mercoledì 30 settembre 2009

Paese d'Ottobre n. 5

Un tardo pomeriggio d’autunno, un vecchio saggio si presentò agli abitanti di un villaggio, chiedendo loro se era meglio essere ricco e bello o povero e brutto. Tutti gli risposero in coro, ricco e bello! L’unico ricco presente, lisciandosi la coda di paglia, puntualizzò tra i denti, ricco è bello. Allora un tale saltò su dicendo che certo anche i ricchi piangono, ma almeno hanno un fazzoletto dove soffiarsi il naso. Affatto! Quest’ultima affermazione non potrà mai convincermi del tutto, esclamò il barbiere di Russell, il naso io me lo soffio sempre con tre dita della mano sinistra. Ma il vecchio saggio non aveva finito. Le vere domande (con le risposte incorporate) stavano per calare.
Però se tu fossi un ricco vissuto nella Germania degli anni Venti del secolo scorso cosa avresti potuto comprare con un miliardo di marchi? Solo mezzo panino. Però all’olio.
Però se tu fossi Alcuino di York cosa avresti potuto comprare con i risparmi di tutta una vita spesa a insegnare? Manco mezz’ora con la brunetta di Carlo Magno.
Però se tu fossi un alieno di Andromeda come valuteresti le nostre bellezze? La risposta, inimmaginabile e intraducibile, arriverà tra 80.000 anni.
E però, si dovrà distinguere tra arte e realtà. E però chiamo a testimone la madre di Whistler.
E però, se si elimina l’arte, cosa resta? Solo il gusto personale: non è bello quel che è bello, è bello quel che piace.
Ma ci sono sempre i bambini, esclamò una madre in lacrime.
E però, bisognerà decidersi, sono piccoli mostri, gamberottoli infilzati su teste tonde, o angeli cherubini?
E però il vecchio saggio fu accoppato e il cadavere seppellito sotto un pero.

martedì 29 settembre 2009

Wunderkammer n. 7 (parte prima)

Nel post precedente ho mostrato un esempio di wunderkammer veramente terribile, spaventosa, orripilante, mi scuso con i lettori particolarmente impressionabili e sensibili (non tutti hanno votato per il magico Silvio).
Ho mostrato una... nursery. Un luogo terribilmente sicuro, dove i bernoccoli e le sbucciature e i lividi erano banditi, fuorilegge.
E la connessione che ho proposto nel post era con una visione dell’arte; l’arte come palcoscenico, dove un occulto regista controlla tutto e tutti; dove anche la leggerezza non è mai spontaneità, poiché è priva di casualità.

Quando andavo alla scuola elementare (da alunno, perché ci vanno anche i grandi, e si chiamano maestri o bidelli o applicati di segreteria) mi veniva a prendere tutte le mattine dei giorni feriali, poco dopo l'alba, un disabitato pulmino condotto da un allegro pagano dei mari del Sud, convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, perché cantava a tutta canna allegre canzonette di San Remo, o forse era solo un autista ‘briaco, non ricordo.
E il pulmino correva e girava e svoltava per strade e sentieri, giù per le valli e su per colline, e intanto raccattava bambini mezzi svegli e mezzi sognanti. E mentre il giorno si faceva sempre più sicuro e certo, e i bambini sempre più svegli e vocianti, il selvaggio al volante pian piano scivolava in un opaco contegno e riserbo esistenzialista.
E in un fatale mattino del mondo (in ogni caso era un mattino feriale) mi misi la cartella sulle ginocchia, come un palcoscenico, e animando le mani in personaggi, mi misi a raccontare storie al mio compagno di fianco, che mi parve gradire lo spettacolino. Che liberazione: io ero sparito, il compagno ascoltava solo la mia voce, guardava solo le mie mani.
Lo spettacolino non era propriamente uno spettacolo esoterico, da iniziati, infatti, il pubblico, giorno dopo giorno, aumentò di numero. Raggiunsi l’apice del successo quando uno spettatore irritato dal casino che facevano davanti si alzò per zittire i compagni. Come sempre succede subito dopo iniziò il declino, insomma finii per avere un bieco imitatore, che tratteneva il suo pubblico con i miei personaggi (e by by al ©).

Premessa dovuta, premessa necessaria – ma non sufficiente, perché il post è appena all’inizio - per introdurre una nuova immagine di wunderkammer (la settima).

Una wunderkammer speciale che ha per soffitto il cielo e per pareti alberi (naturalia) e siepi (artificialia) di un giardino pubblico (i canis solo se condotti al guinzaglio), e un contenitore-schermo-palcoscenico (curiosa), come dire la parte esplosiva di un teatrino di burattini (mirabilia).



L’immagine è presa dal film 3 uomini in fuga (vedi il post sulla spontaneità).

Qualche lettore astioso a questo punto dirà ma insomma per Lei tutto il mondo è una wunderkammer?!? Ma infine cos’è una wunderkammer? La wunderkammer o “camera delle meraviglie” era una stanza dove, a partire dal secolo Cinquecento, si conservavano manufatti, oggetti strani e curiosi e reperti provenienti dai tre regni della natura. Manufatti, oggetti e reperti provenivano da ogni angolo del mondo.
Le pareti della wunderkammer erano tappezzate di scaffali e mensole e armadi e ancora armadietti e pure stipetti, e dall’alto soffitto pendolavano ossa e ossi di bestie antidiluviane.
Una wunderkammer doveva contenere almeno una testa con gambe; strane bestie lumacose fuoriuscenti da seriche conchiglie e il canto di una sirena intrappolato in una conchiglia; piante zoomorfe e facce lunari e ali di pipistrello e creste di drago e code di rospo, un carapace di testuggine marina; dentro un barattolo di caffè Illy i denti incisivi persi a scuola dai bambini in un anno scolastico, piattole e ragni (sia vivi sia morti), erbe aromatiche, erbe medicinali, fiori di Bach; incubi e demoni con ali d’angelo e demoni cinocefali e demoni con proboscide d’elefante; un ornitorinco imbalsamato, la pelle di un tapiro triste, il cranio di un polifemo siculo, innumerevoli pietre del fulmine; la mappa del tesoro di Teodorico, la dentiera di Attila, le foglie della Sibilla, l'arazzo perduto tessuto con i capelli lasciati nel pettine da Cesare; un prisma ottico, tappeti e stracci penduli, vasi Ming e vasi attici, cappelli piramidali, un coniglio nel cilindro, tarocchi e carte da gioco, statuette di Budda di cioccolato, barattoli di miele d'acacia e misteriosi animaletti e pesci degli abissi marini conservati in vasi di vetro colmi di alcool, la testa sotto spirito del Capitano Nemo e universi dentro palle di vetro; rocce zoomorfe, il corno di un unicorno, un ciocorì, macchie di muffa sui muri; una copia autografa della Bibbia e qualche mummia egizia, larve e coleotteri; nere farfalle e maschere polinesiane, verdi colline e balene bianche; polverose uova di emù e di gallina mugellana, uova quadre. E in un angolo oscuro della stanza una piccola folaga polverosa con le ali spiegate in volo; accanto la sedia vuota del custode del tutto...

lunedì 28 settembre 2009

I wake up crying (Wunderkammer n. 6)


“What is it? A toyshop?”
“No, it’s a nursery.”
“Ain’t you ever seen a nursery?”
“No. And neither have you.”
(*)


In questa serie di post dedicati alle wunderkammern (con esempi presi dal cinema) non poteva mancare una camera delle meraviglie che sicuramente pochi lettori nel mondo hanno visto dal vero. E cioè una nursery. Che non sia (era) una stanza per tutti gli infanti di questo mondo lo prova anche il toccante dialogo tra i bambini (preso da un magico, autunnale film di Walt Disney).
A questa camera delle meraviglie si appiccica un sentimento strano, un certo non so che di alieno, di oscuro, un malessere fisico, quasi un’emicrania, l’impressione di qualcosa di fermo, di immoto, di mai cresciuto. Insomma è la terribile stanza di Peter Pan. Il regno della finzione.
Certo, viene spontaneo associare questa camera ad un luogo sicuro, dove i bernoccoli e le sbucciature e i lividi sono banditi, fuorilegge (ma solo nel fisico). Ecco la connessione: non è questa l’immagine dell’arte? Un palcoscenico dove un occulto regista controlla tutto e tutti. Dove anche la leggerezza, non è spontaneità, perché priva di casualità. E se esiste casualità, questa è programmata dall'autore, come un software che genera falsi numeri casuali.
Le installazioni di oggi o i plurimi di Emilio Vedova di ieri, cosa cambia? Lo spettatore è comunque esecutore di una partitura. Da Henry James a James Joyce, lo stesso tormento ossessivo: è veramente possibile controllare tutto e tutti, fino a farsi scoppiare la testa per una virgola? Un’opera dove anche l’errore casuale non è mai casuale (magari è un refuso), e la sgocciolatura sulla tela è sempre “fatta ad arte”. Si dice che quando Enrico Fermi si accorgeva di aver fatto un errore alla lavagna, durante una lezione, per la vergogna correggesse con il gomito. E se gli artisti sopravvissuti al diluvio sono come Fermi allora siamo davvero in fondo ad un abisso. Prigionieri e per sempre dentro una nursery.
Bel finale retorico…
Urge una citazione antidoto, che fa da prologo ad un futuro post su una bella burattinaia e un austero direttore d’orchestra…

