martedì 30 settembre 2008

Il mondo senza di noi

Il mondo senza di noi, di Alan Weisman, numero 1 nelle classifiche di vendita americane per diversi mesi, descrive un mondo (appunto) senza di noi. L’intento è poetico il risultato è prosaico.
L’autore parte dalla premessa che per distruggere un fienile è sufficiente fare un buco di un centinaio di centimetri quadrati nel tetto del fienile, e poi stare a guardare (se a bocca aperta non è scritto). Il giorno dopo la scomparsa dell’uomo la natura già prende il sopravvento (e senza incentivi): un esile filo d’erba lasciato a sé stesso si trasforma, piano piano, anno dopo anno, in un possente albero che sbriciola il marciapiede, passano gli anni, l’albero cade sulla strada. Chi non ha interesse per la cosa pubblica si comporta nei fatti come la natura. Il lettore però non si deve aspettare fantasie da dopobomba o dopovirus (o da dopolavoro, quando seduti in tram, con gli occhi che dolcemente si chiudono, vediamo gli alberelli stenti del giardino che ci passa accanto invadere la strada con le auto accartocciate rosse di ruggine), perché il saggio è abitato da scienziati seriosi e preoccupati, ma con la barbetta brizzolata, e snelli e giovanili a più di cinquant’anni, e con occhi che disegnano una mezzaluna quando riflettono, che si stringono nelle spalle, e forse si torcono le mani, non so, non ho letto tutto il libro. Un libro che va avanti e indietro, zooma nel passato e poi nel futuro, e non ti lascia il tempo di fantasticare su occhi bianchi sul pianeta Terra e licantropi, e alla fine, stringi stringi, la tesi che sostiene è che non resterà niente dell’opera dell’uomo (quando l’uomo sarà scomparso): un po’ poco.
Tuttavia il libro fa riflettere, per esempio fa capire perché d’estate il turista italiano alla ricerca di emozioni forti si risveglia abbarbicato sul K2, aspettando l’elicottero di soccorso. Infatti, nelle prime pagine è descritto un “tesoro biologico intatto”, un “residuo della foresta primordiale che un tempo si estendeva fino alla Siberia e a ovest fino all’Irlanda”, un luogo inviolato e selvaggio più delle montagne del Tibet. Il punto è come diavolo si pronuncia Bialowieza Puszcza!? (Conosciuta anche col nome di Belaveskaja Pušča (Белавеская пушча) o Belovežskaja Pušča in Bielorussia e Puszcza Białowieska in Polonia, come da Wikipedia, e non è che aiuta).

Animali dopo l'uomo

Nel 1982 è uscita la traduzione italiana di After Man, a zoology of the future (Animali dopo l’uomo. Manuale di zoologia del futuro) di Dougal Dixon. La storia illustrata della vita sulla Terra 50 milioni di anni dopo la scomparsa dell’uomo. In questa storia straordinaria l’uomo è come se non fosse mai esistito, i topi di città si sono differenziati in molteplici specie, anche la Statua della Libertà si è dissolta in polvere e non emerge dalla sabbia come nel Pianeta delle Scimmie, e se qualche osso e cranio fossile di Homo sapiens sapiens giace sotto i sedimenti be’ è muto e paziente almeno quanto il povero Yorick.
Purtroppo anche il libro si è estinto, probabilmente non era il numero 1 nella classifiche di vendita americane e di conseguenza non è stato più ristampato, forse qualche copia fossile si trova su Maremagnum.com, ma non ci giurerei.

