martedì 30 marzo 2010

Ultimo bestiario

Si vede una rosa, in un barattolo con etichetta illeggibile appoggiato sul davanzale di una finestra chiusa, nell’angolo superiore del rettangolo, quello a sinistra di chi guarda, è una rosa rossa con tre foglie verdi; nell’angolo inferiore del rettangolo o vignetta (sempre a sinistra di chi guarda) c’è un telescopio rifrattore montato su strambe ruote e ingranaggi, forse equatoriali forse per inseguire le stelle forse divinare il futuro; sul telescopio è installato e vincolato un canocchialino galileiano, dicesi cercatore, ma in questo momento il telescopio guarda il soffitto della stanza e il cercatore può solo cercare le mosche; tra il telescopio e la finestra e la rosa rossa c’è uno strano alambicco, in attesa di alambiccare forse composti chimici o forse distillati omeopatici. Al centro del rettangolo si vede un grosso libro aperto, tenuto in mano da un papero balzano (scarsamente barksiano), vestito con un maglione a girocollo e un buffo berretto a ponpon ritto sulla testa; il papero balzano sta seduto in una grande poltrona, ma non appoggia la schiena alla spalliera, dal berretto a ponpon fuoriescono radi lunghi capelli a fil di ferro; una lampadina accesa sopra la testa del papero, è sospesa per aria grazie a due rozze assicelle di legno, illumina e guida il papero elettrico nella lettura del libro che ha per titolo il “Gattalogo”. Il papero non riesce a credere a quello che ha appena letto nel libro, e felicemente incredulo telefona ad un suo lontano cugino, infatti, nella vignetta successiva dice, Paperino, ho appena letto nel mio "Gattalogo" che Malachia è un raro esemplare di gatto tasmaniano. All’altro capo del filo gli risponde un tranquillo e disincantato papero casalingo (con strofinaccio e piatto bagnato in mano, stava rigovernando il suo passato): Malachia, gatto raro? Non dire sciocchezze! E’ solo un grasso gatto casalingo!, nella vignetta seguente il grasso gatto casalingo guarda il papero con il piatto in mano e pensa, Un gatto grasso, eh? Troppo gentile!
E improvvisamente, in questa prima pagina di una storia di Dick Kinney e Al Hubbard, la straordinaria wunderkammer di Carl Barks (1942-1967) scoppia come una bolla di sapone.
Questo papero disperato, questo papero matto e strampalato, figlio dei fiori, figlio di una notte d’estate, cugino alla lontana di un ex giramondo, ex dannato dai mille mestieri e dalle diecimila sfortune – ma che fine hanno fatto Qui Quo Qua? – legge manuali fai-da-te, si cura da sé, inventa diete e filosofie e religioni, non cammina ma corre, perché tra il suo dire e il suo fare c’è solo un singolo battito del cuore.

I contorni non chiudono e rinsaldano la forma, ma acuti e continuamente spezzati la frantumano, le impediscono di realizzarsi in volume, la costringono nella realtà del piano, nella realtà del foglio bianco e delle matite. Le figure sono disarticolate; sono figure allungate, accartocciate, bruciate e bagnate, deformate, sputacchiano saliva in faccia al lettore; vivono accanto a ottusi e feroci cani da caccia all’evaso. Il papero ondivago, creato e disegnato dalla coppia Kinney & Hubbard, è come un lampo d’estate, vive solo dal 1964 al 1969. Dopo sarà il deserto dell’accademia disneyana e degli epigoni di Barks.

Soltanto Hubbard non tradisce gli schizzi di Kinney: guardate (outducks) il papero casalingo con il raffreddore, se ne sta tranquillo a letto a leggere un libro, e il gatto grasso sulla coperta tutto contento, e poi guardate il papero spiritato che gli piomba in casa improvvisamente laureato in medicina (e pure esperto in allergie da pelo di gatto), e poi guardate il gatto improvvisamente pelato – il papero soddisfatto con il rasoio di sicurezza in mano – pensa che tutto ciò è imbarazzante... e il papero casalingo si chiude in bagno, prende un’aspirina, e ne esce improvvisamente guarito (la battuta più divertente della storia).

Ora, cos’è un bestiario? qui Wikipedia aggiunge una parola in latino, e allora qui ci starebbe bene quel terribile papero di un tempo passato, se ne andava in giro con una scintilla nell'anima, e correndo guardava le pozzanghere sulla strada, improvvisamente abbacinato dal sole d'agosto, e dalla casa alla casa (del cugino e del gatto) ripensava a una paroletta letta in UN LIBRO e poi da quella partiva, con una sermone di due ore e mezza (anche tre, quando era particolarmente divertito, in altre parole "in vena"), al povero cugino infelice e al suo gatto grasso, e dicono andasse così inventando una filosofia dalle fondamenta; il papero sognava di tornare a vivere, un giorno, in un luogo, quasi un'isola di pagani dei mari del sud, là dove un papero e una mosca e l'anima sono uguali, là dove stava e voleva quello che era, ed era quel che voleva, tutti liberi dagli accoliti e dagli epigoni di Barks; e i lettori, alla fine della storia, chi saltava in aria chi batteva i piedi per terra chi parlava tutte le lingue del mondo chi piangeva chi rideva chi gridava, Siamo stati accecati dalla luce liberi come Paperoga, fuggitivi verso le isole dei mari del sud - tremavano i muri dell’accademia, tremavano le fondamenta della Accademia - e tutti lo imploravano di continuare e gli chiedevano ancora un bis (voi sarete testimoni di tutto ciò, perché non resterà neppure un cartone pirata, bootleggers, roll your tapes!), e chi nulla: troppo intento a disegnare le orecchie a Topolino.

E a noi, in questo tempo senza più fedi né speranze né ideali, cosa ci resta tra la cenere... forse una scintilla, nella cenere degli analfabeti vincenti e delle vite senza sbagli e tra mille sbadigli, una scintilla. Forse.
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domenica 28 marzo 2010

CEIsAAA, VI

(*)
La parola orzoweiana per "crisi" (Ahytè in Orzoweiano Corsivo) è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione fallace che i due segni di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti, e poi nel Resto del Mondo, che i due segni significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità".

Il Socio C. Pancalakaprakampa ha chiamato l'interpretazione popolare di Ahytè nel mondo anglofono una "idea completamente sbagliata e tuttavia largamente diffusa". In effetti, Ahy significa approssimativamente "dente cariato, pericolo, assai pericoloso, rappresentare un pericolo, punta di freccia, precario, orante seduto in bilico su un palo, timoroso, sacro, divinità", ma il segno non significa necessariamente "opportunità". E’ vero che la parola Tèeh significa "opportunità", ma è solo una parte di essa, e la meno significativa. assume numerosi significati, tra cui "macchina a pressione, cavalletta fritta, occasione adatta, punto cruciale, perno, gradiente termico, nottolino, saliscendi, opportunità, occasione, cesta tra le onde, lumaca sgusciata, esame di coscienza".
Pancalakaprakampa suggerisce che in Ahytè sia più vicino a "cavalletta fritta", o “lumaca sgusciata”, che a "opportunità". L'archeologo A.O. Saknussen ha interpretato la parola Ahytè alla luce del contesto del sito archeologico: i rilievi rupestri del monte Montbrillhà. L'archeologo islandese è convinto che le iscrizioni e i rilievi rupestri devono essere letti all'interno di uno schema topografico, grazie al quale sarà possibile ricostruire una catena sintattica organica, in quest'ottica Ahytè è un sintagma-fossile, e deve essere letto come "ricerca del tempo passato", o "ricerca delle ossa degli avi".
Pancalakaprakampa ha percorso a ritroso la storia della fortuna di Ahytè nell'inglese addirittura fino a un editoriale del 13 gennaio 1946, firmato dal prof. Pio de Pio, in un giornale per missionari del Tao a Lamporecchio.
L'uso del termine ha probabilmente guadagnato la sua immeritata fama quando il famoso chirurgo omeopata Benjamin B. B. House Senior tenne un memorabile discorso all’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, il 1 Gennaio 1947:

Scritta in orzoweiano corsivo la parola “crisi” è composta di due segni.
Uno rappresenta “pericolo” ma l'altro rappresenta un’opportunità (per noi).