"Anche stamani è venuto allo studio e à cercato di me col suo solito modo di chi à da comunicare, in segreto e d'urgenza, chi sa quale notizia.
Ogni volta che viene, s'accosta pian piano al tavolino ingombro di fascicoli, di fogli sparpagliati; s'accosta col solito passo in cui senti l'anima spenta e le piante dei piedi che dolgono - un cattivo odore lo avvolge: la custodia della miseria, come la nuvola per gli Dei. E quando m'è accosto, a voce bassa, come se fosse la prima volta, mi confida la grande notizia, la solita: non può più andare avanti con le ciabatte che à in piedi e non à un becco d'un quattrino.
Io ormai so a memoria e passo e voce e parole; eppure poso la penna e mi volto, aspettando. E lui riprincipia: biascica le parole e sbava e ogni volta che tira in su il fiato, risucchia. "Guardi un po' come sto", e mi fa vedere i piedi mollicci che sbuzzano dalle ciabattaccie sfatte.
E alla fine mi guarda con un sorriso scemo che mi fa tanto male. M'à conosciuto bambino, quando si stava in Piazza delle Cure, nel villino che era di suo padre, in cantonata a Via Lungo il San Gervasio.
Abitavano un quartiere all'ultimo piano di un'altra casa di proprietà loro sulla cantonata opposta. E suo padre, le sere d'estate, dopo mangiato, alla finestra di faccia alla nostra terrazza, stando a fumare in maniche di camicia - era un omaccione con una faccia gioviale e la testa rossiccia e liscia come una zucca - si divertiva a guardare me che sulla terrazza facevo il diavolo a quattro.
E m'eccitava, m'aizzava, gridando "Bravo! daccapo! bravo!; e quando finivo - perché ogni sera la fine era quella - col battere un picchio solenne da rimanere lì basito, si spenzolava dalla finestra e si sbracciava a applaudire con un entusiasmo che mi ripagava a usura delle ammaccature e dei corni."
(**)

(*) “Cos’è un negozio di giocattoli?”
“No, è una camera per bambini.”
“Non ne hai mai vista una?”
“No. E nemmeno tu.”
Da Pomi d’ottone e manici di scopa © Walt Disney
(**)La Velia di Cicognani (autore introvabile, libro pescato su Maremagnum.com. Romanzo del 1923 edizione Vallecchi, 1966)

domenica 27 settembre 2009

Dialogo fra mezzi sordi (Wunderkammer n. 5)

Nel corso dei vari post dedicati alle wunderkammern si è visto che oltre alle classiche camere delle meraviglie W esiste l’insieme W' delle camere delle necessità appagate, e al suo interno esiste un insieme W'' di elementi w'' che pur non avendo l’aspetto e la forma canonica di stanze sono comunque recipienti, contenitori, scatole o piani di appoggio di manufatti, oggetti strani e curiosi e reperti naturali. Bene, all’interno di una scatola o cassetto w'' esiste un ulteriore insieme W''', di elementi w''', noto come l'“aula della meraviglia dubitativa”.


L’esempio w''' analizzato in questo post è un’immagine presa dal film Scoprendo Forrester. Chi non ha visto il film non si deve preoccupare perché leggendo il dialogo capisce tutto lo stesso, forse. O forse resterà con il dubbio. Comunque questo è l’antefatto. Il luogo è una prestigiosa aula di un prestigioso e severo liceo americano. Il prestigioso e severo professore scrive, sulla lavagna, qualche verso di una poesia, e poi va in giro per l’aula chiedendo chi è l’autore, e sbattendo le mani per liberarle dalla polvere di gesso. Nessuno sa rispondere all’oziosa domanda del professore. Solo il signor Wallace conosce il nome del poeta. Subito dopo accade il fatto. Il dialogo tra il professore e l’allievo ribelle.

P.: “Molto bene, signor Wallace. Forse i suoi talenti vanno un po’ più in là della pallacanestro…”
W.: “Oltre.”
P.: “Come, prego?”
W.: “Lei ha detto che i miei talenti vanno un po’ più in là della pallacanestro. ‘Più in là’ denota una distanza. ‘Oltre’ è una definizione di grado. Lei doveva dire ‘oltre’.


Nella traduzione del dialogo si perde il senso della scena. Il signor Wallace assomiglia ad un fissato della grammatica e il professore ad una brava persona. Ma il professore vuole veramente dire che i talenti del giovane W. vanno un po’ più in là [del campo da gioco] della pallacanestro?
Sembrerebbe che nel dialogo originale il fatto sia più grave:

P.: “Perhaps your skills do extend a bit farther than basketball.”
W.: “Further.”
P.:“I’m sorry?”
W.: “You said my skills extend ‘farther’ than basketball court. ‘Farther’ related to distance. ‘Further’ is a definition of degree.”


Ecco da un sito la misteriosa differenza tra farther e further:

Un altro tipico caso di possibile confusione generato tra due parole molto simili in inglese è quello di Farther e Further. Le due parole si pronunciano in modo molto simile ed è facile scambiare l’una per l’altra.
Farther è la forma comparativa dell’aggettivo Far quando significa lontano ed è riferita a distanze, e quindi significa ‘più lontano’.
Per esempio: Rome is farther south than Milan (Roma è più lontana a sud di Milano)
Further significa invece ‘ulteriore’ oppure ‘in aggiunta’, ed è anch’esso il comparativo di Far, ma solamente quando significa ‘molto’ e quindi non è riferito a distanze ma a quantità, oppure quando indica il tempo in senso cronologico.
Per esempio: this case requires further investigation (questo caso richiede una ulteriore investigazione)

Il mistero, per me, rimane. Forse il suono delle mani sbattute ha confuso il giovane W.? O forse è l'indovinello zen del suono di una mano sola che ha confuso la mente del professore? L’errore del professore è veramente grave? E’ un errore capitale o veniale? Mah. Ma intanto ho dimostrato l’esistenza di almeno un'aula della meraviglia dubitativa (in verità aule estremamente rare nella scuola italiana, vere mosche bianche). By by.

Problem Solving n.2



Chiediamo al cacciatore-snidatore d’anatre celato in un umido capanno. Se tu fossi un poeta, che cosa scriveresti di bello?

Perfectly beautiful.
Superb eating.
Mother…
Mother prepares duck in the classic, old-fashioned way.
She hangs it out on the screen porch for 48 hours before cooking.
It makes all the difference in the world.
All the difference
in the world.
(*)

Chiediamo al gatto. Se tu fossi un artista, che cosa faresti di bello?

Io-felix cleptomane e clandestino, dentro uno spazio vuoto totalità inesplorata, fuori un mondo falsamente opulento e una magica notte settembrina. Nessun decoro formale, nessun'orpello, nessuna appendice superflua, solo una anatra spennata a regola d'arte e appesa a frollare (cruda o cotta, non preferisco o escludo). Nessun dio nessun demiurgo potrà graziare il cacciatore-snidatore-pendulatore-d’anatre micco, appostato tutto un mattino del mondo, dentro umido capanno, sotto pioggia uggiosa di inizio autunno. Solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, potrà dare senso a questa mia magica notte piovigginosa di inizio autunno. Io mobile felice gatto in mobile mondo pongo la mia assoluta centralità di cacciatore contro una realtà artificiale ed effimera di ghette e aghetti e corde e sgabelli e vuote ceste appese nella veranda.
Ora, sono pronto a scavalcare il presente e cavalcare l’anatra, sparendo (con essa) dentro al mio futuro.

Ora chiediamo all’artista appeso a frollare. Se tu fossi un’anatra grigia, che cosa faresti?

Cercare il metodo giusto, cercare la strada maestra (autostrada o sentiero nel bosco? non preferisco né escludo). Cercare la via per non tornare preda del ciclo delle rinascite, per non cadere ancora una volta preda del cacciatore-snidatore-d’anatre e di questa fissità funzionale. Raggiungere le mie compagne alate, alzarmi in volo, volare sopra le bianche montagne del Tibet, sopra Arcore e il Taj Mahal, e dormire - forse sognare - nella palude della mia terra natale.


(*) F.B.I. Operazione gatto (c) Walt Disney

sabato 26 settembre 2009

In a town near Albequerqe



In a town near Albequerqe
Lived a most concerned young boy
He said lately I have noticed
Folks don't live with peace and joy

With frowns and worry on their faces
They're lost and don't know where to go
He said I'll get the people straightened
By putting on a puppet show

The young New Mexican puppeteer
He saw the people all lived in fear
He thought that maybe they'd listen to
A puppet telling them what to do

You know he got some string and he got some wood
He did some carving and he was good
And folks came running so they could hear
The young New Mexican puppeteer

First he carved out young Abe Lincoln
Abe will teach 'em civil rights
Then a king named Martin Luther
So they'd recall his peacefull fight

Old Mark Twain, his wit and wisdom
Will surely show them life is fun
But he smiled with satisfaction
When the prince of peace was done

The young New Mexican puppeteer
He saw the people all lived in fear
He thought that maybe they'd listen to
A puppet telling them what to do

You know he got some string and he got some wood
He did some carving and he was good
And folks came running so they could hear
The young New Mexican puppeteer

Now his puppet shows were clever
And he made the people laugh
When he got across the message
To walk along lifes open path

They built him his own puppet theatre
Decked out with spotlights yellow and red
And then they wrote him up in all the papers
And this is what the story said

It said...

