domenica 31 gennaio 2010

Ritornati dalla polvere n. 5 (indice)

Indice analitico dei post che formano una “serie”, per formare una serie sono sufficienti 2 post.
Le serie hot spot sono evidenziate in rosso.

Rileggendo il primo post della prima serie mi sono tolto un peso dalla coscienza (*): errori, distrazioni e refusi, A è il metamanifesto del blog.

A. Orografia di avere (I e II), Eco, Cicognani e un errore capitale di Errorlandia.

B. Un’immagine in fuga (I e II). Sul giudizio e il pregiudizio, che poi è la stessa cosa. "Manifesto" del blog.

C. In attesa dello zio di Andromeda (I - IIIII - IV). Un esempio concreto e misurabile di B, con cani, ragni, mosche e il Voyager Golden Record e gli Alieni.

D. Problem Solving (I e II). La prima immagine del primo post della serie dice tutto il dicibile e l'indicibile, così non sgridate mai un boxer maschio (ché, lapalissianamente ragionando, non è mica una femmina e neppure un labrador), tirerà fuori la punta della lingua e fisserà lo sguardo nella straziante bellezza del creato, assumendo una simpatica espressione ebete tira ceffoni.

E, soprattutto, non cercate mai di convincere un gatto che un’anatra appesa a frollare è un’opera d’arte, un'installazione da contemplare in religioso silenzio e trattenendo il fiato ('ste ca**ate lasciatele a Flash Art).

E. Stanze parallele (IIIIIIIVVVIVIIVIII - IX). Le serie televisive americane degli anni settanta sono a tutt’oggi uniche e irripetibili, e non solo per i soggetti, i dialoghi e gli attori, ma anche per la cura, quasi maniacale, dei particolari, e nella resa magistrale dello spazio scenico. Qui confronto due delle più belle.

F. Curiose applicazioni di Autostitch (IIIIIIIV - V). Autostitch è un software atto a generare immagini panoramiche da foto digitali, ma può essere usato per fermare in un'immagine statica una serie di fotogrammi, catturati e salvati con altri software nel formato JPG, e ottenere informazioni filtrate dalla retorica del regista. Insomma trasformare il cinema, guarda dove ti dico io, in teatro, guarda dove ti pare, sempre se ne sei capace, o più o meno.

G. Wunderkammer (IIIIIIIVVVIVIIVIIIIXX - XI). La realtà delle idee nella filosofia: far le seghe ai fagiani o fuggire dalla finestra?

H. Paese d’Ottobre (IIIIIIIVVVIVII - VIII). Una serie di riflessioni autunnali. e però il vecchio saggio fu accoppato e il cadavere seppellito sotto un pero.

I. Commento a un commento ai Promessi Sposi (IIIIIIIVVVIVII - VIII - ...). Una serie di post dedicati al commento di una serie di note poste a commento in una vecchia edizione dei Promessi Sposi (il post n.6 che credevo datato è ritornato di attualità).

L. Ritornati dalla polvere (IIIIIIIVV - ). Quanto al libro di Michea, esso scomparve, immaginatevi che perdita se fosse stato l'unico esemplare. (J. Saramago).

M. Anabasi di una frase (IIIIIIIV - VVIVII). Tempo fa mi ero occupato delle Wunderkammern presenti nel cinema e in letteratura e avevo proposto una personale classificazione, degna, direi senza falsa modestia, di M il mostro di Dusseldorf, ed ero lì con la testa tutta presa e occupata da fuchi marini pesci che giocano a palla ragni e mosche nel piatto, ingegneri pescivendoli, fiocineri canterini e ceneri di tabacco, per mettere sotto la lente di ingrandimento del mio occhio anabasilico una strana e oscura frase presente in una citazione da un famoso romanzo di Verne. Ho cercato la Via su Google, ma il mistero per me era rimasto intatto… poi l’ho risolto, con in più uno spin-off.

N. Breve ma veridica storia delle religioni (III - IIIIVVVI). Ecco scendere dall’alto l’idea della spingenesi.

O. Anabasi di una parola (IIIIII - IV). Bootleggers, roll your tapes

P. Bestiario (IIIIIIIVVVIVIIVIII - ...). Il bestio è la chiave per uscire dal labirinto, e dunque per uscire da tutte le wunderkammern del mondo.

Q. no free dogs (I - ). …del sole di una stagione di leggerezza infinita e vedi le strade secondarie deserte libere correre i cani senza guinzaglio…

(*) Anticamente con coscienza si intendeva qualcosa di diverso da ciò che si ritiene oggi nell'ambito psicologico e filosofico. Non tutti gli antichi dividevano l'uomo in mente e corpo. Anzi era molto diffusa l'idea (oggi tornata alla ribalta) che l'uomo avesse tre funzioni relativamente indipendenti chiamate "centro intellettivo", "centro motore-istintivo" e "centro emozionale", collocate rispettivamente: in una parte dell'encefalo, nella parte terminale della colonna vertebrale (dove un tempo nell'uomo compariva la coda) e nella zona del plesso solare, in quelli che sono oggi chiamati "gangli del simpatico e del parasimpatico". Ebbene "coscienza" indicava quello stato interiore di sintonia tra i tre centri (sapere insieme) che, se raggiunto, permetteva all'uomo di elevare la propria ragione. (Wikipedia).


sabato 30 gennaio 2010

30 gennaio (Bosch Vs Calvin & Hobbes)


Che significa, o Hieronymus Bosch,
quel tuo occhio attonito? Quel pallore
del volto? Come se tu stessi guardando
i lemuri e gli spettri dell'Inferno
svolazzarti davanti. Potrei credere
che ti si siano spalancate la porta
dell'avido Dite e le dimore
del Tartaro poiché la tua destra
ha potuto dipingere tanto bene
tutto quello che il più profondo
recesso dall'Averno contiene.

(Bosch, Lampsonius)

C’è stato un tempo, tanto tempo fa, che non uscivo di casa senza portare in tasca, come un santino benedetto, una immagine di una pittura di Bosch. E, molto più tempo fa, ho anche fatto una mostra di pittura, intitolata Sentieri di Bosch; visitatori forse meno di venti :)

Oggi, se tanto mi da tanto, dovrei portarmi sulle spalle il trittico di Bosch ma in scala 1:1 per tenere a distanza il male, cosa impossibile, vedo bene che è impossibile grazie, preferisco ridere uscendo di casa con in testa una battuta di Calvin & Hobbes.

In una striscia Calvin e Hobbes sono seduti sotto un albero, sicuramente è Estate, nella seconda vignetta Calvin dice, I rutti degli uccelli probabilmente sanno di insetto, nell'ultima vignetta Calvin è rimasto solo sotto l'albero, incredibile ma vero Hobbes è scomparso, Calvin riflette, Nessuno mi paga mai un penny per i miei pensieri. (*)

Ciao.
(*) Bill Watterson, E' un magico mondo (Comix)
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giovedì 28 gennaio 2010

Commento a un commento ai PS (n. 7)


"Carneade! chi era costui? (1) – ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’ambasciata. – Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letterato del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? […]”

(1) Carneade! chi era costui? Il povero don Abbondio in questo momento è tranquillo, quasi come quella sera che tornava dalla passeggiata dicendo l’ufizio […] Nello scritto Eco d’una notte mitica, il Pascoli ha paragonato questa notte all’ultima di Troia […]

Eccolo lì il nostro caro don Abbondio con il libricciolo aperto in mano e lo sguardo perso nel vuoto catturato nel tentativo disperato di cercare nella memoria un sentiero, un appiglio, un gancio, una cengia cui afferrarsi e scoperchiare così il vaso di pandora - che, tutti sanno, conteneva solo olive in salamoia alla ligure - il mistero di un nome che cela sempre un contenuto, quale non sappiamo e non sapremo mai. Talvolta capita in tram, mentre fingiamo di non guardare una ragazza con gli occhi del colore di una notte d'estate, di ascoltare, non volenti e dolenti, uno scrittore di romanzi seduto e con la barba alla Lombroso parlante ad un’amica in piedi (e con la barba) del suo prossimo futuro romanzo, preoccupato lo scrittore, ma mica più di tanto, anzi lusingato che qualche lettore con la cispa agli occhi, Perché ogni mattina mi sveglio con la cispa agli occhi?, dicevo possa leggere in un personaggio della storia il Nostro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E forse, un giorno perso nel futuro, uno scrittore inizierà il capitolo ottavo del suo romanzo della vita con questo incipit:

“Berlusconi! Chi era costui? (1) – ruminava tra sé don XwqyJ? seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando YyJj66! entrò a portargli l’ambasciata. – Berlusconi! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letterato del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? […]”

(1) Berlusconi! chi era costui? Il povero don XwqyJ? in questo momento è tranquillo, quasi come quella sera che tornava dalla passeggiata dicendo l’ufizio […] Nel post Commento a un commento ai PS (n. 7), ii Puu-tii-uiit? ha paragonato questa notte alla mitica alba di Zio Paperone disegnato da un grande Romano Scarpa […]

Capita a tutti, ma proprio a tutti, che una mattina davanti a una finestra spalancata da cui entra sicura e ridente la fresca primavera, portando seco l’eco di uno sferragliante tram deambulante su rotaie, e il cinguettio festoso di passeri affamati e una radio che canta e suona a tutto volume Waitin' on a sunny day, mentre ce ne stiamo seduti sul bordo del letto a ricapitolare la vita e intanto che ricapitoliamo ci rasiamo il becco, di pensare ad una parola misteriosa, che improvvisamente fa capolino allo specchio terso della nostra mente, parola che non ci lascerà in pace per tutta la giornata, balabu! Ma chi diavolo è o era balabù?
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mercoledì 27 gennaio 2010