lunedì 29 settembre 2008

La macchina fotografica di Filippo di Ser Brunellesco

I nostri antenati si sono evoluti sugli alberi (checché ne pensino i predicatori creazionisti), ma al contrario di Scrat lo scoiattolo dell’Era glaciale, erano onnivori: si cibavano di frutta, semi, insetti e piccoli vertebrati, per esempio lucertole. L’antenato del predicatore creazionista, in agguato nell’ombra verde delle foglie, sapeva approfittare con lodevole talento delle zampe anteriori per agguantare una lucertola, e sapeva valutare bene le distanze per balzare da un ramo all’altro senza fare un capitombolo nel vuoto. Una valutazione precisa delle distanze presuppone la visione binoculare, cioè mettere a fuoco entrambi gli occhi su un oggetto vicino, e per farlo è necessario che gli occhi siano posti nella parte frontale del cranio. Guardando un oggetto da due diversi punti di vista otteniamo due immagini, impresse sulle retine. Se l’oggetto è lontano, come per esempio il cielo stellato, le due immagini sono uguali e non percepiamo la profondità, se invece l’oggetto è vicino, le due immagini sulle retine sono leggermente diverse. Ad esempio se fissiamo un portamatite, posto sul tavolo davanti a noi, chiudendo ora l’uno ora l’altro occhio, vediamo (o con l’occhio destro o con il sinistro) un lato scorciato del portamatite. Se guardiamo il portamatite con entrambi gli occhi le due immagini si fondono nel cervello in un’immagine in rilievo; quando questa fusione nel cervello non avviene, si parla allora di diplopia, oppure di una sbornia. Per vedere le due immagini reali di un oggetto, per esempio una matita posta sul tavolo, con entrambi gli occhi (e senza doversi attaccare al fiasco di vino), è sufficiente porre tra la matita e gli occhi il dito indice, se si mette a fuoco il dito si vedranno due matite, se invece si fissa la matita si vedranno due dita.
In modo analogo da due fotografie scattate da due punti di vista leggermente diversi è possibile, con uno strumento chiamato stereoscopio, ottenere l’illusione del rilievo. Il metodo migliore per visualizzare immagini in rilievo su uno schermo di computer è quello degli anaglifi.
L’anaglifo è un’immagine di due figure leggermente sovrapposte, una di colore rosso e l’altra di colore ciano. L’immagine di sinistra è codificata in rosso (è privata dei colori verde e blu dello spazio RGB), mentre l’immagine di destra è privata del solo colore rosso, quindi assume un colore ciano (verde più blu), dopo di ciò si procede con la sovrapposizione in un’unica immagine. Per vedere l’immagine in rilievo sono necessari degli speciali occhialini di plastica o cartoncino, con una lente rossa e l’altra blu.
Le immagini tridimensionali di sintesi, realizzate con programmi di modellazione e rendering, non danno l’illusione del rilievo come gli anaglifi, tuttavia consentono, grazie alle immagini di render, di ottenere molte più informazioni sulla scena stessa. Un modello tridimensionale è un oggetto virtuale, quindi prima di essere sottoposto a rendering deve essere illuminato con un modello di illuminazione.
La scoperta e la prima esemplificazione pratica della prospettiva sono opera di Filippo Brunelleschi (1377-1446); la teorizzazione della prospettiva è invece merito di Leon Battista Alberti (1404-1472) nel suo Trattato della pittura del 1435. La prima opera prospettica del Brunelleschi è una tavoletta quadrata di 30 cm di lato, raffigurante il Battistero di San Giovanni a Firenze, dipinta sul finire del primo quarto del Quattrocento. L’opera è andata perduta, e l’unica testimonianza sicura è la descrizione fatta dal biografo del Brunelleschi, Antonio di Tuccio Manetti (1423-1497), autore di una Vita di Brunellesco; anche il Vasari, nelle Vite, accenna alla tavoletta prospettica:

Attese molto alla prospettiva allora molto in male uso adoperata per molte falsità che vi si facevano. Nella quale perse molto tempo, perfino che egli trovò da sé un modo che ella potesse venir giusta e perfetta, che fu il levarla con la pianta e proffilo e per via della intersegazione, cosa veramente ingegnosissima et utile all’arte del disegno. Di questa prese tanta vaghezza, che di sua mano ritrasse la piazza di Santo Giovanni, con tutti quegli spartimenti della incrostatura murati di marmi neri e bianchi, che diminuivano con una grazia singolare, e similmente fece la casa della Misericordia, con le botteghe de’ cialdonai e la volta de’ Pecori e da l’altra banda la colonna di Santo Zanobi (1).

Il fondo della tavoletta, dietro il Battistero e le case accanto, era in «ariento brunito», così da specchiare il cielo e le nuvole. Per far coincidere il punto di vista dell’osservatore col punto centrale della prospettiva Brunelleschi praticò un foro nella tavoletta, in corrispondenza del punto centrico. La visione del dipinto avveniva in questo modo: l’osservatore doveva tenere la tavoletta voltata con una mano e accostare il foro ad un occhio, con l’altra mano reggeva uno specchio, nel quale, attraverso il foro, vedeva il dipinto. Lo storico dell’arte Battisti ha direttamente sperimentato la visione prospettica descritta dal Manetti:

Sì è potuto rifare l’esperimento, mediante specchio e macchina fotografica, o mediante tavoletta e specchio. I risultati comprovano, assolutamente, l’esattezza del racconto del Biografo. La tavoletta che corrisponde alla veduta reale è, come egli dice, di mezzo braccio quadrato, con base equivalente a circa cm 36,6 e l’altezza uguale a circa 46,5 centimetri (lievi modifiche dipendono da varianti nell’altezza dell’osservatore), l’angolo visivo è di circa 45°, il dipinto risulta in scala di 1:75, la distanza reale del riguardante dal Battistero è di 60 braccia, quella fra dipinto e specchio è perfettamente in scala, cioè un braccio (2).

In seguito gli artisti sperimentano la camera oscura. La camera oscura è descritta per esempio nel Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. I cinesi furono probabilmente i primi a scoprire che se si pratica un forellino in una parete di una stanza, tenuta completamente al buio, sulla parete opposta alla parete forata si forma l’immagine capovolta del mondo esterno.
Il modello geometrico più semplice della formazione dell’immagine è la macchina fotografica a foro di spillo, in altre parole la camera oscura. Se P è un punto della scena, con coordinate (X, Y, Z) e P’ la sua proiezione sul piano immagine (la parete opposta al foro d’ingresso della luce) con coordinate (x’, y’, z’), e se f è la distanza dal foro (chiamato centro di proiezione) al piano immagine, allora le coordinate del punto P’, vale a dire la sua proiezione prospettica, sono date dalle seguenti espressioni:

x’=-fX/Z

y’=-fY/Z

z’=-f

L’immagine è invertita rispetto alla scena, come indicato dal segno meno. L’Alberti fu il primo a suggerire di spostare il piano immagine davanti al centro di proiezione per eliminare il segno meno dalle espressioni. La divisione per Z è responsabile dell’effetto di scorcio.

(Opus incerta, 2007)


(1) Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Einaudi, 1991, p. 279.
(2) E. Battisti, Filippo Brunelleschi, Milano 1976, citato in Renzo L. Beltrame, «Storia del costituirsi di un modo mentale. La prospettiva rinascimentale», Rapporto CNUCE C97-24, Dicembre 1997 (Rev. Novembre 1998), p. 40.

venerdì 26 settembre 2008

Vertigini

Il professor Lidenbrock, in compagnia del suo giovane nipote, è a Copenaghen, penultima tappa terrena prima del viaggio fino al centro della Terra. Il professore decide di guarire le vertigini del nipote trascinandolo sul campanile della Vor-Frelsers-Kirk:

"Andiamo su", disse mio zio.
"E le vertigini?", obiettai.
"Ragione di più: occorre abituarsi."
"Però..."
"Vieni ti dico: non perdiamo tempo."
Dovetti obbedire. Un guardiano, che abitava dalla parte opposta della via, ci porse le chiavi, e l'ascensione cominciò. Mio zio mi precedeva con passo svelto, e io lo seguivo non senza terrore poiché mi girava la testa con deplorevole facilità. Non avevo né l'equilibrio, né i nervi insensibili dell'aquila. Finché fummo imprigionati nella parte inferiore, tutto andò bene; ma dopo centocinquanta scalini l'aria venne a colpirmi in viso: eravamo arrivati alla piattaforma del campanile, dove cominciava la scala aerea, che aveva la sola difesa di una fragile ringhiera, e i cui scalini pareva portassero su verso l'infinito [...] L'aria aperta mi stordiva, sentivo il campanile oscillare alle raffiche; le gambe mi si piegavano sotto; dovetti arrampicarmi strisciando sulle ginocchia, poi sul ventre... Chiusi gli occhi; provavo le vertigini. Finalmente, aiutato dallo zio che mi tirava per il bavero, arrivai presso la palla.
"Guarda!", mi disse il professore. "Guarda bene!... Bisogna prendere lezioni di abisso."
Dovetti aprire gli occhi. Vedevo le cose appiattite e come schiacciate in una caduta, immerse in una nebbia fumosa. Al di sopra della mia testa passavano le nuvole fioccose che, per un rovesciamento di ottica, mi parevano immobili, mentre il campanile,la palla e io eravamo trasportati con fantastica velocità. Lontano, da una parte si stendeva la campagna verdeggiante, dall’altra il mare scintillava sotto un fascio di raggi. Il Sund si volgeva alla punta di Elsinore, con alcune vele bianche, vere ali di gabbiani, e, nella bruma dell’Est ondulavano le coste appena visibili della Svezia. Tutta quell’immensità turbinava sotto il mio sguardo. Pur tuttavia dovetti alzarmi, tenermi ritto, e guardare. La mia prima lezione contro le vertigini durò un'ora. Quando alla fine mi fu permesso di ridiscendere e di toccare col piede il pavimento solido della via, ero tutto indolenzito.
"Riprenderemo domani", disse il professore.
E infatti per cinque giorni ripresi quell'esercizio vertiginoso e, volente o nolente, feci progressi nell'arte dell'"alta contemplazione"
(1).

Qualche anno dopo Mark Twain, in giro per l’Europa, decide di salire sulla Torre di Pisa:

A Pisa salimmo in cima alla costruzione più strana che il mondo conosca: la Torre pendente.
Come tutti sanno, è alta centottanta piedi e vi prego di osservare che questa è l'altezza di quattro normali abitazioni di tre piani, messe una sopra l'altra; è un'altezza considerevole anche per una torre massiccia e compatta che si levi diritta. La Torre di Pisa invece è inclinata più di tredici piedi. Ha settecento anni, ma né la storia, né la tradizione riportano se fu costruita così o se un fianco ha ceduto. Nessun documento dice se sia stata mai diritta. E’ di marmo e la sua struttura è elegante. Ciascuno dei suoi otto piani ha tutto un giro di colonne scanalate di marmo o di granito, con capitelli corinzi, di sicuro belli quand’erano nuovi. E’ una torre campanaria con in cima un concerto di antiche campane. Dentro, la scala a chiocciola è buia, lascia sempre intendere su quale fianco della torre vi trovate, pendendo naturalmente da una parte o dall'altra della scala, a seconda che siate sul fianco più alto o più basso. Alcuni gradini sono logori solo da una parte, altri dalla parte opposta, altri ancora solo nel mezzo. Guardando giù dall'alto, all'interno, vi pare di osservare un pozzo inclinato. Una fune che pende dal centro della sommità tocca la parete prima di raggiungere il fondo. In cima non vi sentite proprio a vostro agio guardando dalla parte più alta; ma se strisciate sul parapetto fino all'orlo della parte più bassa e tentate di allungare il collo per vedere la base della Torre, vi viene la pelle d'oca e siete sicuri, per un momento, nonostante la vostra scienza, che la Torre stia crollando. Vi reggete con le mani con grande prudenza, avendo la sciocca impressione, per il tempo che ci restate, che, se non sta già crollando, il vostro trascurabile peso potrebbe darle l'avvio
(2).

Premesso che il professor Lidenbrock è il classico zio che nessun nipote vorrebbe avere come zio è da notare il diverso punto di vista nei due autori. In Verne il punto di vista è panoramico: il campanile della Vor-Frelsers-Kirk è un centro relativo (il campanile è scelto solo perché è il più alto tra i campanili della città, e quindi utile ai fini del professore), e tutt’attorno si estende a perdita d’occhio la periferia. Per un “rovesciamento di ottica” le nuvole sono immobili e il campanile si sposta con “fantastica velocità”. Non è l’altezza a generare le vertigini ma questa esperienza di relatività.
Nella descrizione della Torre di Pisa il paesaggio è azzerato, non esiste, esiste solo un dentro e un fuori la Torre, come una città medievale cinta dalle mura. Le vertigini sono causate da un’insostenibile pesantezza dell’essere. E l’unico rimedio è il non essere. Se per Verne il mondo è una stanza, uno studio, un museo, un’aula, un laboratorio che il viaggiatore prima o poi impara a conoscere, a dominare, ad usare (e poi lasciare, preferibilmente in ordine come si è trovato), per Mark Twain il mondo è una misteriosa soffitta, piena di cose polverose ed inutili, ammassate in un ordine, o disordine, casuale. Eppure la nostra presenza, per quanto minima, non passa inosservata, le pietre della Torre serbano il ricordo delle impronte dei passi dei pellegrini.

(1) Jules Verne, Viaggio al centro della terra, Newton.
(2) Mark Twain, Gli innocenti all’estero, BUR.

giovedì 25 settembre 2008

Il ciclo di Dante

Il ciclo di Dante non è la bicicletta di Dante, il Poeta non sapeva andare in bicicletta, era un tipo posato, prova ne è che il ciclo di Dante è una serie di libri gialli scritti da Giulio Leoni, ambientati nella Firenze dell’anno 1300 (escluso l’ultimo, ambientato nella Roma del 1301) con protagonista Dante Alighieri. In ogni giallo c’è un delitto, un assassino e un investigatore, di solito l’assassino è il maggiordomo, Dante all’epoca era priore a Firenze quindi non può che ricoprire la parte dell’investigatore.
Ecco un dialogo che descrive alla grande Dante, Firenze e la sua gente:

Correva lungo la via che menava alla chiesa, guidato dal vociare che si faceva via via più intenso.
A una strettoia del cammino dovette arrestarsi, ostacolato da una donna anziana curva sotto una fascina, che arrancava lentamente nella sua stessa direzione. Cercò di insinuarsi tra il carico e il muro per passare oltre, ma senza riuscirvi. Dopo il secondo tentativo andato a vuoto sbuffò, esasperato: “Lasciatemi passare, vecchia! Va’ all’inferno con la tua legna!”.
Invece di farsi da parte la donna si girò, in modo da poterlo scorgere in viso. “Perché m’insultate, priore? Aiuto la buona gente di Firenze. Ci sarà un rogo di eretici, giù alla torre dei Cavalcanti. E il mio è legno di stagione, buono per il fumo bianco!”
“Chi vorresti bruciare, strega? Pensa piuttosto alla tua anima!”
“Pensate voi alla vostra!” lo rimbeccò lei, senza accennare a spostarsi. “O vorreste correre in loro aiuto forse?” soggiunse con un lampo di malizia che rianimò i suoi occhi opachi per le cataratte
(1).

Le strade di Firenze sono ancora strette, tortuose e buie, la gente ancora pronta a donare le migliori primizie e Dante ancora perso in una selva oscura.

(1) Giulio Leoni, I delitti della luce, (2005). Mondadori.

Scandalo in Toscana

Scandalo in Toscana di Nancy Shroyer Howard (editore Mandragora) narra, come recita il sottotitolo, le scorribande di un porcello in un celebre affresco senese (età di lettura dai 6 anni in poi). Il libro descrive l'affresco senese degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, opera del pittore Ambrogio Lorenzetti, attraverso le parole e gli occhi di un "personaggio" dell'affresco, un maialino della razza chiamata Cinta Senese, per via del manto nero attraversato da una fascia bianca (cinta sta per cintura); portato al mercato dal padrone ne combina di tutti i colori. Il maialino, di nome Cinta, vuole solo divertirsi, esplorare, meravigliarsi di tutto, è una creatura innocente. Come tutte le creature innocenti non è un fine gourmet. La mattina, prima di portarlo al mercato, il padrone gli dà quattordici mele ammaccate, ventisei fichi molli, dieci patate coi germogli e i chicchi dolcissimi di due melagrane. E Cinta è felice.

Ma il giorno dopo la cacciata da Siena, con un ramoscello d’ulivo in bocca:

"Il suo padrone gli buttò un cesto con dieci pomodori marci, due cavoli ammuffiti e quattro pesche bacate, quattro di numero. Cinta trangugiò tutto senza farselo dire due volte. Il padrone voltò il capo per un attimo.
Cinta se ne accorse e mangiò il cesto.
Poi si accucciò sul suo ramoscello d'ulivo.
"Ce la farò a ricordarmi di tutto quello che è successo ieri?" si domandò. Chiuse gli occhi, frugò nella memoria e pian piano tutto ricomparve come in un affresco:
il castello di mattoni rossi,
i contadini, e poi il mulo,
le colline e il mulino,
il ponte, le mura
e le porte della città,
il taglialegna, le uova,
i ciabattini, il cacio,
il tamburello, le danze,
la sposa sul cavallo bianco,
le carte, il contabile,
i muratori, la veranda
e perfino
la gabbia e l’uccellino…"
(1)

Certo nel Medioevo non c'erano le patate, quello che sembra un errore di Nancy Shroyer Howard, pure sfuggito all’editor del testo è, in realtà, un piccolo indizio che mette sulla giusta via sia il lettore adulto (non offuscato dall’ossessione del cercatore di errori) che il lettore bambino, perché entrambi si chiedono alla fine della storia: Cinta si salva o prima o poi finirà al macello?
Se le patate sono un segno di un tempo atemporale allora Cinta vive per sempre nell'affresco senese.

"Con gli effetti del Buon Governo, si dispiega a perdita d’occhio, disseminata di piccole figure intente ai lavori quotidiani, la veduta panoramica della città e del contado: la società, nel rapporto vario e animato di civiltà e natura. Si passa così dai grandi, eterni principi ai piccoli fatti della cronaca: ciò che manca è proprio ciò che interessa Giotto, la storia. I fatti che Ambrogio rappresenta non sono storici, ma neppure episodici o aneddotici: sono i fatti che si ripeteno ogni giorno e che, non avendo un tempo e un luogo determinati, formano con la loro successione il continuo dello spazio e del tempo. La scena in cui si svolgono è costante: la città con i suoi edifici e il contado, con le sue colline, i suoi campi, i suoi viottoli" (2).

Ovvero dieci patate con i germogli nel Medioevo.

(1) N. Shroyer Howard, Scandalo in Toscana, (2008).
(2) G.C. Argan, Storia dell’arte italiana (1975), vol. 2, pag.36.

martedì 23 settembre 2008

Firenze 1892-1895

Esperienza straordinaria è la lettura e la visione del volume "Firenze 1892-1895, immagini dell'antico centro scomparso" di Maria Sframeli (Editore Pagliai Polistampa, 2007). Più di trecento fotografie eseguite fra l'agosto del 1892 e il dicembre del 1895 per documentare i palazzi e le case del centro storico prima e durante le demolizioni. E' il centro medioevale di Firenze che viene giù: l'area che si estendeva da via Porta Rossa a via de' Cerretani, da piazza Strozzi e via dei Pescioni a via Calzaiuoli.

"Là sorgevano i palagi dalle facciate di conci e di filaretto di pietra, colle grandi finestre ad arco sul mezzo tondo, colle ampie tettoie sporgenti sulle bene intagliate mensole: e accanto ai palagi, superbe ergevansi le torri, una selva di torri, varie per grandezza, per maestosità, per tipo di ornamenti. Dentro a'palazzi i severi cortili ad uno o più ordini di logge, le ripide scale, i saloni colla soffitta a grandi travature, le pareti dipinte a fresco nelle fogge più bizzarre: a paese con alberi di frutta, animali, uccelli, tende, reti, parati di vaio, spartiti geometrici ed ornamentali, con stemmi, meandri, corridietro, fregi d'ogni genere e talvolta con figure, con soggetti favolosi ed anche religiosi. Dovunque, anche in tutte le cose che si riferivano agli usi domestici, dominava ed imperava una nota grandiosa, austera che era in perfetta armonia colla severità e la rigidezza dei pubblici ordinamenti, delle forme di governo" (1).

Le prime idee e progetti per il "risanamento" del centro storico si manifestano già all'inizio del secolo XIX, e si ripresentano nel corso del secolo come un'ossessione, un’idea fissa, l'idea fissa della Grande Firenze. Tre parole d'ordine dominano le menti delle autorità cittadine (del secolo XIX): igiene, decoro, viabilità. Famosi giornalisti introducono nella mente del lettore borghese (già convinto di suo) il tarlo dell'inevitabilità del fare e del disfare (come poi dell'entrare in guerra nel secolo XX, o passando dalla tragedia alla farsa di un nuovo stadio di calcio nel XXI secolo), con uno stile neutro, semplice, oggettivo:

"Siete voi andato mai in quegli antri, in quelle tane, per que' sotterranei, dove la notte le pareti formicolano d'insetti, dove il soffitto è così basso, che è impossibile a un uomo di giusta statura entrare lì senza curvarsi, e dove su putridi giacigli si scambiano gli amplessi di ladri e di baldracche, lordure umane, sgorgate in quegli orrendi sterquilinii, dopo aver corso, trabalzato, per le fogne del vizio?" (2).

Ma, come sempre, "dietro le giustificazioni ufficiali che si rifanno all'Arte e alla Storia da una parte, e dall'altra a ragioni di traffico e di igiene il 'risanamento' dell'antico centro intorno al Mercato Vecchio, compiuto a fine secolo, è dovuto soprattutto alla volontà della classe borghese di affermare il proprio prestigio. Il mezzo per tale operazione è anche in questo caso quello della speculazione edilizia" (3). Per tamponare i duri giudizi espressi soprattutto sulla stampa estera la Giunta Comunale nel marzo del 1888 nomina una Commissione Storico Archeologica per rilevare e studiare gli edifici della zona da demolire. Ma i rilievi non dovevano in alcun modo ritardare i lavori, così nell'aprile del 1892 viene nominata una nuova Commissione con una sfera di competenza che escludendo l'archeologia si estendeva a tutto il territorio comunale; per ovviare all'impossibilità di misurare gli edifici che scomparivano dalla mattina alla sera la Commissione avanzò la richiesta di utilizzare lo strumento fotografico.

Una camera oscura per prove 18x24 con soffietto di pelle a cono girevole, otturatore istantaneo e a pose facoltative, treppiede e sacco” (4).

Le immagini non sono "belle", colpisce la quasi totale assenza di vita, il silenzio assordante del dopo bomba; i cartelli attaccati ai muri annunciano ai rari passanti che il venditore di pesci d'Arno fritti si trasferirà in faccia alle Logge n.1, così il trasloco del pizzicagnolo, del salumiere, del rosticciere, del fagiolaio, ecc. Pubblicità di cerotti per calli, letti e mobili in ferro vuoto e sagomato, Synger Cycles, pastina diastasata alla pepsina. Muratori posano in bilico su assi appoggiate su scale sospese sul vuoto. Esperti della Commissione immobili ed impettiti. Ragazzini con il cappello in testa, garzoni di bottega, guardano nell'obiettivo del fotografo con sguardi da gatto; un ragazzino visto di profilo è l'esatto opposto del militare sull'attenti. Dove sono andati a finire 'sti tipi alla Huck Finn? E i nomi delle vie? piazza del vino, piazza delle cipolle, via delle ceste, piazza delle ricotte... Ma ormai era stata imboccata una strada in discesa, si comincia con piazza Vittorio Emanuele II, il monumento al re a cavallo è già al suo posto. Attorno crescono i palazzoni di facciata (pieni di banche, uffici, alberghi, assicurazioni), sicuramente igienici ma scarsi di vita e di cortili. Per fortuna l'Oltrarno, defilato o semplicemente fuori moda, fu risparmiato dal santo piccone risanatore.

"Ogni finestra spalanca la sua bocca nera sulla strada maledicendo la mediocrità. Ogni porta pare che inviti a entrare i pochi fessi che passano riserbandogli sorprese le più impreviste. Difatti una ricchezza di stanze cubicamente superiori a quelle delle case moderne si cela in questi interni e non è raro che dalle finestre posteriori si possa ammirare leggiadri giardini che non sognano le più belle vie del centro" (5).

(1) Guido Carocci, Firenze scomparsa (1897), pag. 95.

(2) Jarro, Firenze sotterranea (1881), citato in Com'era Firenze 100 anni fa, Piero Bargellini.

(3) Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città (1973), pag. 448.

(4) Maria Sframeli, Firenze 1892-1895, immagini dell'antico centro scomparso, (2007), pag. 20.

(5) Ottone Rosai, Via Toscanella, (1930) pag. 18.

venerdì 19 settembre 2008

Il Pianeta proibito


Dimenticato da chissà chi e chissà quando, sul fondo polveroso della cristalliera, c’era un vecchio numero di Urania (il numero 5, agosto 1977): Il Pianeta proibito di W.J. Stuart. Primo esempio di trasposizione letteraria di un’opera cinematografica, era stato scritto sulla sceneggiatura di Cyril Hume del film omonimo, prodotto dalla M.G.M e distribuito nel 1956, lo sceneggiatore si era ispirato a sua volta a un racconto di Irving Block e Allen Adler, libera interpretazione in chiave fantascientifica del dramma La Tempesta di William Shakespeare. Il libro (come il film) è ambientato nel XXIII secolo, e narra la storia della missione di salvataggio dell’astronave C-57D, diretta sul pianeta Altair IV, sul quale era approdata, venti anni prima, l’astronave Bellerofonte. Il pianeta è deserto, sconfinato, sembra privo di vita o quasi, gli unici esseri umani sono il professor Morbius e sua figlia Altaira. Morbius racconta al capitano dell’astronave la tragica sorte dei componenti del Bellerofonte straziati da una misteriosa forza naturale, e di come poté salvarsi grazie alla scoperta della tecnologia dei Krell, gli antichi abitanti del pianeta misteriosamente scomparsi, milioni di anni prima, nel giro di una notte. La tecnologia Krell era capace di generare l’energia sufficiente ai bisogni dell’intero pianeta con il solo aiuto del pensiero, amplificato da una Macchina. Sotto la superficie silenziosa del pianeta si estendeva per una profondità vertiginosa la Macchina silente e autistica, talvolta una spia si accendeva, la Macchina registrava il volo di un’ape attorno a un fiore, il lento dipanarsi delle nuvole nel cielo.
La Macchina era l’ultimo vestigio dell’antica civiltà dei Krell, delle città maestose con torri di metallo splendente non restava traccia sul suolo del pianeta, e non esistevano immagini dei Krell, si poteva fantasticare sul loro aspetto osservando la forma di una porta Krell.