The young New Mexican puppeteer
He saw the people all lived in fear
He thought that maybe they would listen to
A puppet telling them what to do

You know he got some string and he got some wood
He did some carving and he was good
And folks came running so they could hear
The young New Mexican puppeteer
(*)

(*) Tom Jones, The young New Mexican puppeteer, (Leon Carr, Earl Shuman, (C) 1974)

venerdì 25 settembre 2009

Paese d'Ottobre n.4


Un filosofo (H. Bergson) ha scritto che visto che la distanza non è un assoluto e visto che è possibile giudicare simultanei due eventi che accadono sotto i nostri occhi, un “superuomo” fornito di una vista straordinaria potrebbe giudicare simultanei due eventi enormemente distanti. Ma a questa specie di Gulliver chi glielo dirà che la velocità della luce pare sia finita, e che l’informazione viaggia con essa?
Nel film L’armata Brancaleone mentre Brancaleone fa la sua sparata contro gli stracci penduli e le caccavelle, vediamo che l’ebreo Abacuc si è defilato, e guarda l'azione alla lontana (vedi l’immagine nel post di mercoledì 9 settembre 2009) e se rivedete il film fate caso che, nella stessa scena, c’è un personaggio ancora più lontano di Abacuc che chiama il suo cavallo scappato.
Nel post intitolato "Paese d’Ottobre n. 2" ho mostrato un’immagine presa dall’ultimo rifacimento del film La macchina del tempo. Nell’immagine vediamo l’amico di Hartdegen e la domestica di Hartdegen contemporaneamente accanto a Hartdegen e famiglia di Hartdegen; sono nello stesso spazio della casa, ovviamente di Hartdegen, ma in tempi diversi.
C’è una connessione tra le due immagini? No. Esiste una connessione tra il pensiero del filosofo-premio-Nobel e il pensiero del regista del film di fantascienza? Sì. Infatti, c'è la stessa idea dello spettatore visto come un super-spettatore. Perché la visione del film-rifatto e la lettura (di tre o quattro pagine, in verità) del filosofo-nobelizzato mi provoca questo strano malessere, un po’ come sentirsi a disagio in una stanza (alè, anche ‘sta volta giustifico il titolo del blog). Mah. Come canta il Poeta: è difficile a spiegare, è difficile capire se non hai capito già.
Ma ogni malessere ha il suo antidoto. E invece di provare faticosamente a scrivere e spiegare questo strano malessere, trasformando il post in qualcosa di eccessivamente logorroico come un parrocchiano giuseppino visto da vicino, butto là una citazione come fosse un veleno:

…dalla “periferia” italiana, da cui sapeva di non poter uscire, si rendeva conto che la “ragion pura” di Mondrian era ancora un mito ormai declinante, un sogno. L’artista “europeo” a cui si è sentito più vicino è stato Klee; ma quella che in Klee è una malinconia metafisica (sentimento dell’infinitesima piccolezza dell’io in rapporto al tutto) diventa in Licini una malinconia storica (sentimento della storia come inconscio, eterno “medioevo”). Come in questa Amalasunta, dove gli ultimi segni d’una ragione matematica, i numeri, si dissolvono nella lunga notte del tempo. (1)

Quante volte ho letto e riletto queste magiche parole… poi un giorno ho notato che i numeri che disegnano gli occhi e la bocca di Amalasunta compongono un numero: 526, l’anno della morte di Teodorico. Ed è stata una liberazione!
Lo stesso sollievo di quando ho letto, da qualche parte su Internet, che dietro il romanzo Lo straniero misterioso c’è una ricerca su un particolare tipo di folletto americano. Tutto qui, niente sogno e filosofie.
Meravigliosa leggerezza della mente liberata da un inizio d'emicrania.

(1) C.G. Argan, L’arte moderna 1770/1970. (Sansoni)

giovedì 24 settembre 2009

Ascoltando Tom Jones (n.1)

Pongo a confronto due ricette di bollito, per mostrare una verità lapalissiana e cioè che tutto il mondo è paese, almeno fino a quando restiamo all’interno dei confini della Terra. E’ un dato di fatto etnologico che agli Indiani delle Grandi Pianure la carne del bisonte piaceva frollata o al limite affumicata. Alla carne fresca del bisonte appena accoppato con un sasso a punta innestato su un bastoncino d'acero o di betulla e scagliato da un propulsore o da un arco preferivano la carne putrida di un bisonte morto affogato e rimasto a mollo nell’acqua di un fiume numerosi giorni. I maledetti film western ci hanno tutti traviato, ci hanno fatto sognare di pellerossa danzanti allegramente attorno a falò dove arrostivano bisonti sullo spiedo e uomini bianchi al Palo della Tortura. E invece gli indiani non arrostivano neppure un opossum. Essi avevano gusti e manie simili ai nostri antenati ottocenteschi. Escludo fermamente che i nostri nonni urlassero per strada i fatti loro, manco dentro un telefonino, né lo facevano gli Indiani delle Grandi Praterie. Entrambe le razze avevano una spiccata tendenza alla riservatezza e al pudore.
Un mito Mandan certifica questa particolare sensibilità e delicatezza anche in un dio (strano ma vero):

Quando il demiurgo Unico-Uomo decise di rinascere fra gli Indiani, incontrò serie difficoltà per farsi concepire da una vergine. Dopo alcuni tentativi vani, ci riuscì in questo modo: una ragazza assetata che lavorava il proprio campo in pieno sole andò a bere al fiume. Era il periodo delle piene, e l’acqua, che arrivava fino ai salici, trasportava un bisonte morto. Poiché la pelle del dorso era scoppiata, il grasso delle reni sporgeva in fuori: al vederlo, la ragazza ne ebbe voglia. Tirò la carcassa a riva e mangiò un po’ di quel grasso, che la rese incinta. (1)

Italia, fine Ottocento, Pellegrino Artusi fissa su carta lo stato dell’arte e della scienza culinaria in Italia. Non può mancare tra le sue mitiche ricette di bolliti quella del pesce lesso:

…si usa cuocere il pesce lesso nella seguente maniera: si mette l’acqua occorrente, non però in molta quantità, al fuoco; si sala e prima di gettarvi il pesce si fa bollire per circa un quarto d’ora coi seguenti odori: un quarto o mezza cipolla, a seconda della quantità del pesce, steccata con due chiodi di garofani, pezzi di sedano e di carota, prezzemolo e due o tre fettine di limone; […] Il punto di cottura si conosce dagli occhi che schizzano fuori, dalla pelle che si distacca toccandola e dalla tenerezza che acquista il pesce bollendo. (2)

Siamo in un film di Dario Argento? I due racconti mitici sono così identici da incutere un timore superstizioso. Quasi m’immagino un famelico indiano Mandan aggirarsi in cucina alla ricerca della pentola del lesso. Certo, nella ricetta del pesce lesso sono assenti i personaggi del demiurgo e della ragazza messa in mezzo, cioè manca la trama; ma anche Verne era scarso in quanto a presenze femminili nei suoi romanzi. E poi, tanto per drammatizzare la ricetta, Pellegrino Artusi potrebbe benissimo recitare in entrambi i ruoli (gli spettatori-esecutori della ricetta del pesce lesso non faranno caso ad una ragazza con la barba, se la parte è recitata bene).
Ma lasciamo andare i particolari contingenti e confrontiamo piuttosto le evidenze strutturali: il calore del sole estivo con il fuoco vivo sotto la pentola dell’acqua; il profumo dei salici e della cipolla; il bianco grasso del bisonte e gli occhi bianchi del pesce che schizzano fuori; la pelle che si distacca dalla carne putrida. Questo parallelismo nelle usanze culinarie dei colorati selvaggi di remote contrade e dei nostri grigi avi ottocenteschi non è una coincidenza oserei dire peregrina, ma è una costante, un filo rosso che tiene assieme tutte le culture umane. E’ forse il caso di accennare alla caffettiera con crosta perenne di caffè che un francese non pulirebbe mai e poi mai o alla pentola di stufato in servizio attivo per decenni tra gli Indios della Guayana olandese? E le uova centenarie dei cinesi dove le mettiamo? Ovvio, nella credenza accanto al formaggio coi bachi. E chi oserà mai infrangere il terribile tabù e svelare la Grande Madre di tutti gli aceti?
Forse un giorno gli alieni cercheranno un contatto con le galline o con le balene o con i ragni o con il lievito di birra, tutto è possibile, ma mi pare poco probabile che ci scriveranno una lettera d’amore. Siamo troppo strani, troppo alieni, perfino per gli alieni.

(1) Claude Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola (Il Saggiatore, 1971)
(2) Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene (Giunti Marzocco, 1991)


mercoledì 23 settembre 2009

Il bollito dell’Ingegner pesce


In questa immagine, presa dal film Ventimila leghe sotto i mari, si vede bene il coltello tenuto in mano da Ned Land (e che adopera a guisa di forchetta): è un coltello a punta stondata (e allora? dirà qualche lettore astioso). Ho già scritto (Wunderkammer n. 4) e non mi ripeto che Nemo è un pazzo fanatico, igienista ossessivo, permaloso e vendicativo, ma ho dimenticato di aggiungere che è anche un Ingegnere (figura professionale tipicamente ottocentesca).
Nemo ha lasciato diploma di laurea e terra ferma per vivere come un pesce nel barile del Nautilus, ma alla sua tavola i coltelli hanno la punta stondata. Coltelli da bollito.

