Una comitiva di turisti sosta ai margini di una magica città. È il tempo dei saluti. Tra scambi di cellulari, indirizzi, email, ricordi, il cuore è già sulla via di casa. In fondo siamo solo turisti.
Scarabocchiato sul margine di un foglio del taccuino di viaggio, resta un barlume di visione. Come se il viaggio potesse essere ripreso, dopo una breve pausa, il tempo di un caffè o di una stagione. Ma le prime gocce di un temporale ci bagnano la faccia, ci portano via quel barlume di visione, ci lasciano in cambio l’odore di terra bagnata.
Nuvole all’orizzonte (isole sconosciute) scivolano su e giù per le colline. Una nuvola bianca si guarda nello specchio oscuro della strada: sorride; dimentica.
A Firenze, fino alla fine dell’Ottocento alte muraglie, a volte formate dalle stesse case che si affacciavano sull’Arno, si ergevano lungo le sponde, e nascondevano alla vista il fiume e l’opposta parte della città; e da qui, forse, l’origine psicologica del termine Oltrarno, quasi a significare un altrove, un’altra città. Solo quando Firenze divenne capitale d’Italia, nel 1865, si formarono i lungarni attuali (anni settanta), che mutarono per sempre la visione di Firenze e il rapporto dei fiorentini con il fiume.
Solo pochi anni prima Mark Twain ammirava la vista dell’Arno dai ponti: "Ci piaceva fermarci sui ponti ad ammirar l’Arno. È un grande fiumiciattolo, intriso di storia, profondo quattro piedi e solcato da alcune chiatte che andavano su e giù. Potrebbe chiamarsi plausibilmente fiume se ci pompassero dentro l’acqua. Questi neri e maledetti fiorentini lo definiscono fiume, e pensano che lo sia davvero. Sostengono l’illusione costruendovi sopra ponti monumentali. Non capisco come non siano capaci di guardarlo con obiettività". E poi si perde per i vicoli del vecchio centro, e gira per la cittadina tutta una notte. Uno straniero in terra straniera. Alieno come l'indiano Lakota davanti all'affresco del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa, qualche anno dopo.
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martedì 21 dicembre 2010
Con un forte senso di spaesamento
La deformazione di una notizia deriva sempre da una lettura parziale di questa, e questo è vero anche nell’arte figurativa. Un classico esempio è il passaggio dal figurativo all’astratto nelle varie coniazioni di una moneta d’oro coniata tra il 359 e il 336 a.C. sotto Filippo il Macedone, padre di Alessandro Magno. Questa moneta reca sul dritto una testa di Apollo coronata di alloro, resa di profilo, e sul rovescio una biga. La moneta all’origine presenta un disegno figurativo di «forma compatta, organica e sensibile alle qualità della materia nel modellato del viso come anche nella rigidità quasi metallica delle foglie d’alloro». (Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dall’Ellenismo al Medioevo, Editori Riuniti, 1978, p. 183). Le popolazioni celtiche della Gallia vennero in contatto con la monetazione macedone e l’imitarono. «Ma ben presto furono introdotte varianti: la testa perde il suo carattere di rappresentazione di divinità; nel rovescio la biga, tipo di attacco estraneo alla Gallia, è sostituita dalla scena familiare di una giumenta con il suo puledro, al di sopra un emblema: il drago alato delle insegne militari galliche». (op. cit, p. 184). Ad ogni nuova coniazione si assiste ad una trasformazione degli elementi naturalistici. Bianchi Bandinelli rifiutava la spiegazione semplicistica di un’incapacità formale dell’artigiano, notava che la prima tappa della trasformazione dell’immagine (in questo e in altri esempi) «è il dissolvimento della forma naturalistica in elementi non collegati fra loro», (op. cit. p.185). Ogni elemento subisce quindi trasformazioni indipendenti. Alla fine il risultato è una composizione di elementi geometrici del tutto astratta. Ma prima di arrivare all'astratto si assiste ad una generazione di motivi fantastici, grilli, bizzarrie e mostri favolosi, draghi e teste con gambe, che aspettavano solo il dissolvimento della figurazione greco-romana per riemergere in tutta la vitalità di un Medioevo fantastico, dove la conchiglia (nautilus) è generatore di mostri, di animali favolosi o quotidiani. E «se la si trova su una montagna, v'è stata creata dalle costellazioni. Leonardo da Vinci attesta ancora l'esistenza di questa leggenda», (J. Baltrusaitis, Medioevo fantastico, Adelphi,1997). La conchiglia fossile è cosa aliena, di un altro tempo, di un altro luogo. Genera un forte senso di spaesamento, come se per esempio padre Cristoforo, tra strida di mastini e cagnolini, borbottii, flatulenze e meteorismi vari di un vecchio servitore sgrullo, e le argute ciacole dei due bravi caccolosi alla porta della bicocca di don Rodrigo, fosse finalmente introdotto al cospetto del magnifico signore, il capitano Nemo.