Benjamin B. B. House Senior utilizzava questo tropo regolarmente nei suoi discorsi di capodanno, nell’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, e tutte le volte otteneva grandi ovazioni e grandi risate, fino alle lacrime, tra i ricoverati, i medici e il personale paramedico tutto. In seguito l’uso del termine è stato adottato da consulenti finanziari, esperti di marketing, santoni di sette, insegnanti di scuola di ogni ordine e grado e oratori motivazionali, guadagnando grande popolarità nelle università, nella stampa popolare e in numerose edizioni radiofoniche del reality show Island for Dummies.
Alcuni linguisti hanno attribuito il successo di questa cattiva lettura della parola al fatto di averla a portata di mano come strumento retorico e come "chiamata alle armi" in chiave ottimistica.
A causa dell'attrazione esercitata da questa pseudoetimologia, Pancalakaprakampa ha suggerito che la sua popolarità sia in parte dovuta al "pio desiderio" ("wishful thinking") del prof. de Pio di rilevare la presenza di un’onomastica biblica nell'archivio di Favbrillhà. (**)

(*) Rilievo rupestre di Montbrillhà (6 km in direzione S-E dal sito di Favbrillhà), con la parola “crisi” in orzoweiano corsivo classico (foto di P.K. Bark, campagna di scavo 1939).
(**) La parola orzoweiana per "crisi", Nota del prof. O.K. Allright, presentata dal Socio S. Spikspan, nella seduta del 7 dicembre 1959. Estratto dal vol. VI, serie 6°, 2° sem., fasc. 10, dei "Rendiconti della Accademia degli Orzoweiani". (***)

(***) Libera interpretazione di La parola cinese per “crisi”, da
Wikipedia.
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sabato 27 marzo 2010

Ora legale

Se sarà un maschio, lascerà il cordone ombelicale sui tegoli e i coppi del tetto, perché sia portato via dai merli neri, per la sua fortuna e per la sua gloria, ma se sarà una femmina allora lo pianterà in un vaso di terra nera, perché possa mettere radici in una storia.
Domani qualcuno darà da mangiare ai gatti del giardino abbandonato.
Nel cielo di fine di marzo corrono nembi neri e bianchi cirri, piove fitto fitto per qualche minuto e poi di nuovo via, il sole asciuga con un sorriso la strada e gli stracci penduli.
Domani verrà con un’ora in meno; ohi ohi, un’ora in meno anche per votare, come si farà, come si farà… ché domani avrà un'ora in meno per alambiccare intrugli di buoni e altruistici pensieri e far di conti per recuperare un'ora in meno.

venerdì 19 marzo 2010

A cavallo di un'anatra frittellata (Incontri con l'arte, 4)

Frittelle di riso di San Giuseppe.
Ingredienti e dosi:
100 gr. di riso
½ litro di latte
2 cucchiai scarsi di zucchero
scorza di un limone grattugiato

H. 14.15. Versate il latte in una pentola e accendete il fuoco. Aggiungete lo zucchero e la scorza di un limone. Grattugiate il limone nel latte, se il limone cade nel latte pescatelo con un cucchiaio (pulite i fori ostruiti della grattugia dai pezzetti di scorza di limone con un po’ di latte caldo, oppure inzuppate la grattugia nel latte). Quando il latte bolle versate dentro il riso. Girate spesso e volentieri per evitare che il riso si attacchi al fondo della pentola. Attenzione a non fare uscire il latte dalla pentola! Dopo qualche minuto aggiungete un pezzetto di burro (aggiungere alla lista degli ingredienti). Dovete girare il riso fino a quando non lo sentite denso, il cucchiaio deve girare a fatica, quasi deve restare ritto da solo se piantato nel latte e riso. Insomma si deve formare una pastetta bella densa.
H. 14.50. Spegnete il fuoco (sotto la pentola).
h. 18.00. Scolate il riso in una ciotola, capace di contenere il riso, indi aggiungere 2 tuorli d’uovo (aggiungere alla lista degli ingredienti). Ah, anche le due chiare, precedentemente montate a neve.
Volendo un po’ di uvetta prima ammollata e poi ben asciugata (allontanate, con le buone maniere, l’anatra dalla cucina).
Friggete in abbondante olio di oliva; attenti agli schizzi! Usate una pentola fonda, per friggere. La pastella raccolta in un cucchiaio andrà a fondo come il Nautilus, aspettate qualche secondo e poi staccate la frittella dal fondo della pentola fonda con una forchetta non bagnata, come per miracolo la frittella galleggerà sulla superficie dell’olio. Fate passare ancora qualche secondo poi rigirate la frittella nell’olio. Levate la frittella quando il colore della frittella sarà di un bel fulvo dorato, anzi più fulvo che dorato. Terra di Siena Bruciata? Ocra gialla?
Con le frittelle successive non ci sarà bisogno di staccare la pasta dal fondo della pentola con la forchetta.
Lasciate ad asciugare le frittelle su carta gialla; la stessa che usate per tirare fuori i bachini bianchi con la testina nera (o è un granello di pepe?) dai funghi porcini cosparsi di sale e di pepe.
Invitate Magico Primario a tavola, e ascoltate in silenzio il suo giudizio critico sulle frittelle; sosterrà che solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, solo e soltanto ciò potrà dare un valore e un senso a queste frittelle di San Giuseppe.

Magico Primario si volta e ruota la testa sull'esile collo gommoso, Dr. Frittella di San Giuseppe, se tu fossi un’anatra grigia frittellata, come frittelleresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito estatico nella visione di un piatto di frittelle di San Giuseppe. Dove se n’andrà? Dove è già andato? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile di una ricetta di frittelle di riso. Vieni, vieni sotto l’ombrello che in cucina l’olio schizza da tutte le parti, sta piovendo dal soffitto olio di oliva. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, che in cucina fa freddo, tira vento, c’è la finestra aperta per il puzzo di olio bruciato e siamo solo al 19 di marzo. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… O Magico Primario.
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lunedì 15 marzo 2010

Bestiario n. 13 (butter-fly, butterfly)

Una farfalla sul corno di un camoscio, (*)
generazioni di farfalle bianche su un corno insanguinato,
di un camoscio che mastica il ciuffo di cima lasciato sui tronchi d'alberi abbattuti,
e un vecchio cacciatore che soffia via, soffio di vita, dalla canna del fucile una farfalla bianca.
La vita è una tazza di latte dove galleggia una mosca morta?
La vita è una farfalla bianca, petalo di vita nel vento, su un corno insanguinato?