La trasformazione della punta del coltello da acuminata ad arrotondata, come s’inizierà ad osservare nel terzo quarto del Seicento è, ad esempio, riconducibile sia alla sempre più massiccia presenza sulla tavola di carni bollite che soppiantano le carni arrosto (quindi alla storia dell’alimentazione), sia alla volontà di imporre con forza il divieto di nettarsi i denti con le punte dei coltelli durante e dopo i banchetti, il che rimanda a norme di comportamento sociale che altro non sono che codificazioni dell’autocoscienza di una classe la quale, attraverso semplici atteggiamenti esteriori, è alla ricerca di nuovi contrassegni distintivi da sostituire ai precedenti comportamenti, svalutati per la loro diffusione verso il basso. (*)

La necessità per la classe borghese di acquisire uno spazio vitale sarà condizione necessaria e sufficiente per la distruzione del centro di Firenze (ad esempio), proprio in quel lasso di tempo passato da Nemo ad affondare navi antipatiche e sperimentare nuove ricette di pesce in bollito.
I cimiteriali Viali dei Colli progettati dall’Ingegner Poggi (in realtà Nemo) sono così ricordati in un discorso tenuto da un senatore del regno d'Italia:

…ciò che costituisce il vero pregio dello Stradone dei Colli non sono le opere d’arte, ma la sua amena posizione, il non vedere lungo il medesimo caseggiati addossati e pieni zeppi di pigionali e ragazzaglia, non taberne, non officine, non infine quella classe poco amante di proprietà, che ovunque stanzi, porta abitudini e modo di vivere discordanti da quel ceto molto educato, che vuole quiete, nettezza ed anco eleganza. (**)

Osserviamo lo sguardo di Ned Land mentre fissa Nemo: un fiocinatore di balene messo a tavola con un coltello a punta stondata in mano: un vero scherzo da ingegnere, uno scherzo da Nemo. Ascoltiamo Nemo chiedere a Ned se è a conoscenza dell’invenzione della forchetta... Nemo ignora che gli utensili sono stati inventati non per motivi di decoro e igiene ma come “trasformatori e isolanti”:

…cappelli, guanti, forchette, cannucce per bere e prodotti conservati costituirono un tempo e costituiscono ancor oggi, in altre società, delle barriere destinate a contrastare una infezione emanata dal corpo stesso di colui che li usa. Invece di proteggere la purezza interna del soggetto contro l’impurità esterna degli esseri e delle cose, come pensiamo noi, le buone maniere servono, per i selvaggi, a proteggere la purezza degli esseri e delle cose dall’impurità del soggetto. (***)

Forse Ned usa il coltello al posto della forchetta per enfatizzare un segno di riconoscimento, come un tentativo umano di stabilire un impossibile contatto con un ingegnere-pesce-idrofilo. Tentativo per fortuna fallito, altrimenti dove andrebbe a finire il divertimento?
E Ned resterà solo, a ridere e giocare con la foca del Capitano, e tentare sempre nuove vie di fuga dal Nautilus.
E noi con lui.


(*) Claudio Paolini, A tavola nel rinascimento. Luoghi, arredi e comportamenti (Edizioni Polistampa, 2007)
(**) Claudio Paolini, Il sistema del verde. Il viale dei colli e la Firenze di Poggi (Edizioni Polistampa, 2004)
(***) Claude Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola (Il Saggiatore, 1971)

lunedì 21 settembre 2009

Paese d'Ottobre n.3

Tutti sanno che non è consigliabile soffiare sul muso ad un cane sconosciuto, soprattutto se il cane è un grosso cane e per di più nervoso, perché aspetta di entrare dal veterinario. Chi soffierebbe sul muso di un Dogue de Bordeaux sconosciuto? Un cane che pesa almeno 50 chili ed è alto 68 cm al garrese.
Eppure io soffio sul muso al mio boxer, lui mi guarda fisso negli occhi e poi saltella qua e là per la stanza invitandomi al gioco. Siamo in un abisso dell'etologia?

domenica 20 settembre 2009

Paese d'Ottobre n.2

Tutti sanno che sono esistite quattro macchine del Tempo. La prima è quella del Viaggiatore nel Tempo di H. G. Weels (*), la seconda è quella di George (la più bella), la terza è l’automobile di Doc e la quarta è la macchina di Hartdegen.

I viaggiatori nel Tempo visitano di solito il futuro ma anche il passato, solitamente si innamorano (Doc di una maestra dell'Ottocento, George di una futura analfabeta), e poi tornando nel passato, cioè nel loro presente, trovano gli amici e le cose come le avevano lasciate. Il tempo per loro è come un libro da sfogliare, si può fare un’orecchia ad una pagina o metterci un segnalibro, rileggere una pagina, ecc. Tuttavia anche per il Viaggiatore non è possibile leggere contemporanemente due pagine del libro del Tempo.


George visita il futuro. Settembre 1917 (per noi - per fortuna - è già passato). La sua casa è ridotta ad una soffitta. E quando George è con Weena, nell’ottobre dell'anno 802701, il suo amico e la sua casa sono polvere nel vento. Ma quando l’amico di George riflette con la domestica di George sulle tracce lasciate sul pavimento dalla macchina del Tempo (vedi post settembre 2008), George e Weena ancora non sono in nessun luogo, perché come dirà giustamente Weena non esiste il futuro, non esiste il passato.


Ma qui vediamo l’amico di Hartdegen e la domestica di Hartdegen contemporaneamente accanto a Hartdegen e la sua famiglia; sono nello stesso spazio della casa e del bosco ma in tempi ovviamente diversi; ma come è possibile? Lo spettatore vive forse in un tempo fuori dal tempo? Questa domanda mi provoca un malessere strano, come se da qualche parte in soffitta ci fosse una scatola contenente il passato e una scatola contenente il futuro.

Sfogliando libri illustrati con fotografie dell'Ottocento, per esempio di strade e persone, si nota che alcune figure umane o animali sono sfocate e mosse, altre figure sono addirittura trasparenti, evanescenti come fantasmi. Questo effetto è causato dal tempo di posa. Nella copertina del mio libro Opus incerta il cane boxer è a fuoco perché chi ha scattato la foto era vincolato al cane dal guinzaglio, e si muoveva alla stessa velocità, il muro sullo sfondo è sfocato. Un po’ come quando sul treno fermo alla stazione, guardando fuori dal finestrino, vediamo il treno accanto mettersi in movimento e invece siamo noi che ci muoviamo. Se il narratore è vincolato da motivi sentimentali alla vita dei personaggi ci gira attorno come se fossero statue, e l’ambiente è confuso, mosso, sfumato. Se invece il narratore è fermo (o si muove con una velocità mentale diversa da quella dei personaggi) allora l’ambiente è fermo e sono i personaggi ad essere fuori fuoco. La visione di quelle vecchie foto ingiallite mi fa pensare all’esistenza di infiniti viaggiatori nel Tempo. Essi sono spiriti, spiriti fraterni, ombre colorate e sfuggenti nell'ombra della sera.


(*) H. G. Weels, La macchina del Tempo (Editore Mursia)

Dalle ceneri del tabacco al miele dei fuchi marini (Wunderkammer n.4)

Come ho scritto in un post della serie dedicata alla wunderkammer, una “camera delle meraviglie” (o semplicemente un generico elemento w di W) può anche essere una camera che non rientra completamente, o affatto, nella definizione canonica di W, e cioè l’insieme di tutti i w contenenti manufatti, oggetti strani e reperti della natura. O, in altre parole, manufatti, stramberie e reperti naturali provenienti da ogni angolo del mondo erano amorevolmente custoditi, con un ordinamento puramente casuale, in stanze qualunque e senza nome che successivamente presero il nome di wunderkammer dall’esclamazione di meraviglia del visitatore e ospite del collezionista.

Una collezione di elementi w dell’insieme W formano un sottoinsieme W’ definito come l’insieme delle “camere delle necessità appagate” (o semplicemente l’insieme W’ degli elementi w’). In che senso? C’è un tizio x che entra in una stanza qualunque y con una necessità qualunque in testa, afferra visivamente il contenuto della stanza, ed esulta in esclamazioni di meraviglia e zompi pindarici, lì in quella stanza, in quella piccola porzione dell’ecumene, o, in altre parole, là in quella piccola zona della parte non acquorea del globo terrestre il tale ha trovato la più completa ed esaustiva soddisfazione alla sua necessità, qualunque essa sia (sia detto tra parentesi un qualsiasi elemento w’ appartenente all’insieme W’ non ha nulla in comune con la “camera delle necessità” di Harry Potter, essendo quella una stanza magica e queste stanze reali).
Vedi un esempio di w’ nel post Wunderkammer (3).

Ora, un particolare sottoinsieme di W’, che chiameremo W”, è l’insieme degli elementi w” che pur non avendo l’aspetto e la forma canonica di stanza sono comunque recipienti, contenitori, scatole o piani di appoggio di manufatti, oggetti strani e curiosi e reperti naturali. Un classico esempio di elemento w” è mostrato in questa immagine (presa dal film Il buio oltre la siepe):



Una analisi, anche solo superficiale, della “scatola delle meraviglie” non può essere affrontata adesso, cioè in questo post. Mi riservo di trattare in modo esauriente tale elemento w” di W” prossimamente su questo blog. Ma adesso sono spinto da altre motivazioni e urgenze, insomma mi frullano in testa forchette, coltelli e sedie. Così l’elemento w” di questo post sarà una tavola imbandita di piatti strani ed esotici. E dato che l’abbiamo estratta da un insieme particolare o sottoinsieme dell’insieme di tutte le wunderkammern abbiamo ancora una wunderkammer. Siamo a un passo dell’abisso della Logica, ma c’è sempre un sentiero, un appiglio, una cengia, a cui afferrarsi.