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domenica 19 dicembre 2010
La Ghost Dance tra Pisa e Milano
America. Un pomeriggio di un mite ottobre dell’anno 1886. Sulla terra delle lunghe ombre e dei lunghi coltelli sono rimasti solo ragazzi e ragazze, coperti di leggere vesti estive, dipinte con i colori eterni del Pontormo. Vivono giorni gloriosi e felici, nuotano e ballano, giocano e ridono e amoreggiano tutto il dì, e quando viene la notte si nascondono, come bambini che hanno paura del buio, dentro una materna tenda del circo di Buffalo Bill.
Si definiscono Lakota, e sono vegetariani (ma non per libera scelta), anzi fruttivori, infatti, mangiano solo esotici frutti colorati con i colori del Rosso Fiorentino, e bevono pura acqua di fonte, in coppe di bianco vetro opaco. Ma, nonostante la dieta fruttivora e la fede assoluta in una massima pavesiana (Lavorare stanca) nessun Lakota, o quasi nessuno, arriva alla senilità, e perché? Oibò, è presto detto, perché tutt’attorno scavano, bazzicano e cercano un metallo giallo, dentro nere e oleose padelle, brutti mostri albini e pelosi. Sono chiamati (dai Lakota) Wasichu.
I Wasichu non sono vegetariani (ché sarebbe stato chiedere troppo alla Divina Provvidenza), anzi hanno appena accoppato e sbranato l’ultimo bisonte sacro ai Lakota. Sbranerebbero anche i Lakota se il prete di turno distogliesse lo sguardo quanto basta, solo quel tanto che basta per poterli sterminare tutti (che un indiano buono era un indiano morto).
Ma una banda di Lakota fu portata quell’anno dai Wasichu al di là dall’acqua grande su un battello di fuoco, fino ad una città immensa, ed era Londra. La Nonna preparò torte salate e crostate di albicocche per i ragazzi e le ragazze Lakota. La Nonna era piccola ma grassa, e piacque subito ai Lakota perché fu buona con loro. I Lakota danzarono in suo onore. E allora la Nonna disse qualcosa come: “Ho sessantasette anni. In tutto il mondo ho visto ogni specie di gente; ma oggi ho visto la più bella gente che conosco. Se voi apparteneste a me, non permetterei che vi portassero in giro in uno spettacolo come questo” (*)
Ma il circo prosegue il Grand Tour per le città d’Europa. Imprigionati in un incanto maligno i Lakota arrivano a Manchester e lì si smarriscono, in un bosco di strade e case di mattoni. Tre Lakota perdono così il battello di fuoco. Tornano a Londra, e come in sogno arrivano a Parigi. Una ragazza Wasichu si innamora di uno dei tre, lo porta a casa, gli fa conoscere il padre e la madre. La ragazza Wasichu imparò alcune parole in Lakota. Da Parigi i tre andarono in Germania, dalla Germania arrivarono in un luogo dove la terra bruciava da sempre (e nessuno sapeva come spengere il fuoco). “C’era un monte alto, che finiva a forma di tenda, e lassù bruciava. Sentii dire che molto tempo fa una grossa città e molte persone erano scomparse nella terra, in quel luogo.” (*)
In seguito i Lakota tornarono a casa, ma forse prima visitarono il Camposanto di Pisa. Sostarono come turisti qualsiasi davanti all’affresco con il Trionfo della Morte. Videro i tre stadi del corpo dopo la morte. Videro le danze macabre medioevali. Uno di loro sarà in futuro uno sciamano: vedrà l’inferno di neve a Wounded Knee. Le immagini dei morti danzanti erano il tributo che l’occidente cristiano pagava al Bodhisattva. I nove stadi di disfacimento del cadavere nel buddismo erano: (1) viso livido; (2) corpo gonfio; (3) corpo tumefatto; (4) corpo in putrefazione; (5) il corpo è preda dei vermi; (6) il corpo diventa verde, lo scheletro si vede è tinto di sangue; (7) scheletro in connessione anatomica; (8) ossa spezzate, sparse e in polvere; (9) solo una vecchia tomba in mezzo alla vegetazione, nient’altro che gocce di rugiada sull’erba.
