatiche. Ed è proprio il passo dell’uomo il primo metro della poesia e del canto. Al contrario «la prima condizione per la creazione di prodotti artistici è il tempo libero» (24) e uno spazio dedicato.
    Il cacciatore e raccoglitore paleolitico probabilmente (come le popolazioni dei nomadi pastori attuali) segnava in punti strategici il territorio, forse per segnalare un passo particolarmente periglioso, un sentiero, un guado, un luogo ricco di selvaggina, e forse incideva la roccia con motivi figurativi e astratti anche solo per svago, per far passare il tempo. È certo: un padre dell’arte figurativa è sicuramente l’ozio; e l’ozio non doveva mancare nelle società dei cacciatori e raccoglitori paleolitici, al contrario abbondava, ed era probabilmente capitalizzato sotto forma di manufatti artistici.
    Studi etnologici su una popolazione nomade di cacciatori e raccoglitori in Africa (25) hanno provato che in media gli uomini vanno a caccia due giorni e mezzo a settimana, e poiché ogni giorno lavorativo non supera le sei ore, questo equivale a una settimana lavorativa di quindici ore. E le donne, in un solo giro attorno al villaggio, raccolgono abbastanza da nutrire la loro famiglia per almeno tre giorni.
    Tuttavia, allora come oggi, sono i bambini e gli adolescenti ad avere più tempo libero rispetto agli adulti. E forse sono le pensiline, decorate dalle innumerevoli mani di ragazzini in attesa dell’autobus che li riporta a casa dalla scuola, il surrogato tecnologico delle rocce incise e dipinte dagli artisti del Paleolitico superiore.
    Comunque il punto non è se queste manifestazioni pittoriche (delle caverne e delle pensiline) non gallerizzate e collezionate, siano da considerare arte; il punto è il seguente: l’epifania per manifestarsi non necessita di un luogo oscuro, misterioso, «sacro». Indifferente ai luoghi della storia e alle mode dei villeggianti l’epifania si rivela in «non luoghi» (sottopassi ferroviari, strade secondarie, stazioni della metro, ecc.). Così come riporta il resoconto giornalistico dell’ultima teofania di Demetra (la dea madre della terra e della vegetazione, venerata, assieme alla figlia Persefone, nel santuario di Eleusi per più di duemila anni). Il simbolo del passaggio dalla natura selvaggia alla coltura del grano in Occidente rivive per l’ultima volta in Occidente, in un piccolo bozzetto giornalistico di fondo pagina:

    All’inizio del febbraio 1940 […] a una fermata dell’autobus Atene-Corinto salì una vecchia, «magra e rinsecchita, ma con grandi occhi molto vivaci»; poiché non aveva denaro per pagare il biglietto, il controllore la fece scendere alla stazione seguente – quella di Eleusi, appunto. Ma il conduttore non riuscì più a mettere in moto l’autobus e, alla fine, i viaggiatori decisero di fare una colletta per pagare il biglietto della vecchia. Questa risalì sull’autobus, che ora poté ripartire. Allora la vecchia disse: «Avreste dovuto farlo subito, ma siete degli egoisti; e già che sono qui, vi voglio dire ancora una cosa: sarete castigati per il modo in cui vivete; vi saranno tolte persino l’erba, e l’acqua!». «Non aveva ancora finito la sua minaccia» continua l’autore dell’articolo pubblicato sull’«Hestia», «ed era scomparsa… Nessuno l’aveva vista scendere. E si andò a riguardare il blocchetto dei biglietti per convincersi che era veramente stato staccato un biglietto» (26).”

    La sosta è finita, non è ancora tempo per le frasi di addio, dobbiamo proseguire il cammino.