Il capitano del Nautilus, il misterioso Capitano Nemo, e i suoi tre ospiti-forzati: un professore di scienze naturali, il suo servitore Consiglio e il fiocinatore Ned Land. Il professore di scienze della natura non è classificabile: né carne né pesce, pare una diafana ameba moraleggiante. Il servitore del professore all’apparenza è un ottimo esperto in classificazioni e catalogazioni di reperti botanici e zoologici, ma in realtà è M il mostro di Dusseldorf.
Di Nemo sappiamo poco o nulla, solo che vuole essere appellato Capitano Nemo e non “amico” come lo chiama Ned, (inoltre desidera che il suo nome sia scritto in corsivo). Resta da esaminare il carattere del fiocinatore. Ecco come Jules Verne descrive Ned Land:

Molto alto, oltre sei piedi inglesi, di proporzioni vigorose, d’aspetto austero, poco ciarliero, talvolta violento, si arrabbiava facilmente quando veniva contraddetto. (*)

Chi ha visto il bellissimo film di Walt Disney sa che questa descrizione calza perfettamente al personaggio, proprio come una scarpa sinistra, di misura 38, al piede destro della creatura del dottor Frankenstein. Ad occhio e croce credo che Ned Land abbia, nel film, circa 9999 battute, oltre a numerosi siparietti comici e caroselli (in uno di questi ha per spalla una foca domestica, che gira per il sommergibile e fa le veci del cane del Capitano Nemo), Ned canta anche una canzoncina allegra (Ho una storia incredibile da raccontarvi, una o due storie grandi quanto una balena ecc.), schitarrando e sculettando allegramente. Ora, uno che canta che ha una o due storie grandi quanto una balena da raccontare e giura della loro veridicità sul suo tatuaggio, come può essere definito, o classificato, di carattere “austero, poco ciarliero, talvolta violento”. Violento? Mah. Facile all’arrabbiatura quando viene contraddetto? Forse, ma mai quanto il folle, fanatico e pazzoide capitano Nemo. Vero è che, a scusante di Verne, lo scrittore si era limitato a trascrivere i ricordi del professore-ameba, il solo testimone istruito, dei fatti accaduti sul Nautilus, e di conseguenza l’unico a poter parlare con cognizione di causa. Ed eccoci arrivati al nocciolo del post. Solo a un pazzo fanatico igienista ossessivo violento permaloso e vendicativo può venire l’idea di vivere perennemente sott’acqua come una spugna, elargendo a tre poveri naufraghi affamati un menù di filetto di serpente di mare, petto di pesce palla con salsa di spugna e crostacei in padella, crema di latte di capodoglio gigante, cetrioli marini canditi, soufflet di polipo nato morto (ricetta personale del Capitano, e citata nell'Artusi).


L’effetto della descrizione del reale contenuto del cibo sui naufraghi, e in particolare su Ned e M, è palese. Il professore, da vero scienziato aperto a tutte le esperienze, definisce la serpe d’acqua salata ottima, anzi migliore del coniglio (avesse trovato nel piatto un ragno di mare l'avrebbe sicuramente preferito ad una mosca nella minestra). Parlando in generale, la conoscenza diretta degli usi e costumi del cuoco che ha preparato la pietanza rende la pietanza assai poco appetibile, e una visita alla cucina di un qualsiasi ristorante la rende vomitevole. Ma Nemo elogia il suo cuoco e la sua cucina (ecco le frasi riportate dal professore-ameba e trascritte da Jules Verne):

Quello che credete sia carne, non è altro che filetto di tartaruga marina; ecco un piatto di fegato di delfino, che prenderete per un umido di maiale. Il mio cuoco è molto abile, eccellente per conservare i vari prodotti dell’Oceano. Assaggiate tutti questi cibi; ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe senza rivali al mondo; ecco una crema di latte fornito dalla mammella dei cetacei, e lo zucchero dai grandi fuchi del mare del Nord, e infine permettetemi di offrirvi marmellata di anemoni che sono migliori dei frutti più saporiti. (*)

Il Capitano Nemo ha lasciato, e per sempre, la terra ferma. Questo è un fatto. Gira con il suo sommergibile personale, il Nautilus, in lungo e in largo gli oceani affondando i bastimenti che gli stanno antipatici a vista. Il Capitano Nemo ha lasciato, e per sempre, la terra ferma, e con essa le genti e le usanze e gli odori e i sapori e i suoni e i silenzi e le ombre di tramonti d'estate, ma si porta dietro tutto il bagaglio, ben stipato nella testa, come un mollusco che si porta a presso la casa.
Il Capitano Nemo ha un cane (ma in realtà è una foca domestica); fuma sigari avana in un locale per definizione chiuso (ma in realtà sono alghe pressate); suzza intingoli vagamente terrestri (ma in realtà sono alghe e cicorie marine e fegati di delfini). Proprio come un vegetariano che mangia solo spezzatino, cotolette e polpette di soia, beve latte di soia e caffè di cicoria e fuma sigari di soia. C’era bisogno di andare in fondo al mare, ventimila leghe sotto i mari? Tanto valeva fare la spesa una volta alla settimana all’Esselunga di Sesto Fiorentino.
Ma guardiamo il Capitano Nemo guatare cupo Ned Land che mangia, al solito modo "austero" e ancora all’oscuro della reale sostanza del cibo, con un coltello a punta stondata. Ascoltiamolo mentre gli chiede se è a conoscenza dell’invenzione della forchetta. Osserviamolo mentre intinge (una persona normale inzuppa, il Capitano Nemo intinge) una scheggia di osso di seppia in una tazza bianca dal contenuto a noi oscuro e successivamente ne versa la sinistra miscela in una coppa di cristallo colma di un liquido color sangue (vino? O in realtà urina di squalo malato alla prostata?).
Ma, soprattutto, notiamo che in mezzo alla tavola c’è un acquario!!! Quale crudeltà costringere dei poveri pesci in una boccia d'acqua salata quando tutt'attorno c'è il mare. E mica sono pesci d'acqua dolce, macché (la coerenza di Nemo ne risulterebbe offesa).
Questa tavola imbandita di morte e di vita è una camera delle meraviglie. Ci si meraviglia di come tanti esseri umani si comportano tutti i giorni come il simpatico Capitano Nemo. Quelli che ridono ai funerali perché il defunto è andato in un mondo migliore; quelli che non potendo bruciare l'eretico hanno inventato l'inferno; quelli che gioiscono degli accidenti e delle malattie del prossimo e del vicino perché sono accidenti e malattie sempre miscelati e pesati dalla Divina Provvidenza e sempre al limite di sopportazione del Giobbe di turno (oltre al dio ortopedico di longhiana memoria esiste anche il dio farmacista?). Insomma quelli: i veri credenti dalla certa fede nella vera religione.

(*) Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari (BUR)

venerdì 18 settembre 2009

Paese d’Ottobre, n.1

“…paese dell’anno che volge sempre alla fine. Paese con alture di caligine e fiumi di foschia; dove i meriggi fuggono, i vespri e gli albori indugiano e le notti rimangono. Paese fatto più che altro di cantine, cellieri, carbonaie, soffitte, credenze, sgabuzzini, tutti sul lato opposto al sole. Paese di gente autunnale, con pensieri soltanto autunnali, il cui passo di notte sui marciapiedi ha suono di pioggia…” (*)

Con questo post metto in rete una serie di riflessioni, per l’appunto, autunnali, e talvolta con immagini autunnali, perché ormai siamo alle porte coi sassi del 2009, e del blog cg-cad.

La fede sta nella credenza, dietro il barattolo del caffè, accanto al miele.

Le mattine si sono fatte più oscure, sembra di vivere in cantina, accanto a bottiglie di vino da pasto, fosse solo quello, ma le etichette mostrano le facce ridenti di Hitler e Mussolini e il Che (e quello sul tappo chi è?).

Chi si lagna per Cartagine in fiamme, chi s’indigna per l’assassinio di Cesare? Penso nessuno. Cesare, infatti, è dovunque (o dappertutto?) sul mercato, probabilmente esiste anche una linea di spugne e saponette con il suo nome.

L’indignazione (e il pianto) nell’opinione pubblica segue le regole dell’igiene cimiteriale.

Chi si è scandalizzato (in Italia) nel vedere bottiglie di vino con le facce ridenti di Hitler e Mussolini? Solo una ingenua francese in gita ha protestato indignata. E un lettore di un giornale on-line ha così commentato la notizia: se ne stia a casa.

Un frammento di Blob di qualche anno fa: la buonanima di G. Funari declama a tutto volume: ‘sti americani mi hanno proprio rotto il c****, e poi vedi una spiaggia deserta in Normandia.



(*) R. Bradbury, Paese d’ottobre (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2001)

giovedì 17 settembre 2009

Wunderkammer (3)

La wunderkammer o “camera delle meraviglie” era una stanza dove si conservavano, in passato, manufatti, oggetti strani e curiosi e reperti provenienti dai tre regni della natura. Manufatti, oggetti e reperti provenivano da ogni angolo del mondo. Questa è la definizione classica di wunderkammer.
Ma una particolare wunderkammer può essere definita, ora e adesso (o adesso e ora?) come la camera delle necessità appagate. In che senso? Vedi un tale che entra in una stanza qualunque con una necessità qualsiasi in testa, vede il contenuto o l'arredamento della stanza, ed esulta in esclamazioni di meraviglia e zompi pindarici, lì in quella stanza, in quella piccola porzione dell’ecumene, o, in altre parole, là in quella piccola zona della parte non acquorea del globo terrestre il tale ha trovato la più completa ed esaustiva soddisfazione alla sua necessità, qualunque essa sia. Non ci interessa adesso scendere in particolari. E ora l’esempio.