Il settimo stadio è il rito di passaggio che deve affrontare lo sciamano del mondo orientale ed americano.
Dunque i Lakota tornarono a casa. E iniziarono subito a danzare per la rigenerazione del mondo, per la fine del mondo, per l’avvento di una nuova terra. Una danza che durava giorni e notti. Era la cosiddetta Ghost Dance Religion degli storici occidentali.
Pochi anni dopo, al di là dall'acqua grande, in una città chiamata Milano, i soldati spareranno con fucili e cannoni su una folla di quarantamila persone (in gran parte donne, vecchi e bambini): protestavano contro il raddoppio del prezzo del pane. Era un giorno di maggio dell'anno 1898.
(*) Alce Nero parla, J.G. Neihardt (Adelphi, 1983)
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Si definiscono Lakota, e sono vegetariani (ma non per libera scelta), anzi fruttivori, infatti, mangiano solo esotici frutti colorati con i colori del Rosso Fiorentino, e bevono pura acqua di fonte, in coppe di bianco vetro opaco. Ma, nonostante la dieta fruttivora e la fede assoluta in una massima pavesiana (Lavorare stanca) nessun Lakota, o quasi nessuno, arriva alla senilità, e perché? Oibò, è presto detto, perché tutt’attorno scavano, bazzicano e cercano un metallo giallo, dentro nere e oleose padelle, brutti mostri albini e pelosi. Sono chiamati (dai Lakota) Wasichu.
I Wasichu non sono vegetariani (ché sarebbe stato chiedere troppo alla Divina Provvidenza), anzi hanno appena accoppato e sbranato l’ultimo bisonte sacro ai Lakota. Sbranerebbero anche i Lakota se il prete di turno distogliesse lo sguardo quanto basta, solo quel tanto che basta per poterli sterminare tutti (che un indiano buono era un indiano morto).
Ma una banda di Lakota fu portata quell’anno dai Wasichu al di là dall’acqua grande su un battello di fuoco, fino ad una città immensa, ed era Londra. La Nonna preparò torte salate e crostate di albicocche per i ragazzi e le ragazze Lakota. La Nonna era piccola ma grassa, e piacque subito ai Lakota perché fu buona con loro. I Lakota danzarono in suo onore. E allora la Nonna disse qualcosa come: “Ho sessantasette anni. In tutto il mondo ho visto ogni specie di gente; ma oggi ho visto la più bella gente che conosco. Se voi apparteneste a me, non permetterei che vi portassero in giro in uno spettacolo come questo” (*)
Ma il circo prosegue il Grand Tour per le città d’Europa. Imprigionati in un incanto maligno i Lakota arrivano a Manchester e lì si smarriscono, in un bosco di strade e case di mattoni. Tre Lakota perdono così il battello di fuoco. Tornano a Londra, e come in sogno arrivano a Parigi. Una ragazza Wasichu si innamora di uno dei tre, lo porta a casa, gli fa conoscere il padre e la madre. La ragazza Wasichu imparò alcune parole in Lakota. Da Parigi i tre andarono in Germania, dalla Germania arrivarono in un luogo dove la terra bruciava da sempre (e nessuno sapeva come spengere il fuoco). “C’era un monte alto, che finiva a forma di tenda, e lassù bruciava. Sentii dire che molto tempo fa una grossa città e molte persone erano scomparse nella terra, in quel luogo.” (*)
In seguito i Lakota tornarono a casa, ma forse prima visitarono il Camposanto di Pisa. Sostarono come turisti qualsiasi davanti all’affresco con il Trionfo della Morte. Videro i tre stadi del corpo dopo la morte. Videro le danze macabre medioevali. Uno di loro sarà in futuro uno sciamano: vedrà l’inferno di neve a Wounded Knee. Le immagini dei morti danzanti erano il tributo che l’occidente cristiano pagava al Bodhisattva. I nove stadi di disfacimento del cadavere nel buddismo erano: (1) viso livido; (2) corpo gonfio; (3) corpo tumefatto; (4) corpo in putrefazione; (5) il corpo è preda dei vermi; (6) il corpo diventa verde, lo scheletro si vede è tinto di sangue; (7) scheletro in connessione anatomica; (8) ossa spezzate, sparse e in polvere; (9) solo una vecchia tomba in mezzo alla vegetazione, nient’altro che gocce di rugiada sull’erba.
Il settimo stadio è il rito di passaggio che deve affrontare lo sciamano del mondo orientale ed americano.
Dunque i Lakota tornarono a casa. E iniziarono subito a danzare per la rigenerazione del mondo, per la fine del mondo, per l’avvento di una nuova terra. Una danza che durava giorni e notti. Era la cosiddetta Ghost Dance Religion degli storici occidentali.