(*) Erri De Luca, Il peso della farfalla
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domenica 14 marzo 2010

CEIsAAA, V

Gli eredi di Oliver (Ollio) Sassu, direttore degli scavi archeologici a Favbrillhà, offrono al popolo di Internet la trascrizione fedele, da un supporto magnetico – ahimè, ahinoi, ahivoi, purtroppo parzialmente smagnetizzato -, degli atti di una riunione estemporanea della Fondazione Favbrillhà (FF), tenuta in un giorno di fine estate dell’anno mille novecentoquarantasei, nel retro bottega di una pizzicheria al Mercatino di San Piero, a Firenze.
L’argomento all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile di fine estate, fu il seguente:
"lettura e commento della Tavoletta 1111.b", con contributo del Socio Pio de Pio, del Socio O.K. Allright, e in parte (noi eredi sospettiamo) del vino della locale cantina.

PIZZI-CHE-RIA-E-CA-NOVA-DI-VI-NI
VEENDITADI-PA-NE-PASSTE-E-GE-NE-RI-ALI-MEN-TA-RI.
Grazie mille, dottor Arne Otto Saknussen ma sappiamo tradurle anche noi le insegne! [rumori, parole intraducibili] Io invece vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci o in una soffitta o in una cantina! Questa sembra più una buca scavata nella terra che… non era proprio possibile chiedere ospitalità nel locale museo archeologico cittadino? Vada via! Vada via! un c’è posto! Non sentite di essere dentro la Storia? O un lo vede che un c’è posto! Passeggiando per queste antiche strade, passando sotto l’Arco dove un tempo i casigliani arrovesciavano sugli avversari pietre e pece bollente… Vada viaaa! E le botteghe, son fantastiche le botteghe, guardate! E casco! E’ da stamane che sto in piedi a servire! Secolari e bui antri, come bocche nere spalancate, alitano su noi il fiato dei millenni di droghe e salami che fermentano e di pesci che si corrompono nell’ombra della sera, O Cencio, non son mica un uomo da pigliarsi in giro io! E il vino che si tramuta in aceto nei fondi fiaschi, avvoltolati come morti feti nella paglia muffita. Il mommo, amore, un po’ di mommo… E la macelleria?, ricordate il manzo intero… Spaccato a metà, con sotto la segatura fradicia di sangue nero che ancora sgronda dalla cervice. Bovi bovi dove andate… E accanto a quell’odore bestiale ricordate i freschi odori dell’orto fuori porta, fuoriuscivano dalla bottega dell'erbaiolo, dal fruttivendolo… Telemachino, non ti mettere il ditino in bocca… E poi di sotto l’arco passava e ripassava sempre identico a se stesso, il popolo antico… Che si ordina qualche fico? A me, questo odore di formaggi, di insaccati e di baccalà, mi rivolta lo stomaco! …E vino! L’olio ti piace? Razza di topo! T’à a venir ghiotto a caso. Che peccato dover aspettar tanto, prima di poter mettere un figlio a scuola! Che anni sprecati quelli del seno, dei giochi, del fai ciao con la manina! Ikké ha da bofonchiare il dottor de Pio? Colleghi, vorrei farvi notare la conformazione cranica del padrone della pizzicheria, è un capolavoro ambulante… Bandone! E’ bandone! Un capolavoro della natura… Poverino! Bisognerebbe ch’io non sapessi… Meravigliosa testa a pera! Probabilmente l’omacciolo è un diretto discendente delle antiche genti etrusche… E allora forse gli potrei anco credere... Noi sappiamo… Piuttosto, il segreto della vernice… Asia Anteriore Antica… Già, la vernice! Sconosciuto staterello… Gli antichi le avevano certe vernici. Segretario!… Si potrebbe far un saggio, se lei crede, domani, porto gli acidi! Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Grazie: troppo gentile. Tanto, se lo metta in capo… Si sta facendo tardi! E io vorrei iniziare… [rumori, parole non tradotte da Google]… la cantinflora la non me la leva di sotto! ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque…

Così parla Hinscuppapandira’hinu (?), il Gran Re, il Re dello Stagno, il Re di (?):
A P[upo, il Gran Re], il Re di Egitto dì:

Fino a me tutto è bene. Io sto bene. Possa fino a te essere tutto bene!
Per quanto riguarda le lame di ferro su cui mi hai scritto, buon ferro a (?), nella mia Casa del Sigillo non è disponibile. Tempo non buono, per produrre lame di ferro. (Cmq) quando l’avranno finite, te le manderò. Intanto ti mando una lama di un pugnale di ferro.
Poi tu mi chiedi: “ Quando sarà pronta quella famosa corazza di bronzo?”
Vedi, per quanto riguarda la corazza di bronzo che ti avevo promesso, il mio mas(tro di forno?) Karciuphinu è fuggito a piedi a Lukka, (e) dalla [città di Luk]ka così (mi ha scritto):
“ O Gran Re! la vostra opera si è guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo! A Lukka ti rividi!”
Subito che io ho sentito (questo), ho messo un grido tanto smisurato che si sarebbe sentito fino alla Terra del Tramonto (?). E gettato (me) fuori dal letto, a calci e a pugni ho preso i servi, i cani, i gatti e (pure) gli scribi. (Intanto) volgevo guaiti e preci al Dio del Cielo Azzurro Indifferente;
(così mi dolevo): “Ahi vile traditore! Invidioso mastro di forno Karciuphinu! Io giuro, per gli Dei di Egitto, che invaderò tutta la terra di Lukka, e non lascerò vivo neppure un Genio o un pollo, e lo stesso Faraone ne resterà grandemente meravigliato!”

Ho fatto come te!
Subito dopo andai a vedere la fornace abbandonata dal vile Karciuphinu, e vidi tutto il metallo rappreso che pareva un covaccino.

Ho sfogato la mia ira su un nano ballerino; l’ho preso per la testa e l’ho sollevato da terra urlando: “Ti farò veder ben io Lukka!”.
Ho ordinato a due servi di far visita al vicino, mastro Kapretta, e chiedere una catasta di legne di quercioli giovani, secchi di piú di 1 anno; legne le quali donna Ginevra, sposa del detto mastro Kapretta, le aveva offerte in dono, in dono al Re dello Stagno, in dono al Gran Re della terra di (?);

[…] innumerevoli piatti di stagno […] quando il covaccino cominciò a sentire il terribile fuoco, esso cominciò a schiarire, e lampeggiava
[…] ho urlato: “Mosè! e molla codesta (cesta?) che devo sventolare il fuoco!”
[...] di verso l'orto avevo fatto rizzare tavole e tappeti e pannacci, che mi riparavano all'acqua…

Qui si interrompe la lettura della lettera, ché la tavoletta 1111.b è visibilmente spezzata…
La tavoletta 1111.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante della padronanza di pratiche di lavorazione dei metalli all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda sia la lavorazione del ferro, probabilmente ferro meteorico e la lavorazione di oggettistica artistica in bronzo, (la corazza promessa al Faraone). La lettera comprende un toponimo: la regione di Lukka, occupata probabilmente dal sovrano Hinscuppapandira’hinu, nipote del sovrano Shuppipandira’hinukhaliya, citato nelle lettere 666.b e 969.b, e che noi sappiamo fu spedito in esilio, proprio nella terra di Lukka.
In 1111.b, il sovrano Hinscuppapandira’hinu scrive al Faraone Pupo I (che si lamenta di una corazza promessagli in dono), giustificando il ritardo nella fornitura di lame di ferro; la colpa sarebbe da imputare a un funzionario locale incapace, certo Karciuphinu, che noi sappiamo essere ancora segretamente devoto al nonno del sovrano, il vecchio Shuppipandira'hinukhaliya, i due erano probabilmente ancora alle prime armi nel dominio delle arti metallurgiche; fuggito il funzionario inetto nella regione limitrofa di Lukka, a questo punto tocca al sovrano prendere in mano la situazione, e il forno, e volgere la drammatica questione a suo favore. Bisognerebbe sapere dov’è andato a finire il coperchio della cantinflora… La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, Buona, buona la trovata! Vada, vada: la comprerebbe anche così! Per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al guardiano della fornace, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Kapretta e Ginevra, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori] Dal contesto si evince che la lettera è stata scritta in primavera, o al più tardi in estate, ma di quale anno lo sa Iddio! Probabilmente la lavorazione del ferro del cielo era affidata ai contadini. Io invece credo che sia solo un abile espediente diplomatico del re di Orzowei. Dice di non avere lame e intanto ecco ne spunta una dal cilindro, pronta per essere impacchettata e spedita al Faraone…
Si godèttero, si godèttero e a me nulla, mi dèttero; e’ mi dèttero un uccellino: uccellin verderiò fammi più bello di quel che non so’.
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sabato 13 marzo 2010