Bestiario n. 7 (la lucertolina e il camaleonte)

All’inizio del tempo Dio passava il tempo giocando tutto il tempo che c'era quando era in casa con le sue creature, giocava con la palla, con la corda, con il gioco del riporto, ma, soprattutto, all'inizio del tempo Dio era un viaggiatore instancabile e curioso, non c’era un posto sulla terra dove non ci fosse già stato, locanda dove non avesse dormito almeno una notte, museo cittadino che non avesse visitato e libro dei visitatori su cui non avesse lasciato una firma fiorita di ornati e svolazzi e un breve ma significativo mito o una storiella allegra o un aneddoto o una barzelletta (mai sporca però). Dio era un mago, se esisteva un luogo, per esempio la capitale di un regno, dove non aveva mai viaggiato ecco che lo cancellava dalla memoria delle genti e dalla faccia della terra, e gli abitanti della città perduta prendevano in blocco il nome di un vizio capitale, ancora vacante e disponibile, e chi provava a voltarsi indietro capiva il trucco e ci restava di sale. Quando Dio il Viaggiatore si metteva a raccontare dei suoi mille e mille viaggi con Giobbe quello doveva uscire dalla stanza per il nervoso.
All’inizio del tempo Dio era peggio di un furetto, chi poteva tenerlo?, chi poteva afferrarlo?, chi prenderlo con le reti per forargli il naso?, o prenderlo all'amo o attaccarlo a un filo per divertir le ragazze?, e chi poteva legarlo ad una sedia ed impegnare la sua mente svagata con qualche lavoretto, per esempio l’inventario degli animali da consegnare a Noè, un attimo di distrazione del sorvegliante ed eccolo già fuori dalla finestra, a saltellare dietro le farfalle, peggio di Pinocchio.
All’inizio del tempo Dio era loquace e ciarliero, garrulo come un usignolo, e rispondeva a tutte le domande, proprio tutte anche a qulle imbarazzanti (per Lui), e non stava mai zitto, rispondeva pure alle domande senza risposta, mica si perdeva d’animo, improvvisava, era un talento nato, si metteva a raccontare una storia e piano piano portava l’esaminatore fuori pista, lo conduceva nel deserto e lo accoppava con la sua logica accuminata, poi lo seppelliva sotto un cactus. Se l’esaminatore gli chiedeva qualche delucidazione sulla transubstanziazione, ecco che partiva con la Genesi e prendeva l'esaminatore per fame, sete e disperazione.
Un tardo pomeriggio di luglio Dio era lì che vagava nel Camerun (*) e vide un camaleonte su un ramo, assorto in mistica contemplazione, gli occhi fissi nella straziante bellezza del creato. E Dio si ricordò che doveva ancora decidere il destino degli esseri viventi, e, come gli capitava spesso a quei tempi, volle affidarsi alla sorte, purtroppo quel giorno non aveva in tasca neppure una monetina da cinque centesimi, allora afferrò il camaleonte per il collo scuotendolo come un topo in bocca al gatto. Tu maledetto camaleonte scoglionato, sveglia! Corri ad annuciare agli uomini la resurrezione dopo la morte. Quando il camaleonte era già un puntino spaurito e strillante all’orizzonte Dio si accorse di una lucertolina che se ne stava beata su un sasso ad abbronzarsi tutta nuda, e le tirò un sasso, tanto per non perdere l’abitudine, e ovviamente fece centro (che in queste cose Dio era un Dio), e alé via la coda, Tu maledetta lucertola scodata, sveglia! Corri ad annunciare agli uomini la morte senza ritorno. Ma prima Dio le promise che se fosse arrivata prima del camaleonte le avrebbe riattaccata la coda con la colla uhu.
Eccolo là sprofondato in un’enorme poltrona tappezzata di pelle cangiante di Altair IV, di un color fulvo tendente al giallo, con gli occhi come una fessura, occhi verdi di ramarro, e le mani unite per i polpastrelli delle dieci dita, e sulle labbra sottili aleggiare il soffio di un sorriso ionico.
Uhu!, disse la lucertolina, che capiva il giusto, e via alla rincorsa matta del camaleonte. La lucertolina raggiunse il camaleonte e gli disse, Amico vai piano, chi va piano va sano e va lontano, non vedi che scuoti il mondo? Poi preso il vantaggio annunciò la morte senza ritorno agli uomini, che sentitamente ringraziarono.
Da quel tempo mitico che è solo leggenda, o da quel tempo leggendario che è solo mito, alla lucertolina Dio riattaccò la coda, come promesso, e in seguito, che era un tipo distratto, gliene attaccò un'altra, Allegria! ché piove sul bagnato. La lucertolina se ne sta nascosta sulla porta del Duomo di Pisa, ma gli esseri umani la toccano e l’accarezzano tutti, dicono che porti fortuna. A forza di toccarla e accarezzarla è diventata così lucida che sembra non più di bronzo ma d’oro zecchino, ancora un po’ e l’oro zecchino sembrerà trasparente come aria, ma gli addetti all’Opera del Duomo sono corsi al riparo (anche a Pisa piove) e hanno transennato la porta.
E il camaleonte? Be’ il poveretto da allora ha imparato a roteare gli occhi in modo indipendente. Non sia mai che Qualcuno sopraggiunga alle spalle, con passo felpato e un messaggio urgente da consegnare.


(*) "Con il rospo, la lucertola svolge un ruolo importante nelle leggende sulle origini dei popoli del Camerun. Essa interviene soprattutto nelle leggende sull'origine della morte:
All'inizio Dio inviò due messaggeri sulla terra: il camaleonte doveva annunziare agli uomini la resurrezione dopo la morte; la lucertola portava l'annunzio della morte senza ritorno. Il messaggero che fosse arrivato primo avrebbe prevalso. La lucertola ingannò il camaleonte e gli disse: 'Vai lentamente, lentamente!... se corri scuoti il mondo!'
Poi preso il vantaggio annunziò la morte senza ritorno."
(J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli).
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martedì 26 gennaio 2010

Bestiario n. 6 (lumache e colombe)

Ok, siete viaggiatori del tempo e camminate sulle strade di una magica città atemporale che non è mai esistita, ma è l’unica città dove avreste voluto nascere e morire. Una città che alterna larghi e infiniti viali a strette viottole contorte, musei e gallerie e botteghe di cianciafruscole sparpagliate sul marciapiede. All’orizzonte le torri di babele si stagliano nel blu del cielo estivo, sulla strada si affacciano banche e sporti d’ortolani, pizzicagnoli e fornai, librerie antiquarie e straccivendoli, enigmatiche insegne, pizzerie da asporto.
Le strade sono fiumi in secca sul fondo di canyon d’ombra di terra di siena bruciata, e le persone che vi si agitano dentro sono simili a quelle figurine dipinte sullo sfondo dei teleri di Vittore Carpaccio, inconsapevoli dell’accadere di un evento miracoloso in primo piano, San Girolamo che conduce nel monastero il leone ammansito, perseguono le loro attività quotidiane, chi passeggia leggendo il giornale, chi porta a spasso il cane, chi in faccende affaccendato blatera barbaricamente nel cellulare e pesta una molle deiezione canina, il cui autore, portato fuori da un padrone dimentico di paletta e sacchetto, sta girando il canto della strada e s’intravede appena, nella limpida brillantezza di un attimo fuggente, l’agitare festoso della coda, uomini calvi e glabri in costume giallo cantano e danzano al ritmo di un tamburello, turisti giapponesi fermi all’incrocio sorridono al semaforo rosso.
Tirate fuori la vostra macchina digitale e cominciate a scattare istantanee, ad una fontanella secca posta sul canto di una stradina che s’affina nell’ombra fresca e umida, ad un monumento equestre pazientemente zebrato da generazioni di colombe selvagge, ad un portico di luci e di ombre, ad un pittoresco muro crostoso e ammuffito che vi nasconde la vista di un silente giardino di periferia, alle nuvole che si dipanano lente nel cielo blu.
È una sera d’estate. Dall’ombra profonda e blu planano sopra le vostre teste misteriose parole quotidiane, suoni di piatti e posate, Chopin duetta con Hendrix, uno speaker ordina indifferente i fatti del giorno quasi andato. E in strada, all’ombra di un albero, sonnecchia indifferente un magro gatto soriano. Filippo ha le placche in gola. Un cane boxer maschio si accuccia per urinare l’orina accumulata in un pomeriggio di tedio e noia aspettando il ritorno a casa del padrone, non ha ancora imparato che deve alzare la zampa e segnare il territorio. Una ragazza vi passa accanto, Tutte le kose k hai detto sn vere sekondo me, ma non lo dice a te. E le ombre della sera si allungano e sembrano ghignanti demoni etruschi, e colorano le strade di un assurdo blu oltremare. Entrate in un ristorante alla francese e vi sedete ad un tavolo coperto da una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, due uomini, uno è vecchio, l'altro non più giovane, parlano e ridono, uno dei due ha davanti a sé un breve futuro e un piatto di lumache. Escargot. Lumaaache. Lumache. Rpiene di burro e aglio. Buon vino, pane francese e lumaaache.



Se non capite una parola una della conversazione, be’ potete sempre leggere i sottotitoli, che diamine. Uno dei due è russo, l’altro invece no, uno è pieno di sé, assolutamente vuole vincere una partita a scacchi domani, l’altro ha già vinto e perderà per questo la vita. Gli scacchi sono la prova più ardua a cui è sottoposta la mente umana, no? Lei crede? Ho sempre pensato che fossero le donne. Quasi per caso, quasi per gioco, forse spinto dal suo demone il vecchio sposta il sale e l’altro gli risponde muovendo il pepe, inizia così la finale di partita (a scacchi), le cui mosse sono state decise, per entrambi, da uno stronzo di creativo vissuto circa cinquemila anni fa, già deciso il risultato: per uno toccano le fiamme eterne dell'inferno, ma qualche girone sopra il prete con l'amante e l'assessore ladro, l'altro non volerà però in paradiso, sosterà, solo qualche millennio, in purgatorio, a purgarsi come una lumaca. Loro solo eseguono, come un pianista di piano bar, e non sperate di farli piangere perché piangere non sanno, solo giocare fino all’ultima mossa, fino all'ultima nota. Scacco, ma non è ancora quello decisivo, che dicono sia matto.


E uno è un assassino sordo e l’altro è la sua vittima, ghiotta di lumache.


Se il giorno dopo tornerete sui vostri passi entrate nel ristorante alla francese potrete chiedere l'autografo al mite tenente Colombo e sorridere al suo cane di nome Cane, Colombo non crede né all'inferno né al purgatorio ma ha già scritto nel taccuino il nome dell'assassino.

E' giusto? Non è giusto? Ma così era la vita in una Los Angeles primi anni settanta del secolo scorso, prima del diluvio e ancora bazzicata da Sanford e figlio demente (ocio ciò! che l'ha detto Brunetta), ma per poco ancora prima di lasciare il campo e le strade e le piazze e gli ospedali e le scuole pubbliche, come già le private, a mutanti medievalisti nerovestiti con occhi bianchi e una croce fiammeggiante all'altezza del cuore.

Immagini da The Most Dangerous Match.

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lunedì 25 gennaio 2010

no free dogs (1)

Vi ricordate quei vecchi magici cartoni animati della WB, dove la storia, qualunque essa sia, inizia sempre con un grosso gatto tonto che saltella girando attorno ad un gatto piccoletto, fosco in viso e dagli occhi impazienti? Il gatto piccoletto procede per la sua strada, andante cupo, con i pugni stretti e lo stomaco vuoto. Il gatto grosso non è capace di fare un passo senza chiedere cosa ne pensa il compagno di questo e di quello e di codesto. Tutte le sue frasi sono domande. E tutte le domande terminano - come una invocazione, come una preghiera - con il nome del piccoletto, George. George è il leader, è la mente della coppia, l’altro è la spalla, o meglio il braccio. Talvolta al posto della coppia di felini c’è una coppia di cani, ma le parti non cambiano. Sono due personaggi straordinari, ma legati da un'amicizia che capita di vedere anche nella vita reale. All'inizio della storia deve esserci stata una rissa tra i due, o forse no, forse è bastato lo sguardo magnetico e fosco del piccoletto per definire per sempre i rispettivi ruoli, ruoli che quasi sempre non mutano, a meno che nella storia non si infili un canguro, scambiato per un topo gigante (se i due sono gatti) o una pantera scappata dallo zoo (se i due sono cani). Ecco un esempio di dialogo fra i due:

Lennie gli volse uno sguardo timido:
“George?”
“Eh, che c’è?”
“Dove andiamo, George?”
L’uomo piccolo volse in giù la tesa del cappello e sogguardò torvo Lennie: “Te lo sei già dimenticato, eh? Bisogna che te lo dica un’altra volta, vero? Sangue di dio, che razza di scemo.”
“Ho dimenticato,” disse Lennie sommesso. “Ho cercato di non dimenticare. Davvero ho cercato, George.”
“E va bene. E va bene. Te lo dirò un’altra volta. Sicuro, non ho niente da fare. Posso passare tutto il tempo a dirti le cose e tu le dimentichi, e io debbo ripeterle.”
“Ho cercato davvero,” disse Lennie, “ma non sono riuscito. Dei conigli mi ricordo, George.”


Sorpresa! Il dialogo è copiato dall'inizio di un romanzo breve o racconto lungo (sing) di John Steinbeck, Uomini e topi, (1937) nella traduzione di Cesare Pavese del 1938. Le date sono fatti, non solo in archeologia, i creativi della WB hanno copiato Steinbeck.
E poi quelli della WB fanno tante storie sul (C)!
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domenica 24 gennaio 2010

Bestiario n. 5 (tutti besti liberi tutti)

I put a spell on you
Because you're mine.
You better stop
The things that you're doing
(*)

Come corre il tempo, ieri era appena Natale con panettoni fichi secchi datteri pistacchi noci nocciole noccioline arance e mandarini ed oggi è quasi Pasqua con colombina e ovetto kinder di cioccolato (ché l'estate batte alle porte), già accoliti nerboruti, Ministri senza portafoglio della parola del Signore e prestatori dell’Opera hanno tolto di mano e di forza pennello e secchio dalle mani dell'arcimago locale e via, corrono come il vento sulla mole morta del mondo, corrono come dannati sulle strade del quartiere, numeri dispari a Pippo numeri pari a Paperino, rincorsi da tre chierichetti urlanti e sgomenti, uno con le buste delle offerte, uno con i santini punt'omaggio e il terzo a mo' di ruota di scorta, salgono, gli accoliti, a tre per volta gli scalini di strette umide scale mal'illuminate e di larghi solari scaloni con piante di ficus, scale e scaloni di case e palazzoni della parrocchia, e l’ascensore vuoto salirà sopra i tetti di città. Salgono gli accoliti come cavallette, cicaleggiando con il secchio in una mano il pennello nell’altra e i tre chierichetti svenuti sulle spalle, mentre i parrocchiani in spaurita attesa se ne stanno muti dietro la porta di casa, ma prima di entrare l'omaccione di turno chiederà con voce di basso profondo, Si può?, come dicono è usanza tra i vampiri della Transilvania, come dicono che il tempo sia l'unica cura possibile, fugge il gatto sotto un letto, niente paura non è dracula redivivo è un accolito in pieno amok, non vuole scannare i vecchi e mangiare i bambini ma solo benedire stanze e stanzini cassettoni e comodini, pavimenti di graniglia parquet cotto, credenze e cristalliere e fedi al dito, e certo anche le persone se ci sono, bene sennò fa lo stesso che l'Accolito è in giro libero e selvatico per conto di Dio, insomma qualcosa devono benedire, e tirano fuori per la coda il gatto strillante da sotto il letto, e questo e quello e pure codesto, alé pure il nonno che sta a provare al gabinetto, e via (altra rampa di scale). Qualche don Camillo scaltro preferisce benedire tutti i parrocchiani in una sola volta come fossero un mazzo d’asparagi, benedice tutto il benedicibile dalla cima del campanile, e forse prima sputerà per vedere dove soffia il vento, e il vento… il vento… ah non è ancora il vento di marzo che annuncia la fresca primavera, Morning has broken, like the first morning, Blackbird has spoken, like the first bird, ché siamo, e non pare vero, appena alle soglie della fine del primo mese dell’anno duemiladieci d.C.
Già. E dunque, fedeli parrocchiani anime caritatevoli e pie gianne e marie aspettate qualche settimana ancora prima di chiudervi in cucina ad assodare uova di felici galline come se fosse l’unica cosa che vi resta da fare a questo mondo, oltre sgusciar fave, e che poi vi dimenticate sempre di sgusciarle (le uova, non le fave), che ha da arrivare prima carnevale, e con il carnevale vecchi e bambini hanno, anno dopo anno, da invadere le strade, in libera uscita fuori da bestiari e caravanserragli tutti, lieti danzando tarantelle e tippetappe e cantando liete carole e scarole insalatando.
Loro – i besti – come i barbari di Guccini sanno già la verità, quale non si sa, e calano le maschere e si svestono dei panni che sono soliti portare, escono fuori da usci e da portoni chi evaso da prigione texana, con palla al piede e testa rasa, e chi zorro con i capelli unti con l'olio di oliva, e chi silvio (una via di mezzo via), chi stella filante nel vento e chi coriandolo nell'occhio, chi supernova e chi buco nero, chi zichichi e chi hack, chi cobra e chi biscia, chi gatto di casa e chi cane fuori dalla chiesa, chi faina del bosco riarso e chi rovina fatiscente con misteriosa iscrizione in etruscogrecolatino, Facile, un mi faccio la barba per un mese e un mi cambio le mutande e parlo così, chi silvio sbeffeggiante e chi souvenir del duomo, chi ghiozzo che fa capolino da sotto un sasso e chi borraccino, chi c’ha la barba e si vede pirata barbanera e chi c'ha i baffi e si sente johnnydepp, chi giordano bruno e chi orrenda pira e chi solo sega mentale, chi intestino pigro e chi col corpo sciolto nei panni che è solito portare, C’ho solo questi, maremma sul ciuco, chi scheda bianca alle comunali e chi figlio d’arte terrorista, chi grullo e chi genio e chi una via di mezzo (ancora silvio), chi posseduto dagli spiriti e chi si è bevuto pure lo spirito, chi mangiafuoco e chi mangiapoco, chi orco e chi orchitico, chi opossum e chi stregatto, chi ateo convinto e chi indeciso mistico, chi dio della tempesta e chi solleone di luglio, chi lucertolina al sole e chi farfalla su corno di cervo, chi Ludo e chi Gertrude, chi buffo e chi sbuffante puffo.

E le genti si rinnoveranno dentro come fuori le strade dopo un temporale estivo.

(*)I put a spell on you, Creedence Clearwater Revival (C) 1968
Per i CCR è sempre vera questa riflessione di Mark Twain: I miei libri sono come l'acqua, quelli dei grandi talenti sono vino. Tutti bevono acqua.

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Bestiario n. 4 (tutti mostri, libera tutti)

Libera nos Domine.
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giovedì 21 gennaio 2010

Anabasi di una parola (finale)


Non c’entrerà nulla ma per la cronaca sto abborracciando e in fretta questo post con il sottofondo musicale di vecchie canzoni di Cat Stevens (Lady d'Arbanville, Rubylove, Tuesday's Dead, Morning Has Broken, Bitterblue, Moonshadow, Peace Train, Where do the children play? Hard Headed Woman, Wild World, Sad Lisa, Miles from Nowhere, Into White, Father and Son, Tea for the Tillerman, Angelsea, Ruins, Oh Very Young), perché sono arrivato alla soluzione del mistero dei misteri (critici patentati mangiatevi il fegato con contorno di crescione), e ho le ali ai piedi. Il mistero del post in particolare, il mistero contingente, è perché diavolo quel diavolo di Elio Vittorini non ha tradotto il termine bootlegger dalla frase ecc. E mi sono dato anche una risposta retorica, e cioè che Steinbeck attribuiva a questa parola un significato particolare, ma era solo un modo astuto per presentare un’altra parola che Steinbeck scrive, qualche pagina dopo, in corsivo, amok. A questo punto era inevitabile trovare una connessione tra le due magiche parole. C’era una volta l’America, ma non è non è mai stata l’America "vera", e non era ancora l’America dei film western di Sergio Leone, non era il mito di terza mano di Francesco Guccini, quel mito che svaniva nelle ombre sdraiate nelle immortali sere d’estate, non era neppure l’America di Bud Spencer e Terence Hill, ma c’erano una volta - Italia anni Trenta - due bei tipi, Elio Vittorini e Cesare Pavese, andavano inventando per se stessi soprattutto, e poi per il lettore il mito di una America mai esistita, infinita e deserta, una Terra Promessa più vera di quella inventata un tempo che è solo leggenda dal più grande raccontastorie del mondo (non era Silvio). E forse Melville e Steinbeck hanno scritto veramente romanzi ma non fa testo, chi se ne frega, fa testo quell’Italia di quel tempo là.
Ora, poiché sono fondamentalmente un pigro un ripetitivo e uno smemorato di collegno qui riporto, integralmente, un post scritto l’otto settembre dello scorso anno:

Il mondo magico (*) di Ernesto de Martino (etnologo e allievo di Benedetto Croce) inaugura nel 1948 la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” dell’Editore Einaudi. Per de Martino l’uomo primitivo è continuamente soggetto al rischio di perdere se stesso e di perdersi nel mondo. E’ interessante notare che per il de Martino del Mondo magico “la realtà, anche quella cosmica, è sempre storica, cioè condizionata dal livello della condizione umana. Così, per esempio, gli spiriti esistono per coloro che partecipano a un mondo magico, ma non possono esistere per gli spiritisti dell’Europa contemporanea, perché la nostra storia interdice l’esistenza oggettiva delle anime dei defunti; per conseguenza è oggettivamente possibile ad uno stregone primitivo parlare con i morti, ma la voce dei morti non può esistere per gli spiritisti moderni” (**). Sembra l’idea per la trama di un film comico. Volendo si potrebbe pensare che l’uomo primitivo, per il de Martino, è come un cane portato al guinzaglio che impaurito, da cause per noi risibili, si libera dal collare e guinzaglio (il debole io del primitivo) e fugge fino a sparire all’orizzonte, sordo ai richiami dell’io, salvo poi tornare, svanita la paura, in cerca del padrone (l’io sapiens-sapiens) e come se nulla fosse stato, come se tutto fosse solo un sogno. La magia allora è come l’amore che lega il cane al padrone, ed è più forte del guinzaglio. Ma questo mio pensiero rende troppa grazia alla stramba teoria di Ernesto de Martino.
Teoria che fu attaccata dal Croce, negatore dell’idea che si potesse “cangiare l’idea stessa del cangiamento”, dell'idea eretica - ma no, siamo tutti amici - che si potesse storicizzare le categorie dello spirito (***). Effettivamente è strano (molto strano) che una presenza debole e sempre sul punto di svenire istericamente possa avere la forza di piegare i cucchiaini del caffè con la sola forza bruta del pensiero (anche perché il caffè non era stato ancora inventato in quei tempi bui; forse la cicoria, ma non il caffè). Comunque, passano gli anni, cangiano le mode (de Martino intanto beve la cicuta) ma nel 1959 Italo Calvino scrive Il cavaliere inesistente, e sembra un plagio del Mondo magico. Vedi il personaggio di Gurdulù che si immedesima nelle cose e negli animali, fino a perdersi nelle cose e negli animali. Mangia la zuppa e diventa la zuppa che mangia Gurdulù. Come in una fiaba, cioè come in un incubo, Gurdulù sarà assegnato come scudiero al cavaliere inesistente. Il medioevo per Calvino “era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla […] Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo […] e questo grumo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti […] e – soprattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, anche un uomo che c’è rischia di scomparire, figuriamoci uno che non c’è…” (****).
Pare che anche la leggera scrittura di Calvino porti sulle spalle il fardello dell’idealismo. Nautilus che cambia continuamente casa restando sempre nella stessa casa.

Cos’è questo rischio del soggetto di perdere se stesso e di perdersi nel mondo, o in altre parole, da un altro punto di vista, perché la zuppa di avena vuole mangiare il bambino? Avete letto Calvin & Hobbes? Ok, questa esperienza di un soggetto che si trasforma in oggetto eravamo tutti noi, così è stato per ognuno di noi, quando eravamo gamberottoli e saltellavamo qua e là, come Calvin predato da Hobbes, e combattevamo chi con la purè di patate chi con il porridge chi con gli spinaci cotti.
E quella sensazione di essere un’allodola che vola alta nel cielo imprendibile e che sfida ogni analisi aveva pure un nome e più di uno (certo, nomi inventati dai primitivi per prendere per il culo gli etnologi), probabilmente oggi è una malattia psichica cronica inventata da psicologi per prendersi per il culo. In quel tempo mitico quella malattia si chiamava latah, olon, irkunii, amurak, menkeiti, imu, e amok. I debiti si pagano (prima o poi). Tutti i nodi vengono al pettine. Quel che è fatto sarà reso. Le azioni ricadono sempre su chi le commette. E tra dire e fare c'è di mezzo il mare. Calvino andava plagiando de Martino, e de Martino andava plagiando Steinbeck che non è mai esistito, inventato da Elio Vittorini.
Forse è da lì che dobbiamo prendere le mosse per la soluzione del mistero. Volando con le ali dell’immaginazione vediamo quel mito sbriciolarsi come un castello di sabbia in balia delle onde di un mare cambriano, vediamo una città giocattolo di sassi e ramoscelli nascosta tra le foglie gialle e rosse di un bosco in autunno. I lettori non sanno di essere stati giocati da due veri gangster della parola. Bootlegger, amok sono solo parole magiche, e loro e i lettori giocavano con queste parole e mille altre come il mio cane giocava in autunno con i frutti degli ippocastani. I ricci esplodevano cadendo sul marciapiede bagnato svelando lucidi e duri tesori, che dicono portano fortuna se si conservano per un anno. Facevano un gran baccano i ricci cadendo, a tre o quattro per volta, sui cofani delle auto in sosta. Il mio cane non sapeva di essere ingannato dall'Autunno, era assolutamente convinto che quell’accadimento fosse uno spettacolo straordinario, allestito solo per lui e che sarebbe durato una stagione infinita. Oh very young.


(*) E. de Martino, Il mondo magico (U.S. Boringhieri, 1981)
(**) M. Eliade, Scienza, idealismo e fenomeni paranormali (in Il mondo magico)
(***) B. Croce, Intorno al magismo come età storica (in Il mondo magico)
(****) Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959
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martedì 19 gennaio 2010

Bestiario n. 3 (Ludo)


Forse da qualche parte, o nel profondo mondo di Internet, è già stato scritto che da una qualunque wunderkammer si può uscire se si scopre al suo interno un “bestiario”, o forse no, non è mai stato scritto né detto né e va da sé (come il moto perpetuo) pensato. E tuttavia è indubitabile la connessione tra wunderkammer e bestiario, se si traduce, con un po' di equilibrismo sul filo, la parola "wunderkammer" in "labirinto". E il labirinto è per definizione il palazzo cretese di Minosse dove, imprigionato al suo centro, era in agguato il Minotauro (bestiario e bestio allo stesso tempo). E cos’è il labirinto cretese se non la razionalizzazione della caverna, luogo per eccellenza delle meraviglie, in fondo alle caverne pitture di animali attendevano il visitatore per meravigliarlo e spaventarlo.
Caverna, tela di ragno, ricerca di un centro, viaggio iniziatico e più che altro fisico alla volta della Terra Santa sulle strade labirintiche del mondo, tra mille meraviglie e mille mostri in agguato, ma talvolta, per i pigri e troppo indaffarati borghesi della parrocchia che si scaldavano i piedi al sacro (sacer?) fuoco della beneficenza, era il labirinto inciso sul pavimento delle cattedrali il surrogato - la ciofeca - del "viaggio reale" (sudore e sangue del prossimo tuo e istantanee per l'Eterno, olé).
Il labirinto è caos che sogna l’ordine (l'ordine, ovviamente, delle wunderkammern), ricerca del centro, del nocciolo delle cose. Ma non esistono mappe, non esistono nomi. Le strade non hanno nomi. Non esistono procedure per toccare il centro del labirinto: “La via non ha un nome; la Via che ha un nome non è la vera via” (Tao Te Ching). La via per toccare il centro del labirinto (il centro della Terra) non è la stessa per andare in Centro o per girare con il carrello tra gli scaffali della Coop, o forse sì.

Ed ecco il protagonista del post, nell’immagine in alto (*), un grosso bestio dal pelo rosso e dall’aspetto vagamente mostruoso (causa forse la mandibola leggermente prognata) ma dal cuore fedele di cane. Il bestio è la chiave per uscire dal labirinto, dunque per uscire da tutte le wunderkammern del mondo.
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(*) Labyrinth, con David Bowie e Jennifer Connelly
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domenica 17 gennaio 2010

Bestiario n. 2 (Gertrude)

Un sera di settembre dello scorso anno ho definito un particolare tipo di wunderkammer come la camera delle necessità appagate . C’è un tale che entra in una stanza con una necessità in testa, afferra visivamente il contenuto della stanza, e subito esulta in esclamazioni di meraviglia e zompi pindarici, perché lì in quella stanza, in quella piccola porzione dell’ecumene, ovvero là in quella minima porzione della parte non acquorea del globo terrestre il tizio ha trovato la più completa ed esaustiva soddisfazione alla sua necessità, qualunque essa sia, non c’interessa adesso scendere in particolari contingenti.
E una mattina di domenica, sempre del mese di settembre dell'anno 2009, ho dimostrato che all’interno dell’insieme delle camere delle necessità appagate si trova un insieme W'' di elementi w'' che, pur non avendo l’aspetto e la forma canonica di stanze, sono recipienti, contenitori, scatole o piani di appoggio di manufatti strambi e esotici reperti naturali, e, infine, ho dimostrato che all’interno di una scatola o cassetto w'' esiste almeno un insieme W''', universalmente noto come aula della meraviglia dubitativa.
Fermo restando che una qualsiasi wunderkammer non è mai un insieme frattale , e poiché da un elemento w''' qualunque, ce ne possiamo uscire dalla finestra - se l’aula si trova al pianoterra - e andare a spasso per Boboli, ché mica siamo prigionieri di un frattale (come già scritto), ma solo di una routine (volendo si può usare anche il Ctrl-Alt-Del), mi resta solo da dimostrare: 1. che il mondo è sorretto dalla provvidenza divina; 2. che da un elemento w''' qualunque noi possiamo uscire chiamando in nostro soccorso un bestiario, sempre se presente in prossimità di w''', cioè sul confine di W'''. Cosa dimostro? Per ora il n. 2.


Ma prima, tanto per chiarire il senso di ciò che può fare una stanza normale ad una persona relativamente sana di mente, ripresentiamo il professor Oliver Lindenbrook, titolare della cattedra di Geologia applicata alla ricerca di una via per toccare il centro della Terra, dell’università di Edimburgo, intorno l’anno di grazia 1880 (così nel film, nel romanzo di Verne, Viaggio al centro della Terra, il prof si chiama Otto Lidenbrock e vive ad Amburgo, intorno alla metà del secolo Ottocento). Ecco il prof, a destra nell'immagine a sinistra, accanto al suo allievo e assistente Alec McEwen (nel romanzo si chiama Alex Lidenbrock). I due tapini sono stati randellati e scaraventati dentro un magazzino di piume d’oca, forse da un tirapiedi al soldo dell’eminente ladro professor Goetaborg di Stoccolma.
Il deposito di piume d’oca è indubbiamente una wunderkammer, infatti, chi non si meraviglierebbe nel rinvenire, dopo aver preso una randellata in testa, chiuso dentro un deposito di piume d’oca, situato nell’estrema periferia di Reykjavik (è talmente scontata la risposta che non metto neppure il punto interrogativo alla domanda). Dirò di più, chi non desidererebbe trovare subito una via di fuga e liberarsi da quest’angoscia esistenziale di sentirsi come un ghiozzo sotto un sasso, che le piume d’oca forse hanno un senso se raccolte e contenute in materassi e cuscini e non accumulate sul pavimento. Dunque, non solo il deposito è una camera delle meraviglie, ma è un elemento w''' del sottoinsieme W'''. Ok, se dimostro che da una camera delle meraviglie w''' si può uscire con l’aiuto di un bestiario, allora, e se la logica non è una gazzosa, la dimostrazione sarà valida per ogni elemento w.

E’ maschio o femmina?, tipica domanda che il titolare di cane porge ad altro titolare di cane, mai visto prima, intanto che i due si guardano, si annusano alla lontana, e tirano disperati i guinzagli, alla disperata ricerca di un contatto, qualunque esso sia. E nonostante che l’anello di re Salomone non sia mai stato ritrovato, forse finito in bocca a un salmone, c’è chi insiste, duro e capatosta, a scandagliare in lungo e in largo l’intero universo o almeno parte della Via Lattea, alla ricerca di un segnale di vita aliena e intelligente (un tap tap tip tap tap). Anche se nell’improbabile ma non impossibile contatto con qualche specie di alieni, noi esseri umani tutti avremo a che fare con esseri pensanti (e già questo ci dovrebbe far pensare) che hanno meno in comune con noi di quanto noi abbiamo in comune con un moscerino della frutta, perché con i moscerini della frutta abbiamo, almeno, la mela di Eva in comune, oltre ad una parte del DNA. E se non abbiamo niente in comune, se non abbiamo mai mangiato la pappa assieme, manco bevuto un cappuccino al bar, di cosa mai parleremo con gli alieni? Della transubstanziazione del pane e del vino? Meglio, molto meglio, tacere sorridendo come micchi, simulando una parvenza di intelligenza empatica.
Ma un prof è un prof. Non può tacere e sorridere come un pacifico micco, deve fare domande, è scritto a lettere di fuoco nel suo DNA, come nel DNA del moscerino della frutta c’è l’insopprimibile, infinita necessità, di svollazzare gaiamente su una fruttiera colma di frutta matura e quasi andata, E’ alla frutta, come dicono i medici di famiglia pietosi, il moscerino, così un professor bennato e concorsato alla lavagna ESIGE risposte giuste ed articolate, capace, in caso di rifiuto, il professore di togliersi una scarpa e batterla sul tavolo a mo' di martello o di afferrare l’ascia in dotazione alla classe (in caso di emergenza rompere il vetro) e con il legno della cattedra fare un po’ di sano bricolage in stile mastro Geppetto. Dunque, dov’ero rimasto? Ah sì, il professor Oliver Lindenbrook sente una sorta di picchiettare affannato che proviene da dietro un tramezzo di legno, Zitto hai sentito? dei colpi. Colpi ritmici che sembrano causati dal becco di un ornitorinco o forse, chissà, di un'anatra, ma più probabilmente da una penna stilografica. Il professore deduce che dall’altra parte del tramezzo c’è un altro prigioniero in catene, sicuramente un esimio collega e non solo di sventura (vedi la penna stilografica), uno sventurato cui il Nemico nei panni del massimo esperto di sassi l'autoctono di Stoccolma, o nei cenci smessi di un suo accolito locale, ha probabilmente mozzata la lingua, poiché comunica con un codice. Morse? Ma il codice non ha alcun senso, querula l’assistente e allievo, e il professore neppure gli risponde, esplicitiamo per lui che un codice ha senso solo se si scopre la chiave di lettura altrimenti è solo un picchiettare contro un tramezzo di legno (zitto lettore astioso! Sì, potrebbe anche essere una parete portante, orsù non speculiamo sulla pula ma solo sul grano). Forse è un islandese, insiste sul querulo andante il buon vecchio Alex, ma il professore vola alto come un condor, come un'allodola, come un moscon d'oro, e sebbene non conosca una parola una in islandese, giustamente dubita, Non mi pare.
Ecco che finalmente il professore si decide ad imitare il collega e bussa alla parete, toc toc toc. Al che il prigioniero di Zenda interrompe per qualche istante il suo frenetico picchiettare contro il tramezzo, il suo cieco lavoro da alveare, alza la testa e porge orecchio (e anche un occhio)…



…e il professore esulta e zompa in aria, Abbiamo stabilito un contatto! Mio esimio amico, chiunque lei sia, lasci che mi presenti. Sono il professor Oliver Lindenbrook dell’università di Edimburgo – tap tap tip tap tap – Le dispiace smettere di battere per un attimo, e ascoltarmi? - tap tap tip tap tap – In quale lingua preferisce comunicare? Il professore tenta di comunicare con il muto disgraziato, prima prova con la lingua di Robespierre e poi con il russo, quasi sbigottito dell’ignoranza del suo collega - oramai solo in sventura - e forse rimembrando l’infanzia, quel tempo dorato quando allontanava da sé la scodella di porridge della mamma (il porridge è un semplice piatto preparato facendo bollire l'avena in acqua, latte o entrambi), e guardava su Canale 5 Don Camillo, tenta la carta del disperato, parlare in latino, che forse il silente carcerato è un prete, o forse un pastore, o forse un terribile monaco tedesco, o forse Mario Capanna. Ma dall’altra parte della parete sopraggiunge trafelato un giovanotto alto biondo e con un dente d’oro, invocante una certa Ghertrud, e il mistero è presto chiarito e si dissolve come nebbia al sole.


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sabato 16 gennaio 2010

Bestiario n.1 (l’uomo nero imbalsamato)


L'immagine di un “perplesso” astronauta Taylor, con tanto di collare, ma privo del guinzaglio (sfuggito dalle grinfie del gorillone tonto sorvegliante nello zoo cittadino), bloccato per sempre in un frame mentre osserva uno dei suoi tre ex compagni di navigazione sull’astronave, trasformato in cosa non si sa (faranno tutti e tre una brutta fine i compagni di Taylor, il primo, una donna eletta per la bellezza, e forse intelligenza, alla procreazione assistita a turno dai 3, è già una mummia incartapecorita ancor prima di arrivare sul pianeta, poi c’è questa cosa, e infine il terzo che sognava giorni di gloria, è un povero spettro lobotomizzato cui il chirurgo ha tolto per sempre la facoltà di comporre un pensiero in parole o di fare cucù dietro la finestra di un manicomio), manichino di cera o calco di gesso, un uomo nero imbalsamato per il divertimento domenicale delle scimmie grandi e piccine, condotte per mano le piccine, nella visita del museo zoologico della cittadina delle scimmie, dove un tempo - un tempo che è solo leggenda - esisteva una sterminata metropoli d’umani, prima del diluvio, quando ancora la metropoli era bazzicata dal vecchio rigattiere Fred Sanford e da suo figlio Lamont, prima che lasciassero il campo e le strade e le piazze e gli ospedali e i ponti e i negozi, bar, case, scuole, ecc. a nerovestiti mutanti medievalisti con occhiali neri e occhi bianchi, ebbene, questa immagine mi conduce a postare due riflessioni e una rifrazione.



Prima riflessione. Chi è il bestiario qui? E’ il gorillone tonto dello zoo (ricordo che il bestiario era anche un tizio che aveva cura delle fiere) o è l’uomo nero imbalsamato con due biglie di vetro bianco al posto degli occhi?



Seconda riflessione. Perché Taylor è perplesso? Forse è colto da un deja vu, percezione di un futuro alternativo, dove avrà da combattere contro medievalisti con gli occhi bianchi.

E poi la rifrazione. La legge della rifrazione afferma che il raggio di luce rifratto, il raggio incidente e la normale alla superficie rifrangente appartengono allo stesso piano. Qui la luce è sostituita da un proiettile sparato da un gorilla facente funzioni di poliziotto, materializzatosi improvvisamente alle spalle di Taylor, e che nel mirare Taylor ha centrato la nuca dell’uomo nero imbalsamato. Dalle tre immagini non si riesce a capire se Taylor chiuda gli occhi per l’orrore della visione di un Vladimir Lenin nero imbalsamato o più prosaicamente per proteggerli dalla polvere bianca di gesso.

domenica 10 gennaio 2010

Anabasi di una parola (III)

Nel leggere questo libro che sta qui aperto sul tavolo, ed è un capolavoro della letteratura americana del Novecento, intitolato “Pian della Tortilla”, nella classica (e forse unica) traduzione fatta da quel maestro del pensiero del novecento italiano che era Elio Vittorini, mi sono incagliato in una parola misteriosa, caduta quasi per caso sotto la lente di ingrandimento del mio occhio anabasilico. Ecco il breve paragrafo, estrapolato dal capitolo XV, con la misteriosa parola in grassetto e colorata in rosso:

Di rado la faccia di Torrelli dava mostra di un sentimento che non fosse sospetto o ira. Nella sua qualità di bootlegger, e nei suoi rapporti con la gente di Pian della Tortilla era sempre sospetto o ira, ira o sospetto che trovava esca nel suo cuore. E la sua faccia ne prendeva subito nota.

Bootlegger! chi era costui? Non ho ancora cercato la parola misteriosa su Google, né su Wikipedia, invece ho cercato conforto nell’aggiornato e nuovo Dizionario Inglese – Italiano, e Italiano – Inglese, di Mario Hazon, ho cercato la parola misteriosa… boomerang, 1. boomerang, 2. azione che ricade su chi la commette, boot, stivale, to boot, 1. mettere gli stivali a 2. essere di vantaggio: what boots it to weep?, a che serve piangere?, bootee, stivaletto per donna, scarpetta di lana per bambini, booth, baracca, capanna; ecco to bootleg, (amer.) fare il contrabbandiere di bevande alcooliche, bootlegger, contrabbandiere di bevande alcooliche (Torrelli fa anche lo spacciatore di bevande alcooliche), e leg si traduce in gamba, to leg, camminare in fretta, correre.
Esaminando la parola con la lente d’ingrandimento si nota subito che bootlegger inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, b, proprio come la parola Babele, B, dunque, se la logica non è acqua, sarà sufficiente ai nostri fini ricapitolare il mito della torre di Babele per chiarire il significato della parola bootlegger. Babele deriverebbe dall’ebraico balal, “confondere”, con cui si collega Babel, “confusione”. Ora, tutti hanno letto la Bibbia a scuola (anche i cattolici), e tutti sanno a memoria la Genesi, e in particolare XI. 1-9, in ogni modo per non saper né leggere né scrivere io riassumo di seguito il contenuto per quel lettore astioso che proprio quel giorno era rimasto a casa, forse con gli orecchioni o il tifo o l’influenza suina o il catarro da nicotina o il mal di denti o per il troppo sonno o per il troppo freddo o per il troppo caldo, perché il professore era lo stesso andato avanti con il programma, la testa china sul sacro testo, giacché gli scrutini erano alle porte coi sassi e le circolari incalzavano e giravano per i piani e per le valli e le verdi colline, portate dai bidelli con i pattini a rotelle, perché poteva cadere il mondo ma la scuola era cosa troppo seria per fermarsi, fosse solo per mezza giornata. Ebbene, c’era una volta un popolo così unito e compatto, formato da persone così unite e compatte, quasi dei parrocchiani (quasi), che era impossibile infilare uno stecchino tra l’uno e l’altro, senza infilarlo in un occhio di Gianni o in un orecchio di Ermenegilda; tanto per capire, quando si facevano una foto ricordo, ovviamente di gruppo, mai che si mettessero davanti i piccolini, e dietro i grandicelli, ma stavano tutti ammassati davanti all’obiettivo dello sconsolato fotografo, come una palla amorfa di pongo di mille colori, dicendo tutti, in coro, cheeeese… (e mescolato nel pongo c'era sempre un bambino pongo che chiedeva alla mamma pongo, ma' kome mai si dice cheese x sorridere?), e avevano le genti un medesimo idioma, ed usavano le genti le stesse parole quotidiane, pace amore ordine transubstanziazione, e un bel giorno, alle nove di un mattino di luglio, migrarono le genti da una zona dell’ecumene situata ad oriente della torre di Babele, futura torre di Babele, al di là delle verdi colline, e al di qua tirarono un grosso sospiro di sollievo i conigli tutti stropicciati e allungarono le code gli opossum beati e vi si appesero a testa in giù, quando finalmente li videro sparire tutti in una volta, in una massa compatta di pongo dai mille colori, al di là delle verdi colline. Ebbene (sì, maledetto Carter?), si trovarono le genti una calda sera di fine luglio tutte ammassate davanti a un grosso buco quadrato per terra, e non sapevano che fare, non sapevano cosa inventare, solo si guardavano l'un l'altro, le mani in mano, finalmente uno del mucchio, forse perché sentiva un pochettino di caldo (ma non più di tanto), tossicchiò educatamente, come usavano fare, un tempo, le pecore inglesi nei romanzi di Wodehouse, quando gli andava di traverso un filo d’erba, e avanzò un timido suggerimento, Suvvia, fabbrichiamo dei mattoni e cuociamoli col fuoco. E via, il più era fatto, quando si ritrovarono di nuovo tutti compatti davanti a una montagna di mattoni cotti e a un truogolo colmo di bitume, e non sapevano che fare, e non sapevano cosa inventare, le mani in mano, la pecorella di prima tossicchiò sputando un filo d’erba, Ecco, costruiamoci una città ed una torre con la cima fino al cielo, fabbrichiamoci così un segnacolo di unione, altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra. Fa che non sia mai!!! In quattr’e quattr’otto (c’era anche una prof di mate, con i capelli rossi, nel pongo) erano già lì che mettevano i doppi vetri alle finestre della torre di Babele, masticando stucco come criceti. Ma l’Altissimo, che a quei tempi era un vero gangster, fratello germano del dio dei temporali estivi, scende subito giù in picchiata dalle nuvole bianche per dare un’occhiata in giro. Eccolo nel cantiere, le mani dietro la schiena canticchia Who’ll Stop the Rain, fa il finto tonto, e dietro gli zampetta scalzo un ragazzino dall’aspetto scemo, abilissimo suonatore autodidatta di banjo. E si fa brutto in viso, leva le mani al cielo, le nuvole cangiano in nero, e dice, Ecco, essi sono un popolo solo ed hanno tutti un medesimo idioma, or dunque, confondiamo il loro linguaggio, in modo che uno non intenda l’accento del suo vicino. Detto fatto. E i poveri grulli, che non avevano mica inventato ancora l’ombrello, correvano qua e là tra i fulmini e le saette parandosi la testa chi con il Giornale di Montanelli chi con il Giornale di Feltri chi invocando solo Fede. Urlano le genti frasi incomprensibili come se avessero chi una patata in bocca chi l’erre moscia chi la lingua blesa, e chi piange in greco e chi bestemmia in latino, chi filosofeggia in aramaico e chi cazzeggia in genovese antico, insomma non era nato ancora Laurence Olivier e nessuno capiva che avesse da cianciare l'orrido e alieno vicino di casa, e tutti si scansavano, si davano del lei, del voi, un vecchio della prima cerchia andava in giro battendo le mani sconsolato, O che ha Ella?, e si guardavano con sospetto, con ira e con rancore e qualcuno arrivò ad orripilare i peli sulla schiena e, infine, si dispersero blaterando barbaricamente mille lingue barbariche sulla faccia della terra, facendosi largo a gomitate. E i conigli smisero di rincorrersi sulle verdi colline e si rintanarono sospirando pazienti nelle tane, e gli opossum si rattrappirono a guisa di palla.

Ed ecco un pezzettino di pongo, di nome Danny, correre nudo per i boschi come una bestia selvaggia, rubare bottiglie di grappa e sacchi di patate, picchiare i vecchi, mungere la capra della signora Palochico, azzuffarsi con cinque soldati, rompere i vetri delle finestre, insultare la moglie sculacciare la figlia e prendere a calci il cane del Torrelli, e in pieno amok, arrivare a rubare perfino le scarpe a un amico.
Ed ecco un altro pezzettino di pongo, di nome Torrelli e di professione bootlegger, con un pezzo di carta sgualcita e scarabocchiata in tasca (la prova che Danny gli ha venduto la casa per venticinque dollari la sera prima), eccolo che se ne va lungo la strada, con un sorriso alla Mefisto a fior di labbra, eccolo incedere come il fato alla volta della casa degli amici di Danny, Io spazzerò via questa pestilenza degli amici di Danny… Ah, come li getterò in mezzo alla strada! Rospi, pidocchi, mosche cavalline!… Sapranno che Torrelli ha trionfato...

Bene, arrivato alla fine del post cosa ho dimostrato? Che un opossum non può fare il bootlegger.

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sabato 9 gennaio 2010

Bestiario (patetico bootstrap)

Isole
isole
isole dove non metteremo mai piede
isole dove non scenderemo mai
isole coperte di vegetazione
isole acquattate come giaguari
isole mute
isole immobili
isole indimenticabili e senza nome
getto le scarpe fuori bordo perché vorrei tanto
venire fin lì.
Blaise Cendrars, Fogli di viaggio

Cos’è un bestiario? qui Wikipedia aggiunge una parola in latino, e allora qui ci starebbe bene quel terribile monaco tedesco, se ne andava in giro con una scintilla nell'anima, e camminando guardava le pozzanghere sulla strada, immaginava lucidi specchi immersi in catinelle piene d'acqua riflettere il sole d'agosto, e dalla casa alla chiesa pensava una paroletta in latino e poi da quella partiva, con un sermone di due ore e mezza (anche tre, quando era particolarmente divertito, in altre parole "in vena"), in tedesco (no, non è il nostro amato pontefice), e dicono andasse così inventando una lingua dalle fondamenta; il monaco sognava di tornare a vivere, un giorno, in un luogo, quasi un'isola di pagani dei mari del sud, là dove l'angelo e la mosca e l'anima sono uguali, là dove stava e voleva quello che era, ed era quel che voleva, tutti liberi da Dio; e i fedeli, alla fine del sermone, chi saltava in aria chi batteva i piedi per terra chi parlava tutte le lingue del mondo chi piangeva chi rideva chi gridava, Siamo stati accecati dalla luce liberi come il peccato fuggitivi verso le isole dei mari del sud - tremavano i muri della chiesa, tremavano le fondamenta della Chiesa - e tutti lo imploravano di continuare e gli chiedevano ancora un bis (voi sarete testimoni di tutto ciò, perché non resterà neppure un nastro pirata, bootleggers, roll your tapes!), e chi nulla.
Niente, il bestiario era un tizio che aveva cura delle fiere, sing; era una persona che lavorava nel circo, ahimé; era però, il bestiario, anche un libro, alé, una raccolta, un catalogo di animali strani, esotici, ma impossibili da vedere, annusare, leccare, toccare, inimmaginabili ed indescrivibili come dicono siano gli alieni, essi si potevano solo sentire con il senso del prodigio, spirit of wonder, per esempio (e scusate la patetica banalità dell'esempio) camminando soli soletti in un bosco oscuro.
E il bestiario era il cugino anziano e canuto, e di secondo grado, della wunderkammer, infatti, il bestiario era un tentativo quasi disperato di uscire dalle sabbie mobili della realtà quotidiana afferrandosi alle stringhe degli stivali (a quei tempi, o si andava scalzi o si calzavano stivali, ok?), invece la wunderkammer era una spezia semi svanita, coriandoli del sahara conservati in una bottiglia di coca-cola, aeroplanino di barattoli di latte nestle in polvere, assemblato dal nomade della tenda nera e venduto al turista neroabbronzato come un barattolo di nutella, quasi cosa quotidiana come l'erba e i sassi, era ricca raccolta fallimentare di “cose strambe ed esotiche”, raccolte e catalogate da gente strana e annoiata, collezionisti che non avevano mai comprato un biglietto per l’ottovolante, che non avevano mai varcato la grande soglia salata, solo aspettavano, alla finestra, i marinai con la sacca piena di tesori di fondi di bottiglia e denti di squalo e avorio e biglie colorate. E la wunderkammer esigeva un pubblico tonto, educato all’applauso, scusate: berlusconiano, o almeno un visitatore tordo, la bocca spalancata di meraviglia per questo, per quello e per codesto, e invece il bestiario era la soffitta disabitata da spettri incapaci a parlare.

Un esempio moderno di wunderkammer è il Voyager Golden Record, un disco fonografico inserito nelle due navicelle Voyager, lanciate nel 1977, e contenente suoni naturali e umani (per esempio il suono di un treno che passa accanto a un passaggio a livello), brani musicali, una breve frase di saluto in 55 lingue e 115 immagini (insieme al disco fu inserita nella navetta anche una testina di lettura e le istruzioni per l’uso, scritte in geroglifico).
Un esempio moderno di bestiario sarebbe l’ipotetico alieno che dovrebbe aprire con l’apriscatole quella scatola delle meraviglie, e meravigliarsi un poco.

Chiudo il post, con l’avviso al lettore che questo è il primo di una serie di molti, o zichichianamente scrivendo, MOLTI post, dedicati alla descrizione visuale di strane bestie, e ce ne sono al mondo TANTE, con esempi dal cinema, dalla letteratura, dal fumetto e dai cartoni animati, come farfalle, topi, lucertole, balene bianche, lumache e aringhe di Terranova.
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mercoledì 6 gennaio 2010

Anabasi di una parola (II)

- Ci racconti una storia, professore.
- Sì, sì, professore. Una storia di fantasmi. (*)


Scusate l'ardire. Siete i passeggeri del tram otto barrato rosso (niente panico, non sono io l'autista). Ora, fare la lista delle persone imbottigliate in questo tram che gira e gira convulsamente per i viali e le viottole di una città attanagliata da un traffico convulso e acefalo, come una formica che giunta con la lingua fuori e quasi alla meta si accorge, la scervellata, di aver perso il suo bagaglio (una briciola di ciocorì), e lo cerca disperata e invano, in giro in giro, allontanandosi sempre più dal formicaio… chi glielo dirà alla piccola fuggitiva che una sua improvvida collega, pensando pure di fargli un piacere, ha pensato bene di prendere il ciocorì smarrito e portarlo in dono alla regina del formicaio? ricordate quel film di serie B dove gli insetti avevano imparato a scrivere (ma, stranamente, non a parlare), forse dissetandosi alle acque di una sorgente freatica, inquinata da un meteorite, ovvero ciò che rimane dopo l'ablazione atmosferica di un meteoroide, si disponevano, gli insetti, con arte e parte, in modo da formare caratteri alfanumerici (utile, se si dimentica una password, però può provocare infarto al miocardio al vecchio sabbatico panchinaro fissato ad osservare, triste, laboriose formiche che si agitano ai suoi piedi, le laboriose un bel giorno potrebbero decidere un point break, e chiedergli, o grullo! ma non hai niente di meglio da fare?), ecco, se avete afferrata per un orecchio la logica stringente del mio ragionamento, fare la lista delle persone è superfluo, giacché l’ho già fatto, e per ben due volte. Insistere sarebbe una forma molesta di manierismo (mica sono po'torno).
Ma vorrei focalizzare la vostra attenzione, tra i passeggeri dell'otto barrato rosso, in particolare su una ragazza carina con gli occhi verdi, lei parla e gesticola in modo assai articolato, direi partenopeo, e se guardate attentamente vi accorgerete dell’auricolare che s’intravede tra i capelli neri, e svela l’arcano mistero di una conversazione all’apparenza solitaria.
E se la ragazza, sola e soletta in una stanza, parlasse al telefono gesticolerebbe? probabilmente sì, se in quella stanza ci fosse uno specchio.