Pochi anni dopo, al di là dall'acqua grande, in una città chiamata Milano, i soldati spareranno con fucili e cannoni su una folla di quarantamila persone (in gran parte donne, vecchi e bambini): protestavano contro il raddoppio del prezzo del pane. Era un giorno di maggio dell'anno 1898.
(*) Alce Nero parla, J.G. Neihardt (Adelphi, 1983)
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sabato 18 dicembre 2010
Venerdì 17
Primo pomeriggio di un giorno di dicembre, tra monte Morello e Pian de’ Giullari (è il caso di dirlo? la storia si ripete). Il centro della città è bloccato in una morsa di ferro, macchine scatenate, guidate da vesciconi gonfi, sfilano in fila piano piano, trespiano. Sta nevicando da un cielo bianco calce, ‘un la mangiare via!, ed ecco tutto si ferma, come un insetto nell’ambra, come un cristallo di ghiaccio. Si ferma il tram e si ferma la tramvia, si fermano pure i treni, e gli aerei si fermano a mezz’aria, e la gente a Peretola dorme su una sedia. La gente disfatta, poca ce n’è - oramai - ad aspettare sfatta alla fermata del tram, pensa se lor signori dell’ataf prendessero anche una sola volta una il tramme forse capirebbero qualcosa; ma che colpa hanno loro, non hanno il potere degli sciamani di far nevicare e far venire il sole, o il potere di cangiare le automobili dei vesciconi gonfi in ferrivecchi lasciati ad arrugginire in un prato di periferia, dove un tempo dimoravano i “greci” e le galline. Loro possono solo moltiplicare le linee dei tram, e mutare le rotte come più gli aggrada. Loro hanno da combattere i piacciconi e i lamentoni che non pagano il biglietto, pure. Vedi una giunta comunale giovane-giovane promettere severe punizioni vecchie-vecchie nel caso ovviamente caso per caso, casomai. Vedi il primo cittadino rottamatore di una città di ferrivecchi e crateri per le strade mettere le mani avanti che cade (nota di colore: ha la cravatta intonata alle gengive).
Lamentazioni, solo lamentazioni.
I turisti guatano, mirano, sghignazzano, e scattano istantanee per l'Eterno. Nulla di simile v’avvenga, o voi che passate di qui! Ecco le ambulanze al trotto per torregalli, per careggi, per gli allegri segaioli del cto, per santa maria nuova, per monna tessa, per dove capita capita. Firenze stende le mani, non v’è alcun che la consoli; circondata da tutte le parti da vesciconi gonfi di fiele è come cosa impura; è questa la città che la gente chiamava una bellezza perfetta, la gioia di tutta la terra? Tutti i tuoi nemici aprono, a culo di gallina (causa la neve a vento), la bocca contro di te, fischiano, digrignano i denti, dicono l’abbiamo inghiottita, sì questo è il giorno che aspettavamo; ci siamo giunti, lo vediamo!
O meraviglia delle meraviglie, sta nevicando, e nessuno lo aveva previsto. Zitto, astrologo del caxo!
Il poeta torna a casa a piedi, e canta:
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti.
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Lamentazioni, solo lamentazioni.
I turisti guatano, mirano, sghignazzano, e scattano istantanee per l'Eterno. Nulla di simile v’avvenga, o voi che passate di qui! Ecco le ambulanze al trotto per torregalli, per careggi, per gli allegri segaioli del cto, per santa maria nuova, per monna tessa, per dove capita capita. Firenze stende le mani, non v’è alcun che la consoli; circondata da tutte le parti da vesciconi gonfi di fiele è come cosa impura; è questa la città che la gente chiamava una bellezza perfetta, la gioia di tutta la terra? Tutti i tuoi nemici aprono, a culo di gallina (causa la neve a vento), la bocca contro di te, fischiano, digrignano i denti, dicono l’abbiamo inghiottita, sì questo è il giorno che aspettavamo; ci siamo giunti, lo vediamo!
O meraviglia delle meraviglie, sta nevicando, e nessuno lo aveva previsto. Zitto, astrologo del caxo!
Il poeta torna a casa a piedi, e canta:
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti.
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domenica 5 dicembre 2010
La città dei morti
Come passa il tempo! Appena ieri era il 1865, e Firenze era la capitale del Regno d’Italia. Ma i fiorentini non stavano proprio come i ragni, ché la discesa dei piemontesi scatenò una grandiosa e memorabile, per quei tempi, speculazione edilizia. Decollarono gli affitