lunedì 31 agosto 2009

Stanze parallele: Lord love a duck!



Un pomeriggio in casa Queen. L’ispettore Queen e il figlio Ellery sono alle prese con un nuovo e misterioso caso di omicidio. Per concentrarsi applicano al meglio il metodo della deconcentrazione. Infatti, l'ispettore legge un giornale ed Ellery legge un libro.
Il teschio umano d’arredamento, questa volta con l’incarico di fermacarte di un mucchio di scartafacci, sta in primo piano.


Suonano alla porta. Ellery si alza e va ad aprire. Il teschio è sempre in primo piano.


E’ il mitico Roddy McDowall! Che ci fa il pignolo e saccente allevatore di piccioni e cacciatore d’anatre di F.B.I. Operazione gatto in casa Queen? Notare che il teschio è imperturbabile, in primo piano.


Ma nell'atto di prendere in mano il teschio ricordandogli ironicamente l’impossibilità di una qualsiasi favella finalmente cade la benda dagli occhi (a noi, non ai Queen). E’ proprio lui. E' lo scienziato e archeologo scimmia Cornelius, in fuga dal futuro.

Curiose applicazioni di Autostitch n.4

Dopo le immagini elaborate da 2001 odissea nello spazio non potevano mancare due immagini dal film Solaris di Andrej Tarkovskij.



Ecco l’immagine della biblioteca, nella stazione orbitante sopra il mare di Solaris.

A destra c’è una spiga di grano artificiale. La spiga era il simbolo di Demetra, la dea madre della terra e della vegetazione, venerata, assieme alla figlia Persefone, nel santuario di Eleusi per più di duemila anni. Demetra era la dea che personificava il passaggio dalla natura alla coltura del grano, nel mondo occidentale.

La macchina da presa ruota lentamente da destra a sinistra. Vediamo copie di maschere, di oggetti, di libri. Sullo sfondo, a sinistra, ancora riproduzioni, questa volta di pitture. E la visione di un quadro in particolare, susciterà nella mente aliena un ricordo (l’immagine di un cucciolo di boxer in braccio alla madre del cosmonauta) e la comprensione del tempo terrestre.



Ecco una visione di acqua e alberi e radici (lo sguardo scorre prima dal basso all'alto e poi da sinistra a destra), poi sarà l’incontro festoso del cosmonauta con il cane boxer, e la visione di una casa dove ci piove dentro, e l’abbraccio con il padre.

domenica 30 agosto 2009

Curiose applicazioni di Autostitch n.3

Cosa c’è di più magico nel cielo notturno di Giove? Se portate fuori il cane la sera sul tardi, potete vedere, in direzione sud, il pianeta brillare come una piccola stella nel cielo nero. Giove brilla accanto alla Luna, brilla anche accanto a un lampione. Se abitate in città non vi potete sbagliare, perché, oltre alla Luna, non vedrete nient’altro in quella direzione.
Ora immaginate Giove sospeso nel vuoto con i suoi satelliti che gli danzano attorno da milioni e milioni di anni, immenso, solitario e magico. Ma per Stanley Kubrick in 2001 odissea nello spazio nella scena di Giove e i satelliti mancava qualcosa, per essere perfetta. In fondo basta poco, per dare vita ad una scena, anche solo uno straccio pendulo appoggiato su una sedia. Ecco allora infilarsi tra Giove e i satelliti non una sedia (è ovvio) ma un maestoso e lucido monolito nero, con sottofondo di musica di Strauss, a tutto volume. Il monolito riesce a impallare perfino il gigante gassoso, riducendolo ad una semplice texture.
Il monolito appare sempre nei momenti meno opportuni, forse per contratto o forse per rendere fantascientifico un panorama, una stanza, un luogo, banali e scontati come Giove e i suoi satelliti. E’ un fatto che l’attore principale di 2001 odissea nello spazio non è HAL ma Obelix, il monolito nero. Il monolito non ha una sola battuta degna di nota nel copione, quelle di HAL invece si sprecano. Chi non ricorda la frase “la mia mente svanisce”? Eppure la vita di HAL è solo un singolo episodio contingente nella trama di 2001 odissea nello spazio. HAL declina le proprie generalità, gioca a scacchi, guarda con l’unico occhio congestionato i disegnini dell’astronauta-artista, sembra quasi uno di famiglia, e lo spettatore piano piano, e mano mano, gli si affeziona, fino a partecipare alla sua angoscia esistenziale (la mia mente svanisce... ma prima vi canto una canzoncina, ecc.). E poi? Poi sparisce dalla scena e dalla trama del film, come se non ci fosse mai stato. Al contrario il contributo del monolito nero alla trama di 2001 odissea nello spazio è fondamentale, è come un filo rosso che lega assieme i vari episodi del film, anche se resterà sempre un mistero cos’è e perché è.

E’ il monolito a suggerire il primo pensiero criminale alla sua tribu preferita di pitecantropi. Prima della sua misteriosa apparizione (la mattina del 23 ottobre dell'anno 4004 a.C?) i pitecantropi eletti dal Signor Monolito spartivano il pasto con i tapiri e contribuivano all'apporto proteico nell'alimentazione del piccolo felino zonale, dopo l’apparizione del Mister sono i poveri tapiri a servire da pasto ai pitecantropi eletti. Indubbiamente c’è stato un salto evolutivo. A ruota segue il primo omicidio intraspecifico della storia, per il possesso esclusivo di una pozza d’acqua sorgiva. In un gesto di liberazione e di disperazione e quasi pentimento (e così inventa pure la religione) l’ominide lancia in alto l’osso insanguinato che ruota e ruota, e ruotando si libra sempre più in alto, sempre più su, più su, fino a trasformarsi in una magica stazione orbitale. Kubrick doveva essere un lettore di libri gialli. Gli espedienti usati per eliminare l’arma del delitto sono tre: o trasformare l'arma in qualcos’altro o distruggerla o farla sparire. Il pitecantropo non poteva mangiare anche l’osso, né poteva bruciarlo (il fuoco non era stato ancora inventato), l’unica alternativa era trasformare l'osso in una stazione orbitale.


(*) Il bagno dell'astronauta-sedentario. Grande e luminoso. L'astronauta ha fatto soldi (ma probabilmente non con i disegni mostrati a HAL), impossibile non citare l'immagine speculare (da un film di Mel Brooks):



Notare nel bagno dell'astronauta-sedentario i 4 asciugamani penduli e il gioco di specchi. Visitiamo l'ultima stanza...


(*) Un vecchio seduto a tavola, lavora di forchetta e coltello. Lui può permettersi la maleducazione di dare le spalle alla porta, nessun felino in agguato, neppure il gatto (tutti estinti); il tapiro è nel piatto.


(*) Le immagini sono state create con Autostitch, programma freeware finalizzato alla generazione di immagini panoramiche.

giovedì 27 agosto 2009

La soffitta

La soffitta non solo era un luogo nel tempo e nello spazio concluso in sé ma anche una terra di mezzo situata tra il tetto e le stanze abitate dalla famiglia. Un luogo pieno di cose morte da centinaia, migliaia, forse milioni di anni. Un posto tranquillo, silenzioso e caldo, forse un tantino polveroso per depositarvi macchine che necessitano periodicamente di lubrificazione, ma tant’è.
La soffitta era come la riva di accumulo nell’ansa di un fiume, là si era depositata, giorno dopo giorno, la zavorra, gli oggetti non più in uso o passati di moda, e che per una ragione o un’altra non erano stati buttati via: una biciclettina rotta, quadri a olio del fratello del padre del vicino di casa, il signor Amleto, libri spaginati della scuola elementare, fumetti ammuffiti e scarabocchiati con una penna rossa, un tavolino a tre gambe con il resto di due e mezza, teiere e tazzine sbreccate, un macinino a manovella per macinare i chicchi tostati del caffè e i grani di pepe nero, cornici con arabeschi in rilievo e dorature in orone e gesso scrostato, prive della lastra di vetro, un centauro agonizzante con la testa chiomata piegata all’indietro in vetro di Murano, e posacenere, vasi e portavasi in terracotta, e un disegno tessuto su tela - una veduta di Piazza San Marco a Venezia - realizzato con crine di cavallo, forse veneto (il cavallo, non il disegno, ché l’artefice era ignoto), una bandiera arcobaleno sbiadita da mille pomeriggi di sole e ingrigita da mille mattine di nebbia, sedie scompagnate, scatole di cartone contenenti solo il diavolo sa cosa, e ancora valigie, borse, borsette e borsoni, e pentole, pentolini e pentolacce e stracci, e pile di vecchi numeri del National Geographic e numeri sparsi di Topolino.
Tutto quello che poteva essere trasportato, intero o smontato, su per la scala a chiocciola rischiava, prima o poi, di essere afferrato dalla corrente e finire nella stanzina sotto le travi del tetto. Ma il fenomeno non era irreversibile, dopo qualche stagione, qualcosa poteva tornare giù, nuotando controcorrente. Un mobile da vecchio arnese bislacco da prendere a pedate si scopriva pregevolmente e danarosamente antico e dolorosamente fragile, tanto che chi lo guardava era preso da un’emozione violenta, fatta di impazienza, tristezza, attrazione e timore che una parte dello stesso potesse andare distrutta o danneggiata, così da non poter stare su in soffitta, lontano dagli occhi e dal cuore, neppure un minuto di più. Questa metamorfosi funzionava però anche al contrario, e dopo qualche tentennamento l’oggetto sradicato dalla corrente ritornava in soffitta, con qualche nuovo graffio e ammaccatura.

[…]

Tra gli oggetti in soffitta c’era una macchina per scrivere, una Lettera 22 Olivetti, con il nastro rosso e blu consumato, il campanello muto e il carrello paraplegico. I martelletti erano ordinati in schiera e in attesa delle due dita che battessero svelte parole sulla lucida tastiera nera, tanto da intrecciarli assieme in un abbraccio d’amore.
E c’era una vecchia macchina per cucire meccanica, dal profilo elegante, stile ottocento, il corpo nero, lucido e snello, con fregi dorati di ornati in rilievo sui fianchi. La macchina era assicurata a una base di legno che ancora odorava di cera d’api, ma se si slacciavano i due ganci di sicurezza la macchina era libera di ruotare su cerniere metalliche, rivelando ingranaggi unti d’olio e un sogno segreto, essere una magica locomotiva a vapore. Il volano consumato e la manovella erano in attesa della mano esperta, per spingere su e giù l’ago, muovere la spoletta, trascinare il tessuto.
Una macchina simile, forse una sorella, ma con un destino diverso, era stata portata in spalla da un vecchio sarto, fotografato e immortalato sulla copertina di un National Geographic, nell’atto di guadare un corso d’acqua. La macchina aveva la vernice scrostata ed era priva della base di legno, il colore dominante del metallo era un rosso ruggine; pareva che avesse attraversato il fuoco purificatore della pira e ridotta al cuore del metallo non fosse più risorta, come la mitica fenice; eppure nonostante l’aspetto sofferente doveva funzionare come nel primo giorno di vita, quando lucida e dorata aveva alzato e abbassato l’ago al primo giro di manovella, sul bancone di prova nella moderna officina meccanica indiana. Era solo una piccola macchina per cucire a manovella, l’intera bottega di un umile sarto itinerante, e con la fedeltà inumana dei cani lo aveva seguito lungo le strade di polvere e fango del distretto indiano di Gujarat. L’uomo e la macchina per cucire erano invecchiati assieme, e adesso che si specchiavano nell’acqua erano il cane che si specchia nell’uomo, l’uomo che si riflette negli occhi del cane. E forse era la fedeltà di una macchina priva di anima la causa del mite sorriso del vecchio indiano, non si sarebbe piegato al monsone e neppure al carma, perché sull’altra riva del fiume erano sempre in attesa i cangianti tessuti dell’India. Vai, vecchio tessitore di trame, senza paura, perché cento misure e un taglio è la tua unica Regola, e mai hai pensato di elemosinare lo stato di calamità naturale, neppure in sogno, in tutto il sogno della tua vita... (*)

Immagine da The River, Bruce Springsteen (C) 1980
(*) Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza)

Stanze parallele: le radici della famiglia Sanford

In una canzone di Francesco Guccini, l’io narrante che stavolta probabilmente coincide con l’io dell’Autore, è in visita alla casa degli avi. “La casa sul confine della sera / oscura e silenziosa se ne sta / respiri un’aria limpida e leggera / e senti voci forse di altra età”. Una canzone sulla pietra che resta mentre le persone passano e se ne vanno. Le pietre sono radici. Le radici sono pietre. Noi europei che abbiamo romani, greci e neri medievalisti appollaiati sulle spalle come gufi e civette abbiamo un vecchio osso in comune, più o meno nobile. Un sasso e un osso in comune. Qualche pietra messa su a formare un’opus incerta, un'incerta barriera tra il nostro campo e il campo del vicino. E il cuore di queste antiche case di pietra era la cucina, grande, fumosa, untuosa e oscura. Là si accendevano, la sera, le discussioni più accese tra i figli e i padri, tra chi voleva andare e chi voleva trattenere. Ma alla fine tutti prima o poi ritornavano alle vecchie fredde pietre, e questo dava “un grande senso di dolcezza”. Era il 1972, in Italia (e ancora si correva il Palio di Siena senza le necessarie protezioni per i cavalli).

Bene, anche nella nostra famiglia Sanford tutte le volte che si accende una discussione la scena è quasi sempre la cucina.





Ecco Lamont che si mostra al padre con la sua nuova veste africana (pagata 13 dollari) e pronuncia il suo nuovo nome di uomo libero. Kalunda. Ché Lamont Sanford è un nome da schiavi, e non vuole più essere chiamato Lamont. Ma per Fred, Lamont è il nome di un mitico giocatore di baseball, e le sue radici sono a Saint Louis (Missouri), dove viveva il padre del padre e prima ancora il padre del padre del padre. E prima?, incalza Lamont. Sono tempi preistorici. (Ben detto Fred. E questo mi ricorda la pretesa di certi archeologi classici di subordinare la ricerca preistorica solo e soltanto alla ricerca delle radici delle genti italiche). La discussione si sposta in cucina e si fa accesa, soprattutto da parte del figlio (chissà perché).
Lamont cerca di convincere il padre della necessità per i neri d’America di riscoprire le proprie radici africane e tribali.



Pressato del figlio, Fred prova a pronunciare il nuovo nome; per sentire come suona lo inserisce in frasi quotidiane: “Amici, vi presento mio figlio, Kalunda”.



Urlato. “Un pacco per Kalunda! Pacco per Ka-lu-Uu-nda!!”. E conclude che no, K. non è un nome adatto per un rigattiere. Con un nome del genere Lamont dovrebbe guidare un elefante non un camion.

Come insegna Claude Lévi-Strauss la cultura più che fuoriuscire dalle teste cotonate dei filosofi tedeschi nasce in mezzo alle padelle unte delle cucine, nel passaggio dal crudo al cotto. Non tutte le cose crude devono però finire bollite in pentola o arrosto sulla griglia.



Ecco, infatti, K. che addita disgustato il suo ex piatto preferito (pasticcio di salsicce e patate). Maiale! Il maiale è impuro. Anche la scienza medica lo dice che è pieno di colesterolo, inadatto all’organismo umano, ecc.



Prima di uscire K. dà al padre una lista della spesa. Soprattutto frutta e semi di girasole. “Sai quelle cose che mangiano i criceti”, dirà Fred all’amico Bubba. Era il 1972, in America (prima del politicamente corretto, sospetto).


mercoledì 26 agosto 2009

Stanze parallele e famiglie convergenti

Chi non si dispererebbe come un gatto portato dal pelagatti per farsi spelacchiare, come un torvo Giobbe maledetto, seduto sul classico monte di ceneri e rovine, se tornando a casa trovasse il proprio appartamento messo sottosopra, capovolto, in rovina, insomma messo a soqquadro da una banda di ladri idioti o da un boxer di nove mesi?
Più o meno tutti, esclusa la famiglia Sanford che ha fatto delle macerie e delle rovine un lavoro e un’arte e un destino, e la meno sospettabile famiglia Queen.



Ecco Ellery che se la ride, le mani in tasca, additato dal padre furente. Mica che il padre è adirato per il comportamento indifferente del figlio. Macché, entrambi pensano solo ai documenti segreti dell’ultimo caso di omicidio, sicuramente quelli cercavano i ladri (lo stupore della ragazza è palese). Immaginate uno scrittore tipo Salinger (o tipo Forrester) che tornando a casa trova lo studio a zampe all’aria come una gallina ubriaca, con tutti i preziosi manoscritti numerati e bollati con contrassegni colorati ad uso delfini sparsi e mescolati e pesticciati sul pavimento. “Un contrassegno rosso significa, se muoio prima di averlo finito pubblicatelo così com'è, uno blu significa pubblicatelo ma prima sottoponetelo a revisione, e così via” (Da Wikipedia, voce Salinger).



Chiaro che il padre è inc*** per lavoro, ma perché Ellery ride come un micco? Perché sa di aver messo per distrazione i documenti segreti in cucina, dentro al frigorifero, sotto il tacchino.
Davvero, i Queen e i Sanford: famiglie convergenti in stanze parallele.

Contando bianchi e pesci


In una canzone di Francesco Guccini, l’io narrante, in giro turistico per gli Stati Uniti, entra in un autogrill e subito s’invaghisce della barista. “La ragazza dietro al banco mescolava / birra chiara e seven-up / e il sorriso da fossette e denti / era da pubblicità / come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill / mentre i sogni miei segreti li rombavano via i T.I.R…”. La luce del sole al tramonto colora la scena, ma soprattutto la mente del protagonista, di tenui riflessi rosati. Passa un po’ di tempo e il protagonista della storia sente che qualcosa deve fare, sente che qualcosa deve dire alla ragazza, alla peggio scappare (non con la cassa, con la ragazza).
Be’ uno sfondo musicale non ci starebbe male, pensa, ecco allora che mette un disco nel juke-box, ma per non sentirsi come in una scena di un vecchio film della Fox picchietta con le dita una scatola di tè, seguendo il ritmo. “Ma nel gioco avrei voluto dirle: “senti, / senti, io ti vorrei parlare…” / poi, prendendo la sua mano sopra al banco: / “non so come cominciare, non la vedi, non la tocchi / oggi la malinconia? / non lasciamo che trabocchi, vieni, andiamo, andiamo via…”.
Ma quando è sul punto di pronunciare alla ragazza le parole prima pensate (e dopo averle tradotte dall'italiano all'americano, immagino) ecco che d’improvviso entrano nel locale due persone, una “coppia di sorpresa”. E i riflessi rosati spariscono, sparisce anche la malinconia. Anche il disco del juke-box termina, con un cigolio. Il protagonista, che un minuto prima era lì lì per dichiarare il suo animo romantico ad una ragazza yankee miscelante birra chiara e seven-up, ora alla fine della storia, le lascia un nikel di mancia, conta il resto e se ne va per la sua strada.
Visto il titolo del post e viste le due immagini (che se ne stanno andando anch’esse per la loro strada, portate dal Voyager) vorrei evidenziare l’uso che il protagonista della storia fa del verbo traboccare. Traboccare. Versarsi di liquido da recipiente troppo pieno. Ecco l’immagine. La malinconia che vede e tocca il personaggio della canzone si fa schiuma che trabocca dall’orlo di un bicchiere colmo di birra. Un tentativo di mettersi alla pari con la cultura enologica della barista? Di parlare il suo linguaggio? L’ironia dell’autore che fa capolino tra i versi? Boh. E poi che ne sappiamo di lei a parte il sorriso da sfinge indifferente. Esiste una connessione tra la ragazza sconosciuta dietro al banco dell’autogrill e l’alieno vagamente destinato alla visione delle 115 immagini contenute nel Voyager? Be’ loro non lo sanno ancora (e forse non lo sapranno mai) di essere i destinatari di un sogno ad occhi aperti.
Chiare, fresche e dolci acque minerali (ma povere di sodio) sciabordanti dentro verdi bottiglie di plastica pazienti ed allineate sui banconi degli autogrill, contate e ricontate, come le figure di queste due immagini che un giorno saranno contate e ricontate da inimmaginabili e soprattutto straniti alieni, svanisce nel nulla il vostro recondito significato.

lunedì 24 agosto 2009

In attesa dello zio di Andromeda (stella Alfa)

Nel 1977 una commissione guidata da Carl Sagan ebbe l’incarico dal governo americano di interpellare "figure di rilievo mondiale, semiologi, pensatori, artisti, scienziati e scrittori di fantascienza chiedendo loro cosa poteva penetrare la coscienza di ascoltatori e spettatori inimmaginabili" (*). Il risultato fu il Voyager Golden Record, un disco fonografico inserito nelle due navicelle Voyager, lanciate nel 1977, e contenente suoni naturali e umani (per esempio il suono di un treno che passa accanto a un passaggio a livello), brani musicali, una breve frase di saluto in 55 lingue e 115 immagini. Insieme al disco fu inserita nella navetta anche una testina di lettura e le istruzioni per l’uso, scritte in geroglifico.
Tra 40.000 e più anni il Voyager 2 forse finirà la sua lunga fuga solitaria e disperata, sarà intercettato da qualche forma di vita aliena e intelligente abitante il terzo pianeta della stella Alpheratz nella costellazione di Andromeda.
"E’ maschio o femmina?". La tipica domanda che l’alieno Omega farà all’alieno Alfa messo di fronte al Voyager 2. Poi dopo averlo guardato, leccato, annusato, rigirato e sondato sopra e sotto approderanno alla constatazione che per noi umani era banale nel lontano 1977: è solo un oggetto. E lo apriranno. Ci metteranno il tempo necessario (Roma non fu fatta in un giorno) ma poi decifreranno anche i geroglifici del manuale d’istruzioni. Scopriranno qualcosa che per noi era ovvio già nel 77: il Voyager è un contenitore di informazioni. Vedranno e sentiranno (se avranno occhi e orecchi umanoidi, come gli alieni di Star Trek). Con la coscienza violata e folli di sapere, presi nella rete, pieni di smania di capire chi ha spedito (e soprattutto a chi) nell’universo tali immagini e suoni, spazzoleranno il cielo stellato con i loro potentissimi strumenti e non avranno pace (perché il desiderio di capire è peggio del mal di denti) fino a quando non avranno nel mirino, del cercatore, il terzo pianeta del nostro sistema solare. E’ sempre bene rivolgersi alle fonti di prima mano. Perché cosa mai potranno capire gli alieni dalle immagini e dai suoni scelti da figuri di rilievo mondiale?
Per esempio guardate l'immagine in alto e provate a mettervi nei panni di un essere di media intelligenza aliena; cosa vedete? Forse, se l’alieno è un sentimentale, un tontolone facile alla lacrima come gli alieni di Star Trek, vedete un vecchierel canuto e bianco, ma ancora in gamba, che porta a spasso il figlio piccino picciò, che tutto contento lo segue, passo passo, con la lingua a spasso. Ma se non è un alieno sentimentale, se è punto empatico, insomma se è il tipico omino-verde-maligno allora forse vedete solo due macchie biancastre. Certo, capirà che sono due esseri viventi, embè? Cosa li unisce? manco un guinzaglio. Certo il bastone fa sperare...
E se capiranno che quelle macchie biancastre, quelle più grosse, sono esseri intelligenti, cosa penseranno di noi, delle nostre usanze a tavola, soprattutto delle nostre buone maniere a tavola, dopo aver finalmente decifrato questa immagine?



(*) A. Weisman, Il mondo senza di noi (Einaudi), pag. 302

domenica 23 agosto 2009

Curiose applicazioni di Autostitch n.2


Il software Autostitch (nel suo uso non ortodosso, vedi post precedenti) può mettere bene in luce l'uso retorico della macchina da presa nel cinema.
Le due immagini d’esempio sono il risultato della somma di un certo numero di fotogrammi del film Scoprendo Forrester presi in due tempi diversi, e non consecutivi.
Per chi non ha visto il film ecco un riassunto copiato pari pari (con la benedizione di F.) dalla copertina del DVD: "Jamal W. è un sedicenne giocatore di basket con grandi capacità, la cui passione segreta è quella di scrivere. W. Forrester è uno scrittore solitario, che ha vinto il premio Pulitzer e che non ha mai dato al mondo un secondo libro. A seguito di un incontro casuale, F. diventerà il mentore inaspettato di J., guidando il ragazzo nello sviluppo delle sue qualità nascoste. Si scambieranno esperienze ed opinioni, ed entrambi impareranno vari aspetti della vita, soprattutto l'importanza dell'amicizia."
La prima immagine mostra i libri del ragazzo visti dallo spettatore una mattina di un giorno feriale, mentre J. ancora dorme, la seconda immagine mostra i libri dello scrittore visti attraverso gli occhi di J. penetrato di notte nella casa dello scrittore per vincere una scommessa fatta con gli amici di scuola. I libri sono uguali o simili, gli stessi autori e in certi casi con gli stessi titoli, ma soprattutto è uguale la disposizione: Kesey, Joyce, Bradbury.


Qual è il messaggio del regista: se due persone hanno uguali letture, non solo ma collocano i libri nella libreria allo stesso modo, non possono non diventare amici. Prego notare le due negazioni che generano – si dice - un’affermazione. Come dire se io prendo una bandiera nera (il nero è negazione del colore) e ci dipingo sopra due ossa incrociate (una X, cioè una negazione) quello che si ottiene è la bandiera della Svizzera.
L’amicizia può nascere dallo scambio di informazioni tra chi ha letto sette volte i Promessi Sposi e chi lo ha letto una volta sola o nessuna e pensa che Manzoni sia un autore del Seicento (va' un anacronista). Tra chi ha girato il mondo e chi non è sceso oltre Porto Badisco.
Chi pensa altrimenti probabilmente è destinato a fondare un altro fan-club di Valentino Rossi.

My city of ruins


Vedi l'attore (*) in basso nel suo camice verde di paziente, come un bambino scappato dall'ospedale con un sacchetto di pepsi e merendine.
La statua in alto porge una mano; è in trappola o tende una rete?

(*) 28 giorni dopo è un film del 2002, diretto da Danny Boyle

Stanze parallele: lo studio dei Queen




Ellery batte sui tasti di una macchina per scrivere. Un cranio messo lì assiste (e che altro può fare?) al tranquillo parto creativo dello scrittore.
Dato curioso: nello studio dello scrittore di libri gialli non manca mai un cranio o una calotta cranica (notare che nello studio del medico più o meno folle è immancabile lo scheletro appeso); il cranio è d'obbligo come il calice di vino (talvolta bianco, talaltra rosso) sbevazzato dall'attore protagonista che s’improvvisa cuoco per una sera e per un'amica, tra girate al sugo e tagliuzzamenti di verdure varie.


Ellery continua a battere sui tasti, così non si può andare avanti e, infatti, la scena si anima di una presenza. In fondo (dietro al cranio) appare una figura umana maschile, chi è?



E' ovviamente l'ispettore Queen. Esiste una connessione tra un cranio, probabilmente di plastica, e l'avo paterno? Ebbene sì, e rientra nel codice della buona educazione, delle buone maniere.

L'ultima immagine di questo post è presa da un altro episodio della serie televisiva, e mostra un EQ concentrato nella lettura che tamburella con le dita della mano sinistra sul solito povero cranio indifeso. Il padre irritato gli fa subito notare il gesto ed Ellery prontamente smette di tamburellare.



L'educazione non è tenere o no il cappello in testa in casa (anche se in seguito Ellery dirà una frase straordinaria, alla Tex Avery: "Ma io non ho bisogno del cappello!" con ovvia approvazione del padre, che al solito non ha capito niente; ma pensate, immaginate un Tenente Colombo che getta via impermeabile e sigaro verde, perché poi verde? un Berlusconi che non si tinge più i capelli perché si rassegna al fato e all'alopecia, un Brunetta che si dà all'ippica, un Franceschini liberato dall'ossessione di Silvio e le fanciulle), maleducazione è usare un cranio come se fosse un tamburello, usare qualcosa come se fosse qualcos’altro, usare qualcuno come se fosse un oggetto.

Non sta forse nel rifiuto delle buone maniere l’origine di tutti i mali, compreso l'assassinio?

Curiose applicazioni di Autostitch

Già scritto in un altro post, Autostitch è un software atto a generare immagini panoramiche da foto digitali, ma può essere usato per fermare in un'immagine statica una serie di fotogrammi, catturati e salvati con altri software nel formato JPG, e ottenere informazioni filtrate dalla retorica del regista. Insomma trasformare il cinema (guarda dove ti dico io) in teatro (guarda dove ti pare, sempre se ne sei capace), più o meno.

Ecco due esempi. Il primo è tratto da Occhi bianchi sul pianeta Terra.


Le opzioni del programma sono NO Auto Straighten e Linear.

L'altra immagine è generata (con NO A.S.) da una serie di fotogrammi di M il mostro di Dusseldorf, di Fritz Lang (1890-1976). L'occhio dell'ispettore scorre dal davanzale della finestra al cestino della carta straccia, sguardo che si ferma sull'ovvio, dove un possibile criminale può commettere un errore? Nel cestino della carta straccia, mica al davanzale di una finestra.

sabato 22 agosto 2009

Stanze parallele: l'Ouverture del robivecchi



L'immagine (*) è una vista panoramica della casa-magazzino di Sanford & Son. E' la prima scena del primo telefilm della prima stagione. Un uomo fuori campo canta allegramente con accompagnamento di pianoforte; vediamo una porta d'ingresso, poi la telecamera ruota e ci mostra una grande stanza che nemmeno alla lontana assomiglia a quel luogo perso nei meandri della memoria, silenzioso e in penombra e quasi atemporale e magico che i nonni di una volta definivano salotto-buono, ma è piuttosto una stanzaccia assolata e fatiscente che pare masticata e sputata da un boxer di nove mesi, e ingombra di oggetti che sembrano incollati alla tappezzeria, di cianciafruscole rotte e sparpagliate sui tappeti lisi. E' il vecchio Fred Sanford, il robivecchi, che canta e suona. Bene, ma poi il cameraman muove la telecamera in avanti, poco ma quanto basta per permetterci di vedere che il vecchio sta solo spolverando il piano, di fatto una pianola (non una tastiera).
E' abbiamo già capito che è abitudine di Fred trascorrere il tempo in un ozio solare, canicolare, libero come un usignolo canterino da preoccupazioni e doveri salariali (ben presto al posto della pianola spunterà uno scassato televisore in bianco e nero e un divano spelacchiato e al vecchio resterà solo di sognare un TV-Color con telecomando) mentre è il figlio Lamont che lavora e suda, scrutando dall'ombra del suo pick-up giacimenti ai bordi delle strade di Los Angeles, per poi recare a casa hardware, ceramiche cinesi, mode, manie, nere radici d’Africa e religioni vagamente orientali.

(*) L'immagine è stata creata con Autostitch, programma freeware finalizzato alla generazione di immagini panoramiche. Il programma è scaricabile qui.

domenica 9 agosto 2009

Stanze parallele: la cucina dei Queen

Da dove si comincia? O la cucina o lo studio, perché a parte qualche sprazzo di visione di un andito e di una porta d’ingresso, altro non è mostrato, dell’interno dell’appartamento, nei ventidue episodi dell’unica stagione televisiva (1975-1976) di Ellery Queen.
Be’ si comincia dalla cucina. In fondo non è da lì che abbiamo tutti cominciato a giocare?
Va subito detto che sia lo studio sia la cucina non sono mai visti solamente come perfetti sfondi scenografici d’epoca (le storie sono ambientate a New York tra il 1946 e il 1947), ma come “spazi magici” che partecipano, a loro modo attivamente, alle discussioni tra Ellery e il padre, ispettore di polizia quasi in pensione. Niente paura, né horror né astrologi né spiriti fra i piedi, solo spazi empatici.

Un esempio in immagini dall’ultimo episodio (The Adventure of the Disappearing Dagger) vale mille parole. In questa scena EQ ha la sua solita diabolica illuminazione di fine episodio (poi resterà solo un po’ di minuti, il tempo di guardare negli occhi noi spettatori – se questa non è magia – invitarci a dichiarare il nome del colpevole, radunare buoni e cattivi, e incastrare l’assassino, che subito si toglie il peso dalla coscienza confessando tutto ciò che è confessabile; insomma la solita routine).



E' notte, scena deserta: la cucina. Notare la tovaglia sulla tavola ;)



I Queen, padre e figlio, appena tornati a casa da una ricerca risultata infruttuosa fanno uno spuntino di mezzanotte (latte e biscotti). Ma accade un black-out...



Ellery accende una candela e poi alla luce della stessa cerca un piattino per non sgocciolare la cera sulla tovaglia, sgocciolando nella ricerca la cera sulla tovaglia, come gli fa subito notare il padre.



Ecco l'intuizione (ovviamente il biscotto in bocca ad Ellery non è una madeleine di Marcel Proust) celata in un po' di cera e messa in luce da uno sbalzo di corrente elettrica.

Stanze parallele

Le serie televisive americane degli anni 70 sono a tutt’oggi uniche e irripetibili, e non solo per i soggetti, i dialoghi e gli attori ma anche per la cura, quasi maniacale, dei particolari, nella resa magistrale dello spazio scenico.
Con questo e altri futuri post vorrei porre a confronto due delle più belle, almeno per me, serie televisive degli anni 70, più volte replicate in Italia, dagli anni 80 in poi.
Il confronto, per restare in linea con il titolo di questo blog, verterà solo sulle scene, in particolare gli spazi interni. Stanze mute e silenziose ma fondamentali alla vita dei personaggi e alla trama delle loro buffe o drammatiche avventure.

Le due serie televisive sono:


Sanford and Son (1972-1977)
Ellery Queen (1975-1976).

Cartoline (e suoni) da Titano

Quando il modulo Huygens si è sganciato dalla sonda Cassini e si è tuffato nell’atmosfera di Titano per poi atterrare su una superficie d’aspetto e consistenza di sabbia bagnata e ha scattato istantanee come un turista per gli amici e la famiglia, tutta l’umanità, anche quella in tutt’altre faccende interessata, ha avuto un contatto con uno spazio alieno, vuoto e misterioso come forse era la Terra solo qualche anno cosmico fa. Un palcoscenico vuoto, metafisico? Uno scenario in attesa della rappresentazione, ancora non contaminato da batteri, dal ricordo e dal sentimento, solo prolegomeni ad una possibile futura vita aliena.

Forse sarebbe il caso di fantasticare un po’ su queste immagini e su questi suoni piuttosto che girare sempre attorno alle orecchie a punta di Mr. Spock.

Link:
Titano
Sounds of an alien world

venerdì 7 agosto 2009

un link

Troppo bella questa pagina per non essere linkata. Alé.