Certi antropologi e archeologi preistorici ipotizzano, giocando a scarabeo e all'indovinalo grillo, che il linguaggio umano si sia sviluppato dai gesti (vedi Wikipedia), è la famosa Teoria dei Gesti, e avanzano come possibile spiegazione per il passaggio della trasmissione d’informazioni dalle mani alla bocca, che ad un certo punto della storia gli esseri umani “cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare”, inoltre la “gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro” (sempre da Wikipedia).
Chissà perché ma quando leggo le ipotesi e le congetture di certi antropologi e archeologi preistorici mi viene in mente una pagina esemplare di un fumetto, considerata la sua importanza, ne riporto il testo:

D’improvviso, per la fretta infrangendo l’etichetta, viene avanti come un razzo una dama di palazzo…
– Maestà! Maestà! Un furto è stato perpetrato! Ho effettuato poco fa il quotidiano controllo ai capi di biancheria affidati alla mia custodia…
- Ebbene?
- Le regali lenzuola per i regali letti a due piazze non sono più 432, ma 431!
- Gasp… Un lenzuolo di meno!
- Eh…eh… non è il caso di drammatizzare! Qualche valletto o qualche ancella avrà usato il lenzuolo per soffiarsi il naso, dimenticando poi di rimetterlo a posto!
- Taci, Paperin-Amleto! La tua superficialità mi disgusta!
(*)

Plinio il Vecchio, e chi altri, attribuisce l’invenzione della pittura a una ragazza di Corinto, «la quale presa d’amore per un giovane, e dovendo questi partire, alla luce di una lanterna fissò con delle linee il contorno dell’ombra del viso di lui» (Storia naturale, XXXV, 15), e Leonardo da Vinci, nel Trattato della Pittura, scrive che «la prima pittura fu sol di una linea, la quale circondava l'ombra dell'uomo fatta dal sole ne' muri» (Trattato della Pittura, I, 2, 126). Se lo scrive Plinio il Vecchio ancora ancora, ma se lo scrive Leonardo da Vinci allora sarà il caso di crederci. Insomma, la ragazza di Corinto si sarà interrogata sul senso e il nonsense della vita, dell'universo e del vecchio di Forlì, e invece di pregare santi e sciamani - che pensavano solo a far piovere - aveva preferito tenersi un souvenir... C’erano una volta una mela, un'arancia e una pera, certo anche Stanlio e Ollio, ma soprattutto, in illo tempore, c'erano impressioni nell'anima del mondo, e poi allontanamenti, separazioni, lacerazioni, causarono l'invenzione di un segno per ricordare e segnare lo spazio amorfo, delimitando una trama, un disegno, uno straccio di storia, che proprio perché storia (una cosa che non esiste e ha un inizio, una fine ed un fine) è un’invenzione fantastica. Così è nato il linguaggio dal romance (e le sue varie e variegate forme, l’arte, la religione, l’astrologia - guardate come hanno unito stelle lontane e ne hanno fatto un disegno per grulli e bambini - e la Scienza, l'ordinatrice del caos). E finalmente, dopo un'uggiosa domenica di pioggia, nel bosco sono spuntati i funghi e i contabili, che hanno inventato la scrittura (i contabili, non i funghi). Facendo piangere i filosofi, e prosperare i rivenditori di cicuta.

Anche seri e seriosi scienziati, mica antropologi e archeologi preistorici (nell'immagine vedi due
esemplari di membri della comunità scientifica), si affannano e sudano nel ricordare che siamo tutti, belli brutti uomini donne trans animali piante e anche i sassi, se è per questo, solo e soltanto nubi di elettroni che danzano in uno spazio buio (la luce? una primordiale convenzione ottica). Dunque alla domanda, è nato prima il linguaggio o il pensiero, si risponde che è nata prima la luce, da qualche parte sulla Terra, dove non lo sa nessuno, in quel segmento della Storia che noi esseri umani abbiamo chiamato e delimitato con una parola, Cambriano.

Il prossimo post avrà come meta la mitica torre di Babele.


(*) J. Joyce, Ulisse (Oscar Mondadori, 1989)
(*) Paperino Principe di Dunimarca, 1960





domenica 3 gennaio 2010

Anabasi di una parola (I)

cercando di imparare e usare le parole, e ogni tentativo
è un ripartire da capo, e un tipo diverso di fallimento.
(*)


Nel leggere questo libro che sta qui aperto sul tavolo, ed è un capolavoro della letteratura americana del Novecento, intitolato Pian della Tortilla, nella classica traduzione fatta da quel maestro del pensiero del novecento italiano che era Elio Vittorini, sono incappato ‘sta volta non in una frase misteriosa ma in una parola misteriosa, caduta quasi per caso sotto la lente di ingrandimento del mio occhio anabasilico (dunque faccio progressi nell’arte della contemplazione della pagina a stampa). Ecco la frase con la parola misteriosa colorata in blu:

Di rado la faccia di Torrelli dava mostra di un sentimento che non fosse sospetto o ira. Nella sua qualità di bootlegger, e nei suoi rapporti con la gente di Pian della Tortilla era sempre sospetto o ira, ira o sospetto che trovava esca nel suo cuore. E la sua faccia ne prendeva subito nota (*).

Bootlegger! chi era costui? Non ho cercato la parola misteriosa su Google, né su Wikipedia, ergo il mistero rimane intatto.
Nell’aggiornato e nuovo Dizionario Inglese – Italiano, e Italiano – Inglese, di Mario Hazon, cerco la parola misteriosa… boomerang, 1. boomerang, 2. azione che ricade su chi la commette, boot, stivale, to boot, 1. mettere gli stivali a 2. essere di vantaggio: what boots it to weep?, a che serve piangere?, bootee, stivaletto per donna, scarpetta di lana per bambini, booth, baracca, capanna; ecco to bootleg, (amer.) fare il contrabbandiere di bevande alcooliche, bootlegger, contrabbandiere di bevande alcooliche (Torrelli fa anche lo spacciatore di bevande alcooliche), e leg si traduce in gamba, to leg, camminare in fretta, correre. Curioso, nella pagina accanto trovo Leghorn, Livorno, ma anche cappello di paglia di Firenze, e pure gallina livornese. Vedi i turisti americani dell’Ottocento, attraversare l’Atlantico con il bastimento, per venire a Firenze a comprare il mitico cappello di paglia, tipico prodotto dell’artigianato fiorentino di un tempo che fu, ma sbagliare città e tornare a casa, un po’ perplessi, con una gallina al guinzaglio.
Ma perché Elio (il Vittorini) non ha tradotto questa parola? Forse che al tempo della sua traduzione, già quale tempo? forse il tempo della giovinezza di don Camillo e Peppone e del pollo alla creta del Bergassi, come lo faceva la povera Tesorina... quando, con il martello, si apriva quello scrigno…, ma era bootlegger parola così ovvia e scontata in Italia, a quei tempi, che cercare un'equivalente (o equipollente?) parola italiana sarebbe stato semplicemente ridicolo, una farsa, come voler tradurre, nell’Ottocento, leghorn ai fiorentini o ancora leghorn ai livornesi (pare che leghorn fosse parola ondivaga), o nel Novecento tradurre computer come elaboratore elettronico. Via, da stendere sull'aia a zampe all’aria, secca dalle risate, la gallina livornese di Elio.
O forse che Steinbeck attribuiva alla parola un recondito significato e di quel significato ne era incantato? Penso di no, che l’avrebbe scritta in corsivo, la parola, un modo come un altro per dire al traduttore italiano oh, questa parola non la devi mica tradurre; e, infatti, qualche pagina più in là, si legge amok, così in corsivo, e mica la traduce amok il nostro Elio, e proprio perché è scritta in corsivo! Comunque c’è questo oste della malora e del contrabbando, e di corsa per le strade polverose di Pian della Tortilla e con una faccia al tornasole, incapace di imbottigliare i sentimenti per il prossimo e serbarli per l’anno che verrà, come il gatto con gli stivali della favola.

Ora, di qualche mistero alla fine si arriva alla soluzione; tutti sanno, ed è stato lo stesso rocker a denunciarlo, alla fine e dopo anni di angoscia esistenziale, ricalcando, per certi versi, quali non so, le orme del suo collega, il famoso scrittore, di cui ora mi sfugge il nome, sì insomma quel tedesco del tamburino, che, cosa?, dove, chiudo la frase, in qualche modo, Bruce Springsteen non si è mai drogato. E la risposta a questo mistero si può trovare proprio nei primi versi, della prima canzone, del primo album di Springsteen:

Madman drummers, bummers and Indians in the summer with a teenage diplomat,
In the dumps with the mumps as the adolescent pumps his way into his hat.
(*)

Scritta con un rimario in una mano e un bloc notes nell’altra, è una canzone che sembra fatta di parole senza senso e casuali, e lo sono, infatti, eppure senti la vampa del sole di una stagione di leggerezza assoluta e vedi le strade secondarie deserte libere correre i cani senza guinzaglio e un ragazzo con in testa un ritmo tutto suo scansare la spazzatura.

Ok, ma perché diavolo un diavolo di vinattiere italiano, sempre inc*** e teso e pure becco, dovrebbe, per Elio, andarsene in giro vestito come una specie di gatto con gli stivali, be’ questo noi non lo sappiamo.

Con i prossimi post cercherò di venire a capo di questo nuovo e inquietante mistero, che già lo sento, ancora prima di pensare un pensiero strutturato in parole, incontrerò sulla strada un gatto con gli stivali, e il Tempo del primo uovo o della prima gallina, quando i nostri primitivi antenati ominidi andavano in giro, oltre che nudi, gesticolando muti pensieri selvaggi trafitti dai dardi di un sole bagnato (che pareva marzo).

Bootleggers, roll your tapes

(*) T.S. Eliot, Four Quartets. II: East Cocker, (traduzione di Leonardo Colombati, in Come un killer sotto il sole, editore Sironi)
(*) J. Steinbeck, Pian della Tortilla, 1935 (traduzione di Elio Vittorini).
(*) B. Springsteen, Blinded by the light, traduzione di L. Colombati, in op. cit.: Pazzi batteristi, vagabondi e indiani in estate assieme a un ragazzo appena diplomato / di umore nero e con gli orecchioni mentre l’adolescente segue un ritmo tutto suo sotto il cappello.


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