A cavallo di un'anatra inquieta (Incontri con l'arte, 3)

...(la vita di Cellini la scrissi io quattrocent'anni fa)...
Ottone Rosai, Via Toscanella

In sogno Magico Primario, prima di lasciarmi ad un sonno profondo e riparatore (fino alle cinque e ½), mi aveva spiegato la causa profonda del malessere, di quella strana inquietudine, che provavo osservando la schiena di G (medico specialista nel reparto del dr. House), schiena coperta da un giaccone rosso fiammante, vale a dire mi ponevo, a me stesso muto, le seguenti domande: perché G mostrava la schiena al cameraman; perché il regista non inquadrava più g (paziente amico di G); perché le beccacce e le pernici e i pappafichi del bosco se ne stavano chiotti chiotti, fingendo peraltro tutti d'essere merli o passerotti, e coi teneri beccucci aperti; perché sentivo che G aveva qualche buona probabilità di finire steso morto fulminato, tra le foglie e i funghi del sottobosco, con il giaccone rosso fiammante bucato.

Colpevole e causa primaria del déjà-vu, secondo Magico Primario, è un famigerato artista manierista, tale Cellini Benvenuto, il quale, plagiando la scena del giaccone rosso, e numerose altre scene della serie tv del dr. House e non solo, era riuscito (con un colpo da maestro di marketing) a convincere gli storici che la sua Vita era antecedente alla serie del dr. House, che lui stesso era il modello ispiratore del cinico clinico zoppo veggente e megalomane, e che la parola americana "pizza" è traducibile in italiano (e in giapponese) solo in modo vago e con un giro di parole, per esempio come una sorta di piatto di pasta con sopra il pomodoro.

Ed ecco la prova del plagio (per maggior chiarezza di lettura e per evidenziare i nessi strutturali ho colorato le parole chiave):

"Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col Papa inistimabile. Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso che questo era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io che ero di sopra a l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in mano, vestito tutto di rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e piú lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva tirare cosí lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s'aveva messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l'uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi dell'omicidio, e d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire particularmente le belle cose che in quella infernalità crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo" (*)

(*) Benvenuto Cellini, Vita (Libro primo, XXXVII)
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venerdì 12 marzo 2010

Un giorno da scioperati

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono "Tutti sono uguali,
tutti rubano alla stessa maniera
".
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.
E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare
,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

F. De Gregori, La storia siamo noi
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mercoledì 10 marzo 2010

Il pane del sogno (spin-off di CEIsAAA)

Questo post può essere letto come spin-off della serie dei post dedicati alla corrispondenza esterna e interna di uno staterello dell’Asia anteriore antica (CEIsAAA).
Vorrei spendere qualche parola sul perché questo post sarebbe uno spin-off. Dicesi spin-off,

nel mondo dei media, un film, un telefilm, una serie televisiva, un fumetto o una serie fumettistica, un'opera o serie letteraria, un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente o traendo spunto da uno dei suoi personaggi (da Wikipedia).

Spin ha il significato di movimento rotatorio, ma può essere usato, in senso figurato, per descrivere una persona in preda al panico. La frase To spin a yarn, il dizionario, inglese-italiano e italiano-inglese, Hazon-Garzanti la traduce come il raccontare una storia. E off, fuori, fuori da, esterno, ecc.. Mettendo insieme le due parole si ottiene una storia raccontata al di fuori della storia principale, un po’ come un sentiero nel bosco che ad un certo punto si biforca, ponendo il viandante di fronte all’alternativa se continuare sulla vecchia strada o provare la nuova.
Lo spin-off deve sempre avere un personaggio che nella storia d’origine occupava un ruolo secondario, ma interessante; nel nostro caso il personaggio non è ovviamente né la corrispondenza esterna, né quella interna, e neppure l’Asia anteriore antica, il personaggio di questo post è lo strano modo di mettere insieme le parole in una frase che dovrebbe avere, ma non ci scommetterei sopra un calzino usato e bucato, un senso univoco e compiuto.

Oh! Le giornate nelle quali ci si sente la testa vuota! E viene a cullarci la voce di un amico completamente nullo!, così scriveva Charles Cros, mentre preparava il tè e imburrava le tartine (sopra e sotto come Pinocchio), e il tempo si fermava sul binario delle 5 e 3/4, e il gatto del Cheshire aveva appena finito di sparire, solo rimaneva nell’aria il vapore di un sorriso, e il disco di vinile girava sul piatto suonando Foxtrot.

Il primo lato si apre con Watcher of the skies, scritta sui tetti di una Napoli deserta (il gruppo era in Italia per il tour legato a Nursery Cryme). La desolazione della città campana ispira a Rutherford e a Banks l'idea di un mondo in cui la vita si è ormai estinta, osservato con stupore da visitatori alieni. [...]

[...] Un futuro distopico è delineato in Get'em out by friday, scritta intorno ad una prepotente operazione di speculazione edilizia, che porta addirittura ad abbassare l'altezza media del genere umano allo scopo di risparmiare spazio e e a far sloggiare gli inquilini meno abbienti dalle loro case per poi collocarli in abitazioni sempre più anguste ed inumane.

La seconda facciata si apre con il brano strumentale Horizons, eseguito alla chitarra acustica dal solo Hackett ed ispirato al primo movimento della Suite per violoncello BWV 1007 di Johann Sebastian Bach, ed è poi interamente occupata dalla monumentale suite Supper's Ready, in cui i temi biblici affrontati in From Genesis to Revelation tornano prepotentemente ad affacciarsi. [...] per una narrazione elegante, ricca di riferimenti storici, mitologici e biblici, carica di quei giochi di parole che continueranno ad essere una caratteristica delle liriche del gruppo. A tal proposito i testi dei Genesis furono spesso marcati come "intraducibili"; ciononostante, l'affermazione del gruppo fu pressoché inarrestabile al di fuori del Regno Unito prima che in patria (da Wikipedia).

Quando si ha la testa vuota si gira a caso su Internet e si finisce per leggere un articolo di Umberto Galimberti su Giovanni Semerano. Scrive UG:

Verso la fine degli anni Settanta Giovanni Spadolini, conosciuto Semerano, gli commissionò una ricerca dell’etimologia della parola "Italia", che allora veniva resa come "terra dei vitelli", da "vitulus" (vitello). Semerano segnalò che la "i" di "vitulus" era breve, mentre la "i" di "Italia" era lunga e perciò era presumibile che la parola venisse dall’accadico "atulu", che significa "terra del tramonto", cui corrispondeva la parola etrusca "hinthial" che vuol dire "ombra".

Terra del tramonto perché il punto di vista dell'osservatore erano le coste dell’Anatolia. Ecco che accade il miracolo, la testa si svuota completamente come la tazzina da tè della storiella zen; finalmente ci cade di dosso il macigno di vivere in una terra di eterni e allegri vitelli!

Ma è quando UG si mette a parlare male di Pallottino che si accende una scintilla, e anche se Giovanni Semerano non ne avesse azzeccata una in vita sua sai quanto me ne frega!
Straordinaria la fine dell’infinito di Anassimandro: il mare di Omero non è più la vela nera lontana lontana (quasi all'infinito) all’orizzonte, ma acqua e sabbia.

Semerano affermava di basarsi non sul metodo scientifico elaborato dalla linguistica comparata ma su assonanze fonetiche e su affinità di significato, seguendo dunque un procedimento paretimologico (da Wikipedia).

E qui la testa vuota prende il sopravvento, il cappellaio matto danza sul tavolo, parte lo spin-off, perché non è forse così che è nata la scrittura? Nella scrittura sumerica ad ogni segno o gruppo di segni corrispondeva una parola. La scrittura sumerica si sforzava fin dall’inizio di diventare quotidiana, corsiva e di uso comune (al contrario della scrittura egiziana, però gli egiziani avevano dalla loro parte dottori in marketing, infatti, hanno vinto tutte le battaglie e sono ancora tra noi con mummie e piramidi), come è possibile ciò? Ora come è possibile continuare a parlare dell’Egitto questo io non lo so, e m'importa quanto il mistero della prugna secca trovata in bocca a Tutankamon (a Giacobbo svelare il mistero della prugna secca); la mia domanda è come è possibile esprimere con segni, concetti difficilmente raffigurabili con i disegnini scemi degli egiziani? Elementare Watson, usando segni di parole dallo stesso suono, ma di significato diverso, per esempio il nome di persona En-lil-ti, tradotto in “Enlil ti conservi in vita”. Il segno per “conservare in vita” è un pittogramma a forma di freccia e, infatti, vuol dire “freccia”, ma ha lo stesso suono di “vita” in sumerico, concetto assai difficile da rappresentare con una figurina stilizzata. :)

Giacomo Debenedetti, citando Italo Svevo che citava Joyce, scrive nel Romanzo del Novecento (p. 581):

Quando il Joyce mi spiegava che il pane che un bambino sogna di mangiare non può essere lo stesso ch’egli mangia quando è desto perché il bambino non poteva trasportare nel sogno tutte le qualità del pane e che perciò il pane del sogno non poteva essere fatto della solita farina (flour) ma piuttosto di una farina designata con un suono simile (flower), fiore, che le toglieva delle qualità e gliene impartiva delle altre più proprie allo stato del sogno, io subito ricordai l’oggettività dell’Ulisse.

Si potrebbe pensare che molte parole scritte sono nate nei sogni degli scribi al lavoro. Chi era quel filosofo che elogiò l’ozio? Oh, che domanda oziosa... ;)

Ma si può spingere ancora avanti la carretta, accoppato Pallottino, esiliati in Anatolia gli etruscologi, fatti svanire – con una formula magica - gli indoeuropei, possiamo sognare un linguaggio comune che ci lega ai nostri compagni, gli altri animali?

La sensazione che si prova quando si comincia col dire una cosa e si viene a sapere di averne detta un’altra è quanto mai affascinante, una volta abituaticisi.
Un mattino, ricordo, volevo dire: “La fioritura dei ciliegi nel parco di Hibiya è molto bella questa primavera”, quello che in effetti dissi, come Wata-nabe-san mi spiegò più tardi, fu: “Noi uccelli color ciliegia voliamo sempre nel parco di Hibiya a primavera”. E’ un buon esempio di sparizione di parola: la parola “fioritura” era dileguata.
“Che ne è successo di fioritura?” chiesi a Wata-nabe-san quella mattina.
“Fioritura”, mi disse, “è diventata colore”, e combinandosi con la parola ciliegi, è divenuta una frase descrittiva. Vede” aggiunse, “lei ha usato il suffisso per uccelli".

(McKelway, Un suffisso per uccelli, in Gli umoristi moderni, Garzanti, 1971).

C’è stato un tempo, all’inizio della storia, che nessuno cadeva dal pero o si faceva beccare con un panino in mano, ma, come il Renzo del Manzoni che viveva da qualche parte nei pressi del lago di Como e ciarlava liberamente con mezzo mondo, le genti di quel tempo ciarlavano con genti di città e con genti di campagna e tutte le terre porgevano orecchio e, soprattutto, capivano, anche i cani e i gatti capivano (e viceversa). E se Renzo farfugliava fra i denti una frase con i puntini di sospensione l'oste della malora faceva subito sì con la testa, non solo ma Renzo chiamava tutti buoni figliuoli; un po’ come succede in Star Trek (dove anche l'alieno di forma e sostanza di un sasso con il muschio sopra è un bravo figliuolo, infatti, comunica con Spock, e prima o poi farà piangere il Capitano per qualcosa o per qualcuno o per qualcosa che ha perso qualcuno da qualche parte, benedetti 'sti alieni distratti), però Manzoni era nato a Milano, mentre i sumeri chissà da dove venivano, ma un bel giorno erano già lì, ad impastare infinite tavolette di terra e acqua.
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domenica 7 marzo 2010

CEIsAAA, IV

Gli eredi di Oliver (Ollio) Sassu, direttore degli scavi archeologici a Favbrillhà, offrono al popolo di Internet la trascrizione fedele, da un supporto magnetico – ahimè, ahinoi, ahivoi, purtroppo parzialmente smagnetizzato -, degli atti di una risolutiva e definitiva riunione della Fondazione Favbrillhà (FF). La memoria analogica del nastro magnetico custodiva gli Atti dell’Assemblea di Primavera dei Soci Fondatori, tenuta nella soffitta della sede distaccata di Los Angeles, della Pierpont Morgan Library, il sette di marzo dell’anno mille novecentoquarantasei.
Gli argomenti all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile, furono i seguenti:
1) lettura della memoria del Socio Pio de Pio, Tavoletta 777.b: ornitomanzia e questioni bibliche;
2) lettura della memoria del Socio O.K. Allright, Tavoletta 777.b: la scienza tradita in cucina;
3) varie ed eventuali.

[…] vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci in una soffitta polverosa e piena di topi! Non è proprio possibile affittare l’Auditorium? Manco fossimo comunisti!!!
Segretario, C. Pancalakaprakampa – Di nuovo con ‘sta storia del comunismo… va bene, va bene…
O.K. Allright – Sì?
C.P. – ‘osa?
O.K.A. – Oso?
C.P. – ‘osa osa ‘osa?
O.K.A. – Lei ha detto “osa”…
C.P. - No, io ho detto “’osa”…
O.K.A. – Cosa?
C.P. – ‘osa ikke ‘osa!?
O.K.A. – Chi osa cosa, o ch’io’so cosa?
Pio de Pio – [rumori, pugni sul tavolo] Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Ascolti!… Si sta facendo notte! E io vorrei iniziare… [rumori, parole intraducibili]… ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque… ma dove sono finiti i miei occhiali [risatine in sottofondo]… bah!, sì,… che m’importa a me…
O.K.A. – Per una che va storta una dritta c’è! [rumori, sghignazzi, pugni sul tavolo]
P. de P. - … la tavoletta 777.b io la conosco a memoria, io!

UM.MA LUGAL-MA
A.NA Awauwauwauwauwauwauwaa KI.BI.MA
DINGIRMEŠ eš-da aš-su-li PAP-ru…

Arne Otto Saknussen – Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Io protesto! Non tutti i presenti, e immagino neppure gli assenti, sono disposti ad ascoltare una tavoletta che parla alle 10 di sera! Io chiedo che l’esimio collega e stimato filologo de Pio, ci traduca la tavoletta, in una lingua vivente!
P.de P.- [sottovoce] Che vergogna non conoscere le lingue morte [ad alta voce] Allora, dunque, dunque… sì, nella lettera c’è scritto…

1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che il Dio degli Eserciti possa mantenerti in salute!


4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde una colomba bianca volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.Un’aquila volò da questa parte, con volo bello e maestoso verso la casa del mio signore.
7.Vi recitiamo lo scongiuro. Ci tocchiamo le ali (?)
8.Poi […] un’aquila svenne (?)”
9.[intraducibile]
10.[…] un’aquila voi (auguri) vedeste,
11.[da questa par]te andò, poi [in avanti] da lontano (con volo) basso andò, poi essa volò via.
12.[intraducibile]
13.Voi (auguri) l’aquila individuaste (e fin qui), tutto buono, ma poi guadaste il fiume, (e quella) piantaste in asso!
14.Poi così ci scriveste:“Gli uccelli bianchi del fiume ci circondarono tutti, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(noi) a quel punto ci buttammo (ci lavammo i vestiti?) giù nel fiume BLUBLUBLU!”
16.[…] ali bianche nel cielo […] casa delle tavolette […]
17.Dunque, (dunque gli auguri) agiscono così, così piantano in asso gli uccelli bianchi del fiume!
18.Se (agli auguri) in un qualche posto un’aquila […] nel posto dove si leva, non l’attendono appunto, là?
19.E (voi) perché l’aquila non attendeste?
20.Se essa fosse venuta in avanti con volo bello, sarebbe poi venuta da questa parte con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (vi) ho perdonato la questione dell’aquila.
22.Marciate dritto e non rifatelo più!
23.Se no, vi capiterà di inciampare sui vostri stessi corpi!
24.In verità, (in verità vi dico) che il fannullone dialoga con la propria testa nel cesto!
25.Su, su, disponete uccelli favorevoli giù nel fiume, per favore.
26.E offrite una colomba al Dio degli Eserciti!
27.Su, di grazia, (la questione della consultazione oracolare e l’ornitomanzia) giù al fiume è MOLTO importante (per me)!
28.Osservate bene uccelli favorevoli giù nel fiume.
29.E guadate il fiume, solo quando il fiume è in secca!
30.Ecco, io l’unto del Signore allo scriba Mosè,
31.e molla codesta cesta! (che non sei più un fantolino abbandonato nel fiume) ho detto.
32.Cordiali saluti, un bacio al tuo bimbo IsaU, e uno alla tua sposa REbeccA.

33.P.s. Oh! ricordati della testa nel cesto!

La tavoletta 777.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante dell’esistenza di pratiche divinatorie ornitomantiche all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda l’ornitomanzia e le consultazioni oracolari. La divinazione era una pratica molto usata dai sovrani ittiti, quindi non ci meraviglia scoprire che anche in epoca paleoittita i sovrani di questo misterioso regno, dal nome tuttora sconosciuto, praticassero tecniche mantiche.
Il re comunicava all’augure i quesiti da porre alla divinità e, avvenuta la consultazione, minuziosamente registrata dagli scribi su questa tavoletta, le risposte erano fornite al re.
Lo stile di questa lettera è caratterizzato da una notevole sobrietà, proprietà di linguaggio e stringatezza formale. La lettera è il resoconto dettagliato di osservazioni fatte dagli auguri sul volo di alcuni uccelli: due aquile e alcuni non meglio identificati uccelli bianchi del fiume. La lettera comprende anche un toponimo: il fiume BLUBLUBLU (scritto in sumerico), da identificare probabilmente con il fiume Imrallaja, distante forse una giornata di marcia dalla futura Hattusa. In 777.b, è il sovrano che scrive agli auguri, tramite il funzionario locale Wauwauwauwauwauwauwa, per rimproverarli, colpevoli di non aver seguito fedelmente le norme stabilite per la consultazione: avvistata un’aquila, che dovevano osservare, avevano invece guadato il fiume senza seguirla, come indicava il rituale (Recto, 13). A questo punto il re spiega come in realtà l’osservazione avrebbe dovuto svolgersi (Recto, 18-20); quindi esorta gli auguri a riprendere le consultazioni senza commettere altre negligenze (Verso, 25-29). Il re si comporta paternamente con il funzionario locale negligente, lo perdona, e lo ammonisce dicendogli di non farlo più, infine per rasserenare il funzionario gli racconta una piccola facezia (Verso, 23-24), quindi lo saluta con affetto.
La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al funzionario locale, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Il poscritto, sul margine sinistro della tavoletta, è un erudito commento dello scriba Mosè... [rumori, mugugni]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Isaù e Rebecca, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori]

[nastro magnetico danneggiato]

O.K. Allright – […] Traduzione e interpretazione della tavoletta 777.b:

1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che gli Dei possano mantenerti in salute!

4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde un piccione bello grasso volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.O straziante bellezza del creato, altri stupendi e meravigliosi piccioni s-KA-KA.u hanno seguito il primo, in (volo alto e bello) verso la casa del mio signore.
7.Perché io ho recitato una formula magica, che ha incantato le loro ali.
8.[intraducibile]
9.Se tu, mio signore, questi piccioni hai gradito, allora piaccia al mio signore di scrivermi,
10.ed io manderò da te una nube nera di piccioni, e ancora piccioni e ancora e ancora (per te)!”
11.Vedi, i piccioni, che tu mi hai mandato in volo,
12.non solo non li ho assaggiati,
13.ma neppure visti, per dire se fossero buoni o no. Sei proprio un as(ino)!
14.(volando alti tra le nubi) hanno lordato la mia casa, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(essi) si sono buttati (si sono lavate le vesti?) giù nel fiume BLUBLUBLU.
16.Poi i piccioni sono volati via, (sono tornati alla) casa delle tavolette, (da te!)
17.I (funzionari zelanti) non agiscono così, non piantano in asso i piccioni s-KA-KA.u al fiume!
18.Se (ai funzionari zelanti) in un qualche posto, un piccione bello grasso appare, (ebbene) nel posto dove si leva, non l’acchiappano, con le reti, là?
19.E (tu) perché il piccione bello grasso non hai preso?
20.Se esso fosse venuto in avanti con volo bello, sarebbe poi venuto da questa parte, con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (ti) ho perdonato la storia dei piccioni s-KA-KA.u!
22.Marcia dritto e non lo rifare più!
23.Se no, ti capiterà di uccidere (te stesso) con la tua stessa testa!
24.Come sta ZA.ZA?
25.Su, su, non mi mandare più piccioni in volo, per favore.
26.Mandami solo piccioni cotti, (che gli Dei possano mantenerti in salute!)
27.Su, di grazia, cuocere i piccioni in un grande forno, giù al fiume, è MOLTO importante (per me)!
28.E osserva bene il tempo di cottura.
29.E levali dal forno, solo quando la pelle è ben cotta!
30.Ecco, ungili coll’olio!
31.Porgi orecchio a quel che ho detto!
32.Saluti, e baci a Uhu e Bekka.

33.P.s. Ah! ricordati della salsa!

Dalla lettera 777.b si vede come la monarchia orzoweiana sia stata, in ogni epoca, una monarchia fortemente centralizzata, assolutista, dove qualsiasi questione doveva passare attraverso le mani del re, prima di essere portata a termine. E’ quindi scarsamente supportata dalle lettere, la tesi di uno di noi [n.d.t., Arne Otto Saknussen] che vede nello stato di Orzowei, almeno in alcune sue fasi, una monarchia feudale. Al contrario, il re appare interessarsi di tutto, dall’amministrazione della giustizia alla cottura di una coppia di piccioni. La tavoletta 777.b ad una prima lettura sembrerebbe una lettera di argomento gastronomico, ma al suo interno nasconde un vero e proprio dramma storico. Il carattere centralizzato della monarchia orzoweiana impedisce al re di comprendere la portata di una scoperta che avrebbe potuto rivoluzionare il sistema irrigidito delle comunicazioni, e cioè l’addestramento di piccioni viaggiatori (Recto, 7). Il re è vecchio, quasi un bacucco, ed è più interessato alle esigenze del suo triste sacco (Verso, 27), che al radioso progresso nelle comunicazioni, un po’ come il vecchio Nicomaco, nella Clizia del Machiavelli, che, per trovarsi abile a una giostra amorosa, si proponeva di mangiare uno pippione grosso, arrosto così verdemezzo che sanguigni un poco. O la miope ottusità della classe dirigente!... quasi pari all'astigmatismo di certi filologi...
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giovedì 4 marzo 2010

A cavallo di un'anatra zoppa (Incontri con l'arte, 2)

Toh, due pasticcioni a una partita di caccia nel bosco. I due portano i fucili con le canne verso il basso, incespicano fra gli sterpi, tutte le volte che una beccaccia o una pernice si alza in volo quello con l’aria più sveglia chiude gli occhi e spara per aria; qui qualcuno farà pasticcio di carne fredda di qualcun altro, temo. Infatti, uno dei due, è un medico specialista, e lavora nell’equipe del dr. House, chiamiamolo G per comodità mia e del lettore. Il generico si picca, fin dal primo secondo del telefilm che sto guardando, di essere guarito - e per sempre - da una forma maligna di leucemia fulminante; noi chiameremo il tapino, povero g (o semplicemente g). G dà pacche sulle spalle di g. Adesso non chiedetemi quello che non so; vedo che G attacca ad un tronco d’albero una sacca misteriosa; sento, anche se non sono un sensitivo (e non ho mai visto prima un episodio della serie), che la sacca fungerà da bersaglio liberatorio. Bang! La sacca, centrata da un colpo di fucile talebano, esplode, tra le urla e le risate dei due amiconi, finalmente liberi dall'incubo del malaccio pernicioso. Ora vedo G avviarsi calmo verso l’albero, G ci mostra la schiena, coperta da un giaccone rosso fiammante; perché G ci mostra la schiena? E, soprattutto, perché il regista non inquadra più g? E poi perché tutte le beccacce, le pernici e i pappafichi del bosco se ne stanno zitti zitti, a becco aperto? Sento che G ha qualche buona probabilità di finire steso morto fulminato, tra le foglie e i funghi del sottobosco, con il giaccone rosso fiammante bucato. Bang! G s'appiatta a terra, come covaccino all’olio, e poi si volta illeso ed incredulo verso l’amico, e grida, ma che cavolo mi spari addosso! Ahimè, g è disteso nel fango, tra le foglie e i funghi del sottobosco, ha un braccio paralizzato, e il dito indice della mano destra contratto sul grilletto del fucile. G accorre disperato, lanciando alti guati al cielo indifferente azzurro amerikano. G chiede a G, che è un ictus?
Sembra quasi di essere in un episodio a se stante di X-files, uno di quelli senza l’uomo che fuma e il complotto con gli omini-verdi; insomma mi chiedo: come faranno i nostri due eroi ad uscire vivi dal bosco?… Macché X-files, g è già all’ospedale, nel suo bianco lettino, con accanto una bella ragazza, sua compagna di vita (che tutti, misteriosamente, prendono per il culo, perché molto più giovane di g).La ragazza, presa di mira da medici, paramedici e pappini assortiti, si chiama Lolly Hyta, ma per semplicità di scrittura la chiameremo L e stop. G consola g, che consola L_e_stop; G dice a g che le analisi del sangue sono OK, però si gratta perplesso la pera (i che sarà mai?), ma poi il suo occhio clinico si posa sulle labbra di L_e_stop. Doc, perché mi guata così? E il vecchione, punto sul vivo, replica a Susanna, Lei ha un herpes labiale! G saltella di gioia, sospetta, ma più che un sospetto è una certezza, che g baciando L_e_stop_con_h si è infettato il midollo osseo. Che è grave?, farfuglia g, con la testa sotto le lenzuola.
Macché o un lo vedi che saltello di gioia? Adesso anche L_e_stop_con_h saltella di gioia (è proprio una bambina, biascica maligno un pappino verde, in un angolo). Saltellerebbe di gioia anche g, se non fosse per la gamba destra informicolita. G saltellando di gioia, esce dalla stanza ed entra in un’altra stanza (è come un sogno ameri'ano, questo telefilm ameri'ano). Oibò, il sogno è diventato un incubo; nella camera si agitano 8 medici, 4 infermieri, 3 suore, 2 frati della confraternita del sonno, 1 giuseppino in ciabatte e in libera uscita dalla camera accanto, 2 pappini in pausa pranzo; tutti circondano un urlante grassone, con la pancia all'aria. Il grande obeso è timido ed educato, infatti, urla, Il grasso del fondo dei miei calzoni per 5 minuti di privacy!!! Urla, l'obeso indifeso, in difesa e a tutela della propria privacy, cioè vorrebbe la camera vuota per flatuleggiare un poco. L’occhio spietato della telecamera inquadra l’eroe della serie, il dr. House; il cinico clinico zoppo, seduto assiste indifferente al dramma esistenziale del campione americano. Lo zoppo dice a G, ah!, quel tuo amico ha il cancro. G non fa neppure l’atto di toccarsi le palle, ché un rapporto logorante e stagionale con lo zoppo gliele ha piallate tutt’e due. Si ingobba, gira il culo ed esce dalla porta basculante. Alé, altro giro, altra corsa, rieccolo nella stanza di g. Si direbbe che g abbia sentito il parere dello zoppo, forse con il bicchiere appoggiato al muro e l’orecchio applicato al culo del bicchiere? Infatti, è un mezzo invalido (e sono passati solo 5 minuti). Il braccio era già andato nel bosco, la gamba sinistra sta seguendo l'esempio. G palpeggia l’arto inferiore e biascica poco convinto, Ma no, ma no, è solo informicolita. Ecco che g attacca con la tosse secca, e poi ecco la bava bianca come una bomboletta di panna-spry sgorgare dalla bocca aperta, schizza dal naso un fiotto di sangue nero, le orecchie fremono e si agitano, come se la testa volesse prendere il volo e uscire dalla finestra; g con una vocina sottile sottile chiede, che è una recidiva?
E L_e_stop_con_h piange tra le braccia dell'ex-moglie di g (è proprio una bambina, biascica maligno lo gnomo verde nell'angolo).

Ora, come è andata a finire la storia, io non lo so e non lo voglio sapere! Ho mandato a cagare il dr. House e ho spento il televisore. Gli ultimi viandanti della notte passano per strada, urlando. Nulla di simile v’avvenga, o voi che passate di qui! E sento passare le ambulanze per torregalli, per careggi, per gli allegri segaioli del cto, per santa maria nuova, per monna tessa, per dove capita capita, sembra che tutte le ambulanze debbano passare da qui; finalmente mi addormento, esausto. O non ti sogno Magico Primario?

Magico Primario dice che solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, potrà dare un senso a questo incubo amerikano.
Ma vediamo, vediamo una che vorrebbe avere un figlio ma nonostante i numerosi metodi a cui fa ricorso non riesce a rimanere incinta; uno specializzato in neurologia, con l’ambizione di essere un medico stimato ma assomiglia sempre più allo zoppo, e spalanca la bocca di meraviglia quando qualcuno glielo fa notare; una vedova di un malato di cancro, che aveva sposato per supportarlo nel dolore della malattia, di cui sarebbe presto morto, e probabilmente è per lo stesso motivo che nelle prime stagioni prova attrazione per lo zoppo, però ha una relazione con il dottor Mascarpone, col quale si sposa nell'ultimo episodio della quinta stagione e poi muore di botulino; uno specializzato in terapia intensiva, figlio di un reumatologo stimato, con cui tuttavia non va d'accordo, in quanto lo ritiene responsabile della morte della madre, a causa della sua vita fedifraga, si sente in dovere di dimostrare di aver ottenuto il posto per bravura e non per pressione del padre, e questo suo carattere lo porta a tradire lo zoppo in più occasioni; un Medico Ebreo, dr. Pan Azzim, di esperienza e specializzato in chirurgia plastica, che ha abbandonato il lavoro da chirurgo per evitare che i suoi colleghi rivelassero alla moglie il suo tradimento con un'infermiera; un giovane medico di origine indiana specializzato in medicina sportiva e riabilitativa, come lo zoppo è disposto a tutto pur di arrivare a una diagnosi, si suicida nella quinta stagione e senza alcun motivo apparente o recondito; uno che ascolta la voce, del giovane medico di origine indiana, dall'oltretomba, vorrebbe affettare una gamba in cancrena, ma non può perché è educato, e il paziente s'invola a braccetto del giovane suicida indiano; ma uno - più moderno - guardate come soffia mentre sega un braccio e con le cuffie ascolta radio radicale. E padre Giuda, amministratore delegato, se ne sta col collo rigido, la testa orgogliosa quasi all’indietro, punta la fluente barba nera come una spada sguainata, lo sguardo ardente è corrucciato, guai a voi anime prave - se non pagate - vi caccio a pedate…
Magico Primario si volta e ruota la testa sull'esile collo gommoso, Dr. Zoppo, se tu fossi un’anatra grigia zoppa, come opereresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito estatico nella visione del telefilm. Dove se ne andrà? Dove è già andato? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile di un telefilm di uno zoppo primario. Vieni, vieni sotto l’ombrello che nel fittizio ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, stanno piovendo frammenti di osso di zoppo e pezzi di milza di gatto zoppo. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, che nel New Jersey fa freddo, tira vento, siamo solo al 3 di marzo. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… O Magico Primario.
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martedì 2 marzo 2010

Bestiario n. 12 (Yojo)

Toh, due marinai a spasso sul molo di Nantucket. Uno dei due, è un marinaio “generico”, l’altro dei due, è uno "specialista" nella caccia alla balena. Il generico si picca, fin dal primo rigo del romanzo di Melville, di essere chiamato Ismaele; lo specialista invece si chiama semplicemente Queequeg. Lo specialista è un cannibale, un cannibale dei mari del sud, è nato in un’isola lontanissima. L'isola non è segnata in nessuna carta, ché i posti veri non lo sono mai. I due sono stranamente amici, e spingono a turno una carriola carica della loro roba, su e giù il molo della cittadina fatta di sabbia mescolata dal vento; al loro passaggio tutta la gente del porto sgrana gli occhi, non alla vista del cannibale, gliene importa assai alla gente di porto, ma perché li vedono, il generico e lo specialista, così vicini, in così intima amicizia. Tale è l’amicizia che li lega che Queequeg, lo specialista, farà scegliere all’amico generico la nave baleniera dove cercare ingaggio... cioè non è solo l’amicizia che spinge il selvatico ramponiere, tutto istoriato di tatuaggi, a fare scegliere all’amico, un po' sempliciotto e molto filosofo (ché in più parti il romanzo è proprio peso, ma mi si consenta una noticella critica, ché è proprio in quelle pagine pesanti che il romanzo prende il volo dal suo secolo e dal suo tempo), gli farà scegliere il posto di lavoro a tempo determinato, non solo l'amicizia che li lega, ma un vero e proprio ordine divino, trasmessogli in sogno da un piccolo dio, una divinità tascabile, infatti, il selvaggio se lo porta sempre in tasca: Yojo.
C’è un vecchio detto fiorentino che dice, Che c’entra Cristo con il puzzo dei piedi?, si sa, tutti lo sanno, i cristiani (i cattolici in particolare) sono tutti anim’e core che cantano in coro, fino a quando non gli sfiori il portafoglio o il diritto-dovere di sostare sulle strisce pedonali (ma quanti di questi cristiani hanno l’ardire e il coraggio di parcheggiare l'auto sopra un passo carrabile o semplicemente di farsi sbranare dai leoni nel circo?), e invece 'sto selvaggio pagano e cannibale e spacciatore di teste extracomunitarie, o non t'affida tutta un’intera stagione di lavoro, lunga ben tre anni, al naso di un novellino grullo!, ad un tizio appena conosciuto e che è poco più di un pescatore di trote, di un raccoglitore d’arselle e di conchiglie di San Giacomo.
Chi ha visto il film, chi ha letto il libro, sa che la nave che sceglierà Ismaele sarà il Pequod. Ebbene, il Pequod è un classico esempio di wunderkammer.

Scrive Melville che il Pequod era nave di scuola antica, piccola e con una certa aria vecchia di mobile dai piedi ad artiglio, scafo stagionato e patinato dai tifoni e dalle bonacce di tutti e quattro gli oceani, di colorito bruno, di prua barbuta, con alberi tagliati su qualche sperduta costa del Giappone, ponti consunti e levigati, legni intarsiati e ornati di trofei, nave cannibale irta dei denti aguzzi del capodoglio, pure la barra del timone era sagomata da una mandibola di capodoglio, insomma: un nobile legno marino, ma triste, ché tutte le cose veramente nobili sono velate di tristezza (anche quando cantano a Sanremo).

E il bestio di questo post, chi è? No, non è Moby Dick. La balena bianca è solo un essere innocente che prenderà a testate la nave-trofeo fino a farla affondare.

Il bestio di questo post è lo scarsamente ecumenico, enigmatico, piccolo e nero (quasi un Calimero) dio tascabile Yojo, che per chi sa quali suoi fini farà morire il suo unico fedele, e gli salverà l'amico infedele.

Oggi, Yojo possiede la maggioranza relativa di tutte le azioni U.S.A., come andrà a finire il viaggio?


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no free dogs (II)

Un canile lager, come ce ne sono tanti in Italia. I cani, all’avvicinarsi di un visitatore, spingono il muso e le zampe tra le sbarre della recinzione, perché comunque vince il desiderio del contatto con l'essere umano, anche in un canile-lager. I cani vivono in recinti di sabbia e fango. I cani dormono e sognano del sole e di una stagione di leggerezza infinita e di strade secondarie deserte, liberi corrono i cani nel sogno ma dormono in pozzanghere di fango. E le mangiatoie traboccano di acqua e di fango. Un cane vicino alle sbarre è accucciato, non vedete che quel cane sta morendo? Il cane si sente osservato e faticosamente si alza sulle zampe e scodinzola incerto e felice. Quel cane è come il vento di marzo. E come il vento, il suo essere è trascendere se stesso. Quel cane non è più corpo, è solo inquietudine. Quel cane non è più corpo, è solo inquietudine e tremore.
Quel cane non era più corpo, solo inquietudine, solo tremore, solo un ultimo soffio di vita su questa Italia che corre felice verso le idi di marzo.