Potrebbe sembrare il tema di una tesina universitaria in Storia del Cinema, e invece è il titolo di una serie di post dedicati all’elencazione di scene esoteriche nel cinema occidentale, elencazione piuttosto che svelamento delle stesse, perché essendo appunto esoteriche mi restano di significato oscuro. Ma prima di partire con la prima scena, qualche parola sul termine esoterismo, copiata pari pari da Wikipedia (e qui le analogie con una tesina universitaria e/o da esame di maturità si infittiscono come un “umido velo di tenebre”). Esoterismo “deriva dal greco esoterikos (interno, dentro) e storicamente si riferisce ai sacri misteri presenti in tutti i paganesimi e nel cattolicesimo. In Grecia esistevano i misteri eleusini, orfici e dionisiaci. Nell'impero romano si diffusero pure quelli di Mitra e Iside. […] Nel linguaggio filosofico, il termine ‘esoterico’ caratterizza l'insegnamento riservato dagli antichi filosofi greci, specialmente da Pitagora e Aristotele ai soli discepoli, in contrapposizione ad exoterico, con il significato di ‘esterno’, destinato cioè ai profani, ovvero a quanti non erano iniziati alla comprensione del linguaggio degli adepti. Exoteriche erano definite le lezioni della scuola peripatetica di più facile ascolto, da cui l'attributo passò poi alle opere aristoteliche destinate al grosso pubblico.” (Wikipedia) Dunque, c’è qualcosa in queste scene che prenderò in esame, come un deposito di conoscenza dedicato e destinato non al grosso grasso pubblico (non necessariamente greco), cioè per chiarire lo spettatore con il barattolone di pop-corn in grembo che pastura e rumina per tutti i tempi del film, ma al pubblico minuto magro scaltro e indagatore, quello che mordicchia nevroticamente semi di zucca con gli incisivi. Si parte con un classico Disney,
F.B.I. Operazione gatto (1965).
La prima inquadratura è dedicata alla casa del protagonista del film (un gatto siamese); è una tipica casa con le pareti di legno e il giardino tutto attorno. Sembra una scena di un cartone animato e la casa potrebbe essere quella di Paperino, ma improvvisamente da un flatter esce il gatto D.C., abbreviazione di Darn Cat, e tutto ci diventa reale concreto. Il film inizia con la passeggiata serale di D.C. lungo le strade deserte di un quartiere periferico di una cittadina americana, negli anni sessanta del secolo scorso. Sono da poco passate le ore 9 di una sera di inizio autunno o fine estate. Nel programma serale è prevista una sosta con spuntino alla ciotola di un bulldog tonto, vicino di casa, tonto ma capace di esprimersi con le consuete maniere della sua terra di origine, in inglese; dice:
Traducibile con un po’ di approssimazione e tutte le cautele del caso in “föra di ball”, o anche “föra da i ball” o “föra de ball”, che comunque si pronuncia “foeura di ball”, un po’ come Pompei che in inglese si pronuncia Pom-pay. Olimpicamente indifferente al malumore provocato nel legittimo proprietario del giardino viciniore (con tanto di pedigree) il Nostro si insinua, senza chiedere permesso, da una finestra con le imposte semichiuse, in una tipica cucina americana anni 60 e afferra un osso di pollo, pollo defunto nel 1965, osso di coscia di pollo che sporge da una pila di piatti all’apparenza usati. Una pila di piatti in equilibrio precario e che sembrano disegnati da Carl Barks, l’uomo dei paperi e dei manager con l’aristocratico profilo di cinta senese.
Il furto del piccolo extracomunitario nero causa il crollo della pila di piatti (simbolo della fine del consumismo occidentale?). Notate come la forma della coda del gatto fuggitivo corrisponda a quella della cannella dell’acquaio, disegnata così da un acuto designer per versare l’acqua a destra o a manca, e già questo è un segnale, una bandierina che sventola all’orizzonte sul crinale di una collina azzurra, il segno che stiamo entrando in terra di esoterismi magie e fattucchiere.
Ma il gatto prosegue serafico il suo itinerario, come il tram 8 barrato rosso. Ecco che fruga in un bidone della spazzatura, e indi stampa le sue impronte sul tetto di un’auto in sosta, poi visita una gattina azzurrina al di là del vetro di una finestra, e finalmente guata, nella vetrina del droghiere del quartiere, un salmone (fresco) decapitato. Notare come nell’immagine si legge il cartello riflesso nel vetro, in un gioco di dentro e fuori, preda e predatore, oggetto e soggetto, ecc.
Ed ecco che il regista inquadra un essere umano; per pochi secondi mette in primo piano, in campo, le mani del droghiere che incarta due fette di salmone fresco (decapitato) in veline azzurre e in un foglio di carta gialla.
E non si può non notare che l’unghia del dito medio della mano destra del droghiere è di un sospetto colore azzurro, un po’ come le veline che avvolgono le fette di salmone, come le ombre che avvolgono la casa già di Paperino e come gli occhi del gatto che avvolgono la scena dell’incartamento con un incantamento magico.
C’entra forse l’estetica di Policleto? Il realismo socialista? Il neorealismo di
Ladri di biciclette o il realismo magico di
Miracolo a Milano? O cosa?
Ma quel dannato gatto se la ride di ipotesi e congetture e teorie che vorrebbero trasformare una scena esoterica in una battuta spensierata, un riferimento galante alla moglie del pizzicagnolo, nella bagattella di un momento, piuttosto decide di seguire il cliente con il suo sacchetto di carta ecologico (cioè le due fette di salmone) fuori dal negozio… e il resto è una storia con il finale già scritto.