sabato 3 aprile 2010

Riflessioni davanti a una finestra senza vetri

La ricerca in Internet è spesso incerta perché in certi casi è veramente difficile (se non impossibile) ottenere un’informazione in un tempo umano. Ecco un esempio. Nella Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine a Firenze è presente in un affresco, dipinto da Masolino (1383-1440), raffigurante un episodio degli atti degli apostoli, una veduta urbana presa dalla vita quotidiana con uno strano particolare di cui dirò più in là. Questa veduta cittadina è attribuita al pittore Masaccio (1401-1428), ed è probabilmente la prima visione realistica di un paesaggio urbano nella storia dell’arte occidentale, anche se «sarebbe impossibile (e arbitrario) procedere ad una precisa localizzazione, nella Firenze dell’epoca, di questa fila di case alte, tetre, addossate l’una all’altra, con le finestre aperte sull’oscurità degli interni e i panni messi a prender aria sui davanzali, di queste viuzze soffocate dai ballatoi». (1)
I palazzi cittadini, nella Firenze a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, sono in genere alti tre piani (piano terreno, più due piani). Il piano terreno è destinato ai servizi, e prende luce dall’esterno tramite piccole e rade finestrelle difese da robuste inferriate; il primo piano è il piano nobile, abitato dalla famiglia; il secondo piano è costituito da ambienti meno frequentati, ad esempio camere per ragazzi e alloggi per domestici. Le finestre sono generalmente chiuse da due robuste imposte di legno (gli usci) che ruotavano verso l’interno. Talvolta, nelle case dei ricchi o almeno dei benestanti, oltre alle imposte, c’erano le «impannate», cioè «pezze di tela leggera cerata e oliata e fissata con bullette a telai di legno […]. Per solito si lasciava alle impannate la tinta naturale, il bianco; ma ve n’erano anche di dipinte» (2). L’impiego di lastre di vetro per le finestre era invece molto raro in Italia, ancora nel corso del Cinquecento.
Se osserviamo con attenzione le case dipinte da Masaccio nell’affresco del Carmine, oltre alla fedele rappresentazione visiva di quanto sopra riportato, abbiamo un’ulteriore prova dello straordinario realismo del pittore: all’ultimo piano della casa, situata quasi al centro dell’affresco, è dipinto, sopra la cornice marcapiano, uno strano animaletto, legato ad una catenella; cos’è? Sappiamo che «agli arpioni da stanghe, o alle stanghe stesse [delle case], venivano attaccati al guinzaglio certi animali domestici, come cani e bertucce, lasciati a prendere aria sui davanzali delle finestre» (3).
Dunque è un cane o una scimmietta, forse il compagno di giochi di un ragazzo, che abitava quella camera all’ultimo piano, intorno alla metà del terzo decennio del Quattrocento.
Vi sfido a cercare su Google questa informazione, senza però descrivere – con precisione - lo strano animaletto dipinto: l’impresa sarà vana come cercare uno stuzzicadenti in un raduno di formichieri. E forse l’informazione è presente in Internet: due passi più in là, appena girato l’angolo. (*)

Qualche riflessione finale. Nella Firenze del Quattrocento solo i benestanti si potevano permettere le pezze di tela alle finestre, i ricchi (i vari strozzi, medici e bischeri assortiti) addirittura i vetri (però con le bolle d’aria), mentre i poveri andavano in giro - allora - con le pezze al culo.
E che dire della miope riservatezza dei fiorentini? Forse è un carattere genetico recessivo collegato - appunto - alla miopia; vedi il condomino di casa, miope e tignoso, aprire gli scuri e con ancora la cispa agli occhi salutare una mattina di aprile del 1416 (mentre inzuppa un Buondì classico nel cappuccino), restando però nel dubbio se rispondere al saluto del coso peloso sul davanzale: è il figlio del vicino o la sua scimmia al guinzaglio?

(*) Claudio Piccini, Opus incerta, Lampi di stampa, 2007

(1) Federico Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi, 1989, p. 6.
(2) Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città, Vallecchi, 1973, pp. 152-153.
(3) Giovanni Fanelli, Op. cit., p. 154.

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