Ma prima, solo per capire il senso di ciò che può fare una stanza normale ad una persona relativamente normale ed equilibrata presentiamo il professor Oliver Lindenbrook dell’università di Edimburgo, ricoprente la cattedra di Geologia intorno all’anno di grazia 1880 (così nel film, nel romanzo omonimo di Verne si chiama invece Otto Lidenbrock e vive ad Amburgo, nella metà dell’Ottocento). Eccolo nell'immagine con nipote, stressato dall’attesa di una risposta che non arriverà mai da parte della massima autorità in fatto di sassi, il professor Goetaborg di Stoccolma, cui ha scritto una dettagliata relazione sull’incredibile scoperta. Il professor Lindenbrook ha scoperto casualmente un manufatto, un peso, inglobato in una pietra lavica (donatagli dal suo allievo preferito Alec McEwen) con una esile scritta, tracciata forse col sangue:

Sto morendo, ma il mio lavoro non deve andare perduto.

Chiunque scenda nel cratere dello Sneffels Yocul può raggiungere il centro della Terra.

Io l’ho fatto.

Arne Saknussem.

P.S.
All’alba dell’ultimo
giorno
di maggio,



il Monte



Scartaris



indicherà




la



via



.

Strano ma vero, uno parte per il centro della Terra senza lasciare dietro di sé minima traccia delle sue intenzioni, e poi si dissangua nel tentativo disperato di non sparire nel nulla, di lasciare una traccia, un labile segno, l’indicazione effimera di una via. Be’, non poteva scrivere prima di partire un promemoria? Magari poteva lasciarlo depositato da un notaio o spedirlo a se stesso. Potrebbe essere uno scherzo goliardico? Come le bottiglie di vino con l’effige di Hitler e Mussolini vendute in Alta Italia. No. Il professor L. non lo crede. E neppure l’eminente collega svedese, l’esperto in sassi. Infatti, nel frattempo non ha posto tempo in mezzo e sta correndo a tutta randa alla volta dell’Islanda, lasciando in Svezia moglie, etica e correttezza (poi la moglie lo raggiungerà).


La camera delle meraviglie e il professore L. e il suo allievo e assistente Alec McEwen (nel romanzo si chiama Alex Lidenbrock, ed è nipote del professor Otto, qui invece è fidanzato con la nipote del professor Oliver). Mostra le spalle il “giovanotto dal dente d’oro” Hans Belker di Reykjavik, di professione allevatore di oche (nel romanzo invece è un cacciatore, sempre di nome Hans).
I tre sono penetrati furtivamente nella camera n. 29 di un albergo di Reykjavik, già ospitante l’eminente ladro professor Goetaborg di Stoccolma. La camera è una wunderkammer perché appaga totalmente il desiderio del professor Lindenbrook di rifornire la spedizione Lindenbrook, di tutto il necessario, e senza spendere un penny (va be’ sarà un luogo comune, ma il professore è scozzese, come un certo Uncle Scrooge).
L’equipaggiamento più moderno e alla moda che si trova in commercio per giungere al centro della Terra è squadernato sotto gli occhi famelici e le mani rapaci del professore. Tra le altre cose non possono mancare certo le lampade Ruhmkoff. Autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata. E’ sufficiente caricare la bobina d’induzione per generare corrente e luce bianca. E attrezzature per la respirazione, del tipo usato nelle miniere del Galles. E ancora scarponi da montagna e alpenstock. E poi coperte e bende e pannolani. E viveri per mesi.
Ma dov’è il legittimo proprietario di tutto questo bendidio? Dov’è il professor Goetaborg?
Lo svedese giace morto nella camera accanto, morto avvelenato da cianuro, somministratogli in una tazza di tè dall’ultimo discendente di Arne Saknussem, il conte Saknussem, vera gloria cittadina. La salma deposta su una panca e coperta pietosamente con una ruvida coperta attende l’arrivo della vedova. La bella vedova (Carla Goetaborg) prima negherà il permesso al professor L. di mettere le mani su tutto il bendidio, poi legge il diario del marito e cambia idea.


L’immagine mostra l’effetto del dono sull'animo del professore.



martedì 15 settembre 2009

Wunderkammer (2)

Come primo esempio di wunderkammer si inizia con la wunderkammer per definizione, la più folle e la più bella, la più segreta e la più desiderata: il laboratorio del barone Frankenstein.
Laboratorio passato in eredità al nipote, il dottor Frederick Frankenstein (Frankenstein Junior).


Il trio davanti al laboratorio non più segreto…

…e il laboratorio: wunderkammer! (*)


...con annessa sala di lettura, per fumatori e suonatori di violino. (*)
Notare la candela quasi del tutto consumata nel tempo trascorso tra il sonno e la veglia.


(*) L'immagine è stata creata con Autostitch, programma freeware finalizzato alla generazione di immagini panoramiche (vedi anche post di agosto 2009).

lunedì 14 settembre 2009

Il razzismo è cosa vostra

Nella raccolta di scritti e racconti della scrittrice cattolica e americana Flannery O’Connor, edita da Rizzoli con il titolo (preso da un racconto) La schiena di Parker, c’è un racconto su due campagnoli razzisti del Sud.
Due campagnoli naturalmente razzisti, e scrivo naturalmente per distinguerlo da quel razzismo articolato e giustificativo fatto di ego e frasi intelligentemente becere che ammorbano la bocca e la testa di un certo numero non precisato di italiani (prima avevo scritto troppi, ma chi sono io? uno statistico?), e che genera comunque il male per conto del bene. Avete presente la frase: questo non si può dire sennò si passa da razzisti? E allora giù a dire il peggio e il peggio del peggio del peggio ecc. Almeno prima c'era un pudore condizionato dalla presenza di un vicinato qualsiasi. Zitto. Ci sono i bambini. Almeno. Ora, urlare caz*** nel telefonino è prassi, e chi non urla caz*** in tram per strada nel giardino di cosa sua è un razzista.
I personaggi del racconto Un negro artificiale sono un vecchio e un bambino (il nipote del vecchio). Ora, voi che razzisti non siete, non state a pensare alla canzone Il Vecchio e il Bambino di Francesco Guccini. Ché questo bambino non starebbe mai ad ascoltare il nonno (neppure sulla soglia della morte), ammesso che quel vecchio avesse qualcosa da raccontare al bambino, anche fosse in punto di morte. Insomma due bei personaggi americani, a tutto tondo, come il Tondo Doni.
Il bambino, soprattutto, è un gran saccente, probabilmente ha un futuro da predicatore. Si picca di conoscere la Città, una piccola cittadina di provincia, solo perché c'è nato, e poi portato via, morti i genitori. In realtà non sa nulla, non ha visto nulla. Poco più su, ma proprio di poco, nella scala evolutiva c’è il vecchio, che stanco della saccenza del nipote decide di portarlo a visitare la Metropoli.
In treno il vecchio attacca bottone un po' con tutti, cioè rompe il c**** un po’ a tutti, e intanto guarda di sbieco il nero in divisa da ferroviere, bofonchiando frasi razziste, mentre il bambino ripete come un mantra: "Sono nato in città. Ci sono nato. Questo è il mio secondo viaggio".
Nello scendere dal treno, in fretta e furia per paura di restarci sopra, nonno e nipote dimenticano il sacchetto della colazione. In giro per le strade il vecchio, gran viaggiatore a riposo, è solo preoccupato di non perdere di vista, con la coda dell’occhio, l'edificio della stazione. Girano e girano, guardano le vetrine dei negozi, e infine, fatalmente, si perdono. Allora il bambino (spinto dal nonno) chiede la strada a una donna di colore (e in questo passo straordinario, c’è la scoperta non espressa in parole della sensualità). E poi via, di corsa verso il bus che porta alla stazione dei treni. Ma, esausti, si siedono sul marciapiede. E il bambino, stanco e affamato, si addormenta. E il nonno (visto il personaggio, che altro può fare a questo punto?) è spinto dal suo sé profondo, a fare uno scherzo al bambino addormentato sul marciapiede, per punirlo della sua saccenza. Il vecchio insomma si ammanta della veste del predicatore. Il vecchio si nasconde dietro l’angolo di una casa e poi dà un gran calcio a un bidone della spazzatura:

Nelson scattò in piedi, con un grido. Guardò il posto in cui avrebbe dovuto trovarsi il nonno e sbarrò gli occhi. Parve girare su se stesso, parecchie volte, vertiginosamente, poi buttò indietro la testa e sfrecciò lungo la via come un puledro imbizzarrito. Il signor Head saltò giù dal bidone e gli galoppò dietro, ma il bambino era quasi fuori vista. Il vecchio colse una pennellata grigia che spariva, diagonalmente, un isolato più avanti…

Il bambino nella sua fuga cieca e disperata alla ricerca del nonno creduto perduto sbatte contro una vecchia. Urli e imprecazioni. Si radunano altre persone, soprattutto donne. La vecchia invoca la presenza di un angelo della strada (un poliziotto). Infortunio e danni. Il vecchio annusa l’aria e rallenta il passo. Adesso avanza "a passo di lumaca". Ma il bambino vede il nonno e con la spontaneità dei bambini gli si aggrappa ai fianchi. E' suo il bambino? Mai visto prima! Dietro le spalle forse sta avvicinandosi un poliziotto. Le donne fissano il vecchio con orrore, lo lasciano andare con una sorta di liberazione, come un tempo i marinai lasciarono afferrare Giona dalla balena. Il poliziotto non c'è. Tutto si è concluso. Il sipario è calato sul dramma.
Restano sulla scena solo un vecchio. E un bambino. Camminano così, verso la stazione dei treni, il vecchio macerato dal dolore, e il bambino che segue da lontano il vecchio dannato:

Alla fine, lanciò un'occhiata breve e speranzosa alle sue spalle. A dieci passi, vide due minuscoli occhi neri che gli affondavano nella schiena come i rebbi di un forcone.