    1 «La pareidolia (dal latino parìre e idolu(m), derivante a sua volta dal greco είδωλον) è l'illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale. È la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate; l'associazione si manifesta in special modo verso le figure e i volti umani. Classici esempi sono la visione di animali o volti umani nelle nuvole, la visione di un volto umano nella luna oppure l'associazione di immagini alle costellazioni. Sempre alla pareidolia si può ricondurre la facilità con la quale riconosciamo volti che esprimono emozioni in segni estremamente stilizzati quali le emoticon. Si ritiene che questa tendenza sia stata favorita dall'evoluzione perché consente di individuare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi, ad esempio riuscendo a scorgere un predatore mimetizzato», dall’enciclopedia Wikipedia, vedi scheda in: http://it.wikipedia.org/wiki/Pareidolia. :)
    2 Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, I, 2, 63.
    3 Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, 1973, p. 238.
    4 ibid.
    5 «Notiamo fin d’ora che le epifanie, questo sentimento di epifania, costituiscono il metodo narrativo di Joyce […] Noi che viviamo in un paese dove questo evento della vita di Gesù è molto familiare ed annualmente festeggiato non abbiamo bisogno di arrivare alla didascalica pedanteria di Tindall che ricorda come l’Epifania cada il sei gennaio e commemori l’arrivo dei tre Re Magi ad una mangiatoia dove “mentre videro nient’altro che un bambino, videro qualcosa d’altro”. Ci importa questo fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro». Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, 1983, p. 288.
    6 Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, 1980, p.37.
    7 Leonardo da Vinci, op. cit., I, 2, 126.
    8 La suddivisione della preistoria in età della pietra, età del bronzo ed età del ferro è opera dello studioso Christian Jurgensen Thomsen in occasione della risistemazione del Museo Nazionale Danese, all’inizio dell’Ottocento. In seguito, grazie allo studio di stratigrafie in diverse località in Europa, l’età della pietra fu suddivisa in Paleolitico o della pietra scheggiata (a sua volta suddiviso in tre fasi di sviluppo: antico, medio e superiore) e Neolitico o della pietra levigata. Con fasi di transizione tra Paleolitico e Neolitico (Mesolitico) e tra il Neolitico e l’età del Bronzo (Eneolitico).
    9 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, Einaudi, 1977, p. 426.
    10 La comparsa di caratteri genetici che caratterizzano la popolazione neandertaliana è iniziata durante l’interglaciale Mindel-Riss, forse alla fine della glaciazione Mindel (circa 350.000 anni fa), per poi stabilizzarsi all’inizio della glaciazione Riss (circa 200.000 anni fa). I neandertaliani sono vissuti per circa 300.000 anni, coprendo l’intero periodo preistorico del Paleolitico Medio (Riss-Würm – Würm II). La loro cultura materiale è conosciuta con il termine di Musteriano, in realtà un complesso di culture, ciascuna delle quali è rappresentata da industrie litiche con caratteristiche ben definite. I neandertaliani allestivano focolari con le stesse tecniche impiegate dalle genti del Paleolitico Inferiore; costruivano lastricati di pietre e ciottoli (forse per proteggersi dall’umidità); erigevano capanne all’interno delle grotte; praticavano il culto dei morti: sono state scoperte vere e proprie sepolture con la presenza di corredi funebri. Non conoscevano l’arte (ma collezionavano strani oggetti naturali).
    11 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I. Tecnica e linguaggio, Einaudi, 1977, p. 222-224.
    12 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1979, p. 258.
    13 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 260.
    14 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 261.
    15 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 260.
    16 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I. Tecnica e linguaggio, Einaudi, 1977, p. 222.
    17 op. cit., p. 224.
    18 op. cit., p. 225.
    19 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, Einaudi, 1977, p. 426.
    20 op. cit., p. 427.
    21 Herman Müller-Karpe, Storia dell’età della pietra, Laterza, 1984, p. 210.
    22 Franz Boas, Arte primitiva, Universale scientifica Boringhieri, 1981, p. 144.
    23 Edoardo Borzatti von Löwenstern, Quadri di pietra. 8000 anni d’arte nel deserto, Nuova SI, Sìmata, 2005, p. 76.
    24 Franz Boas, op. cit., p. 296.
    25 Richard E. Leakey, Roger Lewin, Origini. Nascita e possibile futuro dell’uomo, Laterza-Euroclub, 1981, p. 173
    26 Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. II, Sansoni, 1980, pp. 413-414.