lunedì 3 agosto 2009

Una connessione

Una riflessione, che mi riprometto di sviluppare nei prossimi post, una riflessione su una connessione che ho scoperto qualche mese fa, fra il modello architettonico del Ghetto e il tema dell’Astronave-Città-Mondo (la connessione non si può sviluppare c'è o non c'è, per me c'è).
Tutti i Ghetti sono uguali (c’è un dentro e un fuori), l'origine più o meno è sempre la stessa; ad esempio nel 1430 Firenze consente l'ingresso agli ebrei (prima erano rigorosamente OUT), essi possono prestare denaro e, infatti, lo prestano, e ben presto diventano IN, e mandano OUT i bancari fiorentini (lo strozzino ebreo presta con il 20% annuo di interesse contro il 40 o addirittura il 50% del banchiere fiorentino). Ma gli ebrei devono andare in giro con un segno per essere riconosciuti a vista (un tondo giallo sulla berretta).
Nel 1439 gli ebrei sono già settanta (70), e iniziano i problemi, cominciano a dare nell'occhio insomma non proprio come i lavavetri di Cioni (tutte quelle macchie gialle). I problemi (immaginate per chi) aumentano e aumentano con gli anni fino a portare alla decisione irrevocabile e definitiva di cacciare gli ebrei dalla città nel 1495. Il bando viene revocato solo nel 1499, però con una penale-pedaggio di 200.000 fiorini, intesa probabilmente come tassa d'entrata.
Finalmente Cosimo dei Medici, il Grande Cosimo, importa e copia il modello Ghetto. Cosimo vuole, Cosimo ordina che tutti gli ebrei devono abitare in un solo luogo chiuso, con qualche ora di libera uscita al giorno (in stile Brunetta, un altro Grande). Sarà il Buontalenti a ridurre tutte le case di un isolato situato a ridosso del Mercato Vecchio in un solo enorme stabile, murando tutti i vicoli tranne due, sbarrati però da cancellate.
In questo condominio (sembra fantascienza?) gli ebrei di Firenze andarono ad abitare il 6 dicembre 1571.
Il Ghetto, al solito, si arricchirà negli anni di affreschi e decorazioni, per poi deperire e imputridire nel corso della seconda metà dell'Ottocento.
Un giro intricatissimo di scale metteva in comunicazione le case, alte anche undici piani, da un lato all'altro del Ghetto. Un dedalo di corridoi, pianerottoli e abbaini permetteva ai ladri di fuggire sui tetti dai quali poi ridiscendevano per altre scale in altre case e in altre strade.
E adesso provate a leggere o rileggere Universo di Robert A. Heinlein, La Caverna di Saramago, 44 lo Straniero Misterioso di Mark Twain; tornate a guardare il capolavoro di tutti i tempi cinematografici: Alien.

sabato 1 agosto 2009

Lost in the flood

L'immagine di un perplesso e divertito Tenente Colombo (con Cane al guinzaglio e accanto a una texture di nastri magnetici, color blu-cielo-d'estate, memorie di un antidiluviano computer) in atto di stringere la pinza destra al robot Robby, precipitato dal pianeta extrasolare Altair IV in un laboratorio del centro di ricerca sull'Intelligenza Artificiale, dove il direttore è un buon padre e un assassino, centro situato in una Los Angeles primi anni 70 del secolo scorso, prima del diluvio, e ancora bazzicata da Sanford e figlio (demente), per poco ancora prima di lasciare il campo e le strade e le piazze e gli ospedali (negozi, bar, case ecc.) a mutanti medievalisti nerovestiti con gli occhi bianchi, mi spinge ad una riflessione che è anche auto-citazione (da Opus incerta, 2007):

PkTEX è un programma a linea di comando, e il suo scopo è generare texture procedurali.
Una texture (procedurale o no) è una regione dell’immagine (digitale o analogica), caratterizzata da una successione di colori diversi che si ripete in maniera abbastanza regolare (ad esempio in un panorama con case, i tegoli e i coppi dei tetti sono una texture, e così pure le finestre che si aprono sulle facciate delle case). La texture seguente (texture A-c) dà subito una smentita a questa elegante definizione.




Immaginiamo un tipico robot di Asimov, chiuso all’interno di una stanza, con il solo bagaglio delle Tre Leggi della Robotica in testa. La stanza ha una porta e una finestra. Le pareti della stanza sono tappezzate con carta da parati a fiorelloni gialli. Il robot riceve l’ordine di lasciare subito la stanza. Tra lo sfondare il muro o uscire dalla porta, girando una maniglia, il robot asimoviano, ben educato, opterà per la porta (se il ricordo del film Qualcuno volò sul nido del cuculo non fa cortocircuito). Bene, per individuare la porta il robot deve, in qualche modo, ignorare la carta da parati (la texture). Quindi in Computer Vision le texture sono quella parte dell’immagine trascurabile, nella ricerca di informazioni significative. Talora però le texture contengono maggiori informazioni del resto dell’immagine, e talvolta è la texture a dare spessore all’immagine, a dare un senso alla visione.
Qualche parola sul nome del programma: tex sta sia per texture, sia per Tex (nel senso di nome proprio), in omaggio a Tex Avery. Ma chi era Tex Avery?

Tex Avery nasce il 26 febbraio 1908 in Texas, da cui deriva il suo soprannome. Esordisce nel cartone animato verso il 1930. Alla Warner, con Friz Freleng e Chuck Jones, sarà uno dei tre creatori di Bugs Bunny. [...] I suoi personaggi sembrano sfuggire a ogni controllo. Si rivoltano contro la compostezza hollywoodiana, escono dal quadro per intervenire arbitrariamente sulla proiezione. Le pecore divorano la pellicola, un topo racconta la fine del film. [...] Le sue creazioni traboccano di a parte con il pubblico, di polvere o capelli disegnati sulla pellicola per fare diventare matti i proiezionisti. [...] In Happy-Go-Nutty uno scoiattolo esclama: «Qui non siamo mica alla Disney!»1

Nell’inventare una nuova texture mi piace immaginarla mentre sgranocchia una carota, e chiede al prepotente di turno (di solito un cacciatore di conigli): «Ehm... Gnam gnam gnam... What's up Doc?».

E questo è tutto gente. (O almeno) questo è quanto dovevo all’esegesi di pkTEX.

(1) Bernard Génin, Il cinema d’animazione, Lindau, 2005, pp. 12-14.