Si pensi a un grande triangolo col vertice in alto ma i cui lati, prima di raggiungere la base, si pieghino anch’essi ad angolo e in maniera sghemba, verso la base stessa. Il vertice era circa a due metri da terra, e la larghezza massima del vano toccava i tre. (*)

Morbius si era sottoposto a una Macchina del Sostegno, capace di sviluppare le facoltà intellettive nei bambini Krell tardivi, ed era riuscito ad aumentare la sua intelligenza al punto di decifrare l’antica lingua dei Krell e a costruire un robot capace di sintetizzare qualsiasi sostanza, naturale o artificiale: dalla cioccolata fondente a quella al latte, dalla Coca-Cola alla Coca-Cola decaffeinata, dai pezzi di vetro ai diamanti naturali. Robby, così si chiamava il robot, dotato di una forza straordinaria, era vincolato a una legge che gli proibiva di nuocere agli esseri umani.
Le insistenze del capitano dell’astronave nel convincere Morbius a tornare sulla Terra fanno precipitare gli eventi. Una notte un misterioso essere invisibile visita l’interno dell’astronave e compie un atto di sabotaggio, il mattino dopo viene scoperta un’impronta della creatura dalla quale si ricava il calco in gesso. Il calco, che avrebbe colmato di mistica letizia il cuore del Fisiologo ma anche trafitto il fianco di Darwin con una nuova spina (dopo quella dell’occhio), provoca dubbi e perplessità nella mente del medico di bordo.
L’amore che si sviluppa tra il Capitano e Altaira pare misteriosamente potenziare l’aggressività della creatura. Gli attacchi alla nave si susseguono, sempre più violenti e rabbiosi. Finalmente, dopo un ultimo attacco alla nave la creatura sceglie di colpire il bersaglio grosso, la casa di Morbius, dove si sono asserragliati, insieme al professore, il Capitano e Altaira, che si è decisa a lasciare il pianeta per seguire il Bel Capitano. Robby, l’unica difesa attiva contro la creatura, misteriosamente si rifiuta di attaccarla e si disattiva. I tre si rifugiano nel laboratorio, difeso da porte di un impenetrabile metallo alieno. Mentre la creatura è occupata a fondere il metallo delle porte, che tengono duro come un panetto di burro lasciato al sole in un pomeriggio di luglio, Morbius è incalzato e infilzato dalle domande impietose del Capitano, che ha compreso la vera natura del mostro, grazie al sacrificio del medico di bordo che, di nascosto, curioso come una scimmia (o il gatto) o un qualsiasi scienziato degno di questo nome o ricercatore alla ricerca del nome, si era sottoposto alla Macchina del Sostegno danneggiandosi irreparabilmente il cervello, se è vero che la curiosità uccide il gatto questa volta è il medico a lasciarci lo zampino, ma non prima di svelare la verità al Capitano, e così Morbius scopre che la misteriosa creatura sterminatrice della civiltà Krell era stata generata dai loro stessi desideri inconsci, amplificati e materializzati dalla Macchina. Poveri Krell sterminati in una sola tragica notte, dalla loro natura animale repressa e inconscia ma depositata, come un fiore tra le pagine di un libro, nel cuore oscuro della loro chiarissima mente dai loro avi selvaggi. Ma non esiste più un solo Krell su Altair, ribatte trionfante il professore al Capitano, come spiegare la presenza del mostro? Morbius non è ancora in grado di affrontare tutta la terribile verità: il mostro che sterminò l’equipaggio del Bellerofonte e ora sta per penetrare nel laboratorio per farli a pezzettini è della materia dei sogni e degli incubi del professore. È il demone di Morbius alla porta.

(*) W. J. Stuart, Il Pianeta Proibito, Mondadori Urania, 1977, pp. 105-106.

L'uomo che visse nel futuro (raschiando il pavimento nel passato)







L'uomo che visse nel futuro...








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