Il vecchio vede una fontanella, ha sete, ma sa di non meritarsi l'acqua, tuttavia spera che la sete comune possa ravvicinarli. Ma il bambino non beve. Il vecchio sente l'odio del bambino, sa "che, se per un miracolo fossero scampati agli assassini in città, le cose sarebbero andate avanti così per il resto della sua vita." Alla fine il vecchio incontra un uomo grasso con due bulldog:

Agitò le braccia, come un naufrago su un'isola deserta. "Mi sono perso!" gridò. "Mi sono perso e non riesco a trovare la strada, e io e questo ragazzo dobbiamo prendere il treno e non riesco a trovare la stazione! Oh, Dio, mi sono perso! Oh, Dio, aiutami, mi sono perso!"

Adesso la via è nota, ma il vecchio sa che tutto è perduto. "Casa sua non significava nulla, per lui". Poi, accade il miracolo. Il vecchio e il bambino si imbattono in una statua in gesso di un negro. Tale è la meraviglia comune che spinge il vecchio a una battuta di spirito:

“Non ne hanno abbastanza di negri qui. Ne vogliono anche uno artificiale."
E il bambino annuì e disse: "Andiamo a casa, prima di perderci ancora."

domenica 13 settembre 2009

Wunderkammer (1)

Percezioni, e poi costruire un principio della connessione delle percezioni, esperienza, e precisamente una sola esperienza, riducendola a sistema.
Non si può fare altrimenti che…
La frenologia in Vienna:
una filosofia
Xenien, regali
di un ospite.

La realtà
delle idee
nella filosofia.
Far la punta a qualche penna”.(*)

Cos’è una wunderkammer? La wunderkammer o “camera delle meraviglie” era una stanza dove, a partire dal Cinquecento, si conservavano manufatti (artificialia o mirabilia), oggetti strani e curiosi (curiosa) e reperti provenienti dai tre regni della natura (naturalia). Manufatti, oggetti e reperti provenivano da ogni angolo del mondo. Più la cosa era stramba ed esotica, e difficile da inquadrare e catalogare più affascinava e stregava il collezionista. La wunderkammer è definita anche come un “teatro del mondo”, perché doveva riflettere in forma microcosmica l’intero cosmo. Un esempio moderno di wunderkammer è il Voyager Golden Record, un disco fonografico inserito nelle due navicelle Voyager, lanciate nel 1977, e contenente suoni naturali e umani (per esempio il suono di un treno che passa accanto a un passaggio a livello), brani musicali, una breve frase di saluto in 55 lingue e 115 immagini (insieme al disco fu inserita nella navetta anche una testina di lettura e le istruzioni per l’uso, scritte in geroglifico).
Le pareti della wunderkammer erano tappezzate di scaffali, mensole, armadi, armadietti e stipetti. Dal soffitto pendevano ossa e animali impagliati. Si è scritto che il museo è il tentativo di mettere ordine al caos delle wunderkammern.
Una wunderkammer degna di attenzione (come oggi una fornita edicola piena di giornali, riviste e fumetti allegati a gadget di ogni tipo e natura) doveva contenere al suo interno almeno una testa con gambe, strane bestie lumacose fuoriuscenti da conchiglie, sirene e tritoni essiccati, piante zoomorfe, facce lunari, ali di pipistrello e creste di drago, piattole e ragni, erbe aromatiche e medicinali, demoni con ali d’angelo, demoni cinocefali, demoni con proboscide d’elefante, ornitorinchi, un tapiro imbalsamato, crani di polifemi siculi, innumerevoli pietre del fulmine, demoni unicorni e bicorni, tessuti, tappeti e stracci penduli, porcellane cinesi e vasi attici, cappelli piramidali, un coniglio nel cilindro, mazzi di carte da gioco e statue di Budda, misteriosi animaletti e pesci degli abissi marini conservati in vasi di vetro colmi di alcool, la testa di Michail Aleksandrovič Berlioz, universi dentro palle di vetro, rocce zoomorfe, il corno di un unicorno, macchie di muffa sui muri, cadaveri decomposti, essiccati, scorticati, mummie egizie ridenti, larve e coleotteri, scheletri in pose di ballerini di tango. E dalle ampie finestre il visitatore doveva sempre vedere, attraverso vetri di purissimo cristallo, nuvole bianche nel cielo di un azzurro che sfidava ogni analisi.
Be’, se è vero (come si legge in Wikipedia) che la wunderkammer nasce nel Cinquecento, o al limite nel Medioevo con il collezionismo, è un fatto che il primo collezionista nella storia umana è un neandertaliano. «Due masse di pirite di ferro formate da sfere ruvide agglomerate, uno stampo interno di una grossa conchiglia di gasteropode fossile, un polipaio sferico dell’Era secondaria» (**), furono raccolti dai nostri lontani cugini neandertaliani, forse perché strani, bizzarri, vere curiosità naturali, e custoditi nel fondo della loro caverna, situata nei pressi di Arcy-sur-Cure. La prima vera wunderkammer. Questi oggetti naturali rappresentano la prima collezione naturalistica di una specie umana non sapiens.
E già che ci sono che dire dei tesori di doni votivi conservati nei templi greci? L’esplosione del Partenone, al tempo dei turchi, è, volendo, una metafora dello smembramento del pensiero antico (arte e artigianato, poesia e filosofia e religione), e il conseguente precipitato sono le wunderkammern. Ci penserà la scienza a rimettere a posto il puzzle esploso e dare ordine al cosmo.
C’è da commuoversi…


…ma prima di commuovermi chiudo il post, con l’avviso al lettore che - chiusa la serie delle stanze parallele - questo è il primo di una serie di post dedicati all'esame visuale delle “camere delle meraviglie”, con esempi presi dal cinema.

(*) I. Kant, Ultimi appunti (citato in P. Bozzi, Fisica ingenua, Garzanti 1998)

(**) A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (Einaudi, 1977)

venerdì 11 settembre 2009

Una stagione di leggerezza assoluta


Le Grandi Vacanze (1967), capolavoro assoluto di Louis de Funès (quello relativo è Tre uomini in fuga, visto che c’è Bourvil a contenderne il merito), è un’opera d’arte solare e lieve, emblema di una stagione fuori dal tempo, una stagione di leggerezza assoluta. Le Grandi Vacanze è un’opera pittorica dove le cose, le persone, i sentimenti, gli stati d’animo sono tutti risolti sul piano, sulla superficie dello schermo.
Qualche immagine scelta casualmente servirà da illustrazione delle citazioni dalla Breve ma veridica storia della pittura italiana (*), un manuale scritto da Roberto Longhi per i suoi allievi dei Licei Tasso e Visconti di Roma, nel 1914.

Stile lineare

“Quando si voglia, per esempio, esprimere la articolata nervosità di un corpo per mezzo di puro contorno, ecco l’artista imprimere tale vibrazione ondulata alla linea marginale da sintetizzare con essa lo scatto e lo spostamento della materia corperea inclusa nel rigirarsi del contorno, materia che egli non rappresenta e che pure esprime per mezzo di una cosa diversa: la linea. La quale quando come in questo caso abbia per iscopo di esaltare l’energia vibrante del corpo può chiamarsi: linea funzionale.” (*)

Stile plastico

“Non più esprimere il mondo visivo per mezzo delle vibrazioni energetiche o blande della linea funzionale o floreale, anzi esprimere semplicemente la convinzione plastica corporea delle cose: il mezzo non può essere che uno solo: la luce, la quale piovendo sulle cose rappresentate da una fonte determinata, e con certa intensità, sopprime tutti gli scarti analitici della luce reale che, spostandosi, gioca eternamente con le cose, e squadrandole invece in masse nettamente distinte da emergenze di luce e gorghi d’ombra ne accentua il rilievo: quest’accentuazione costante della forma e della corporeità degli oggetti è appunto ciò che dà valore di stile alla visione plastica” (*)

Stile plastico-lineare

“…non è strano che il pittore intento ad esprimere la convinzione plastica – una semplice convinzione di esistenza – delle cose pensi anche ad affermarne il senso organico imprimendo ancora al contorno la vibrazione lineare; la linea che può entrare in campo, qui, è naturalmente la linea funzionale…” (*)

Stile prospettico di forma

“Sentire dei corpi regolarmente appostati in quel cubo di spazio che la tela apre alla nostra visione è già sensazione inizialmente architettonica; ma una volta che in quei corpi vibrì un contorno funzionale noi sentiamo in essi la possibilità del movimento, quindi l’arbitrio di sottrarsi all’imperativo del luogo loro assegnato: come rendere assoluto quell’imperativo, allora? A questo pensa la visione prospettica di forma… " (*)


(*) Roberto Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana (Sansoni 1988)

mercoledì 9 settembre 2009

Via gli stracci penduli!


Esiste una connessione tra il romanzo David Copperfield e il film L’armata Brancaleone?

Forse esiste una connessione tra il bambino David “senza casa” e il vecchio ebreo Abacuc che si trascina dietro il cigolante baule a rotelle, l’intera sua casa. Nell’Ottocento il genere letterario basato su storie di bambini orfani e senza casa, che per tutta la storia cercano una casa e una famiglia è prosperato arrivando fino ai giorni nostri, fino alle stupende storie di Carl Barks.

Zie e nonne adottive abbondano in questi romanzi, esse spuntano come funghi ai bordi di strade fangose in inverno, polverose in estate. Eppure questi bambini sono particolarmente sfortunati, oltre che orfani, perché devono percorrere chilometri a piedi, consumando le suole delle scarpe, prima di pestare casualmente un brandello di traccia che li condurrà miracolosamente alla porta della zia (nel frattempo morta o in viaggio per l’Australia). E quando le zie adottive sono stranamente assenti, cioè sono morte o si sono trasferite in Australia, ci sono sempre le dispettose, perfide fate turchine.

Ma con tutta la nostra buona volontà questa connessione, questa corda che lega assieme il bambino orfano del romanzo dell’Ottocento (e in particolare David Copperfield) con Abacuc alla prova dei fatti si sfilaccia e si spezza. Forse un legame si può trovare tra Abacuc e Tom Sawyer, infatti, tutt’e due se ne fregano di essere orfani e infedeli e senza casa. Anche se uno è un bambino, un ragazzino, l’altro in fondo è un vecchio rimbambinito. Tutt’e due sono capaci di leggere: cartapecore che promettono ricchi feudi in Puglia; libri di storie di pirati, banditi e tesori nascosti. Ma poi le loro strade giungono ad un bivio e divergono. Tom trova il tesoro, Abacuc muore. No, una connessione c'è, ma non è tra bambini-adulti, bambini che lavorano come adulti, ma tra adulti-bambini che giocano tutto il giorno come bambini. Certo, capita anche ai bambini ritornando a casa - finite le grandi vacanze - di non ritrovarsi più in quel gioco, che ora è solo routine. Finzione. Un plastico di una favolosa e magica città è diventato nell'arco di una stagione solo un ammasso di carta e cartone scollato.



Succede la stessa cosa agli adulti. Viaggiatori che tornano da un viaggio e tutto quello che vedono, case facce negozi vigili e strade, è surreale, come se la colla delle abitudini non tenesse più assieme le cose e le persone, mostrando la trama della tela sottostante. Ai vecchi che tornano dall’ospedale la televisione pare un acquario di pesci rossi, il vecchio pesce rosso morto, sul fondo, non fa effetto più di tanto, preferiscono parlare del tale che hanno lasciato nel letto accanto (poi gli passa).

Un passo fondamentale in David Copperfield chiarisce la realtà di un'altra connessione. E’ l’addio di David alla famiglia Micawber, di cui è stato ospite pagante. Per il signor Micawber, Copperfield “ha un cuore capace di sentire le afflizioni del prossimo quando una nube le nasconde, e una testa capace di decidere, e una mano capace… insomma, una generale abilità a disporre di ogni cosa pignorabile”. Per la signora Micawber, Copperfield non è mai stato un inquilino, ma un amico. Essi stanno parlando di un bambino di undici anni. Ma poi qualcosa accade, anche se è solo un lampo in una notte senza luna, un istante orfano ma colmo di lucidità:

Mentre la signora Micawber sedeva nella parte posteriore della diligenza con i bambini e io attendevo nella strada fissandoli ansioso, credo che una nebbia si diradasse ai suoi occhi ed essa vedesse quale piccola creatura io ero in realtà. Credo questo, perché mi fece cenno di salire con una insolita espressione materna sul viso, e mi gettò le braccia al collo e mi diede lo stesso bacio che avrebbe potuto dare al suo ragazzo.”

Una forte emozione, di commozione, spazza via la nebbia dagli occhi e le ragnatele dal cervello della signora Micawber. Una forte emozione, di rabbia, svela a Brancaleone la realtà che lo circonda e in cui gioca e recita una parte:

(Brancaleone) “Dov’è il piglio dell’uomo d’armi? Via le gran lordure! Via gli stracci penduli e le caccavelle e i velli. Disciplina! Fuori i petti, siamo l’armata Brancaleone, sangue di Giuda!
(Abacuc) “Piano con Giuda.


Questi lampi, queste improvvise illuminazioni, sono manifestazioni di una malattia mentale, nota come sindrome di Huckleberry Finn, malattia speculare alla più diffusa e nota sindrome di Peter Pan.

martedì 8 settembre 2009

Stanze parallele

E’ ben noto come passa il tempo il vecchio Fred Sanford, lo passa in casa, in un ozio solare, canicolare, libero come un usignolo canterino, come un giglio di campo. Guarda vecchi film in bianco e nero alla TV in bianco e nero, film di cui poi racconta la trama al figlio, trame come pietre di paragone, metafore e Bogart come modello di vita. Intanto fuori casa, suo figlio Lamont scruta, nell'ombra del suo pick-up, giacimenti d’oro e pirite dimenticati ai bordi delle strade di Los Angeles.
Sorpresa. Questa volta Lamont è tornato a casa con ben due diamanti, due casse da morto.



E il povero Fred, con ancora in testa il basco francese che, fino a un minuto prima, l’aiutava ad inventarsi eroiche memorie di guerra in terra di Francia, ha il suo solito definitivo attacco di cuore.



Le bare, oggetti mobili fatti per restare immobili, sono dentro la casa. Vuote, aspettano come case vuote, di essere abitate da inquilini di condomini infiniti e atemporali. Ma il vecchio e saggio Fred deciderà di passare la notte fuori casa, dormirà sul retro del camion.



Lamont, per ben cinque minuti d’orologio, sfiderà il terribile potere di due bare sfitte, ma poi complice gli ululati di un gatto e la simultanea interruzione nell’erogazione della corrente elettrica, deciderà…



…di dormire sul camion.

Be’, la morale è che ci sono oggetti e oggetti, non tutti gli oggetti sono equipollenti, qualche oggetto è così potente da piegare perfino il potere delle case di legare a se gli esseri umani.

Una domanda

Il mondo magico (*) di Ernesto de Martino (etnologo e allievo di Benedetto Croce) inaugura nel 1948 la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” dell’Editore Einaudi. Per de Martino l’uomo primitivo è continuamente soggetto al rischio di perdere se stesso e di perdersi nel mondo. E’ interessante notare che per il de Martino del Mondo magico “la realtà, anche quella cosmica, è sempre storica, cioè condizionata dal livello della condizione umana. Così, per esempio, gli spiriti esistono per coloro che partecipano a un mondo magico, ma non possono esistere per gli spiritisti dell’Europa contemporanea, perché la nostra storia interdice l’esistenza oggettiva delle anime dei defunti; per conseguenza è oggettivamente possibile ad uno stregone primitivo parlare con i morti, ma la voce dei morti non può esistere per gli spiritisti moderni” (**). Sembra l’idea per la trama di un film comico. Volendo si potrebbe pensare che l’uomo primitivo, per il de Martino, è come un cane portato al guinzaglio che impaurito, da cause per noi risibili, si libera dal collare e guinzaglio (il debole io del primitivo) e fugge fino a sparire all’orizzonte, sordo ai richiami dell’io, salvo poi tornare, svanita la paura, in cerca del padrone (l’io sapiens-sapiens) e come se nulla fosse stato, come se tutto fosse solo un sogno. La magia allora è come l’amore che lega il cane al padrone, ed è più forte del guinzaglio. Ma questo mio pensiero rende troppa grazia alla stramba teoria di Ernesto de Martino.
Teoria che fu attaccata dal Croce, negatore dell’idea che si potesse “cangiare l’idea stessa del cangiamento”, dell'idea eretica - ma no, siamo tutti amici - che si potesse storicizzare le categorie dello spirito (***). Effettivamente è strano (molto strano) che una presenza debole e sempre sul punto di svenire istericamente possa avere la forza di piegare i cucchiaini del caffè con la sola forza bruta del pensiero (anche perché il caffè non era stato ancora inventato in quei tempi bui; forse la cicoria, ma non il caffè). Comunque, passano gli anni, cangiano le mode (de Martino intanto beve la cicuta) ma nel 1959 Italo Calvino scrive Il cavaliere inesistente, e sembra un plagio del Mondo magico. Vedi il personaggio di Gurdulù che si immedesima nelle cose e negli animali, fino a perdersi nelle cose e negli animali. Mangia la zuppa e diventa la zuppa che mangia Gurdulù. Come in una fiaba, cioè come in un incubo, Gurdulù sarà assegnato come scudiero al cavaliere inesistente. Il medioevo per Calvino “era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla […] Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo […] e questo grumo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti […] e – soprattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, anche un uomo che c’è rischia di scomparire, figuriamoci uno che non c’è…” (****).
Pare che anche la leggera scrittura di Calvino porti sulle spalle il fardello dell’idealismo. Nautilus che cambia continuamente casa restando sempre nella stessa casa.

Ed ecco la domanda: ma il nostro beneamato Presidente del Consiglio è reale o è il frutto di una magia? Si risponderà: è l'uno e l'altro, idealisticamente parlando.

(*) E. de Martino, Il mondo magico (U.S. Boringhieri, 1981)
(**) M. Eliade, Scienza, idealismo e fenomeni paranormali (in Il mondo magico)
(***) B. Croce, Intorno al magismo come età storica (in Il mondo magico)
(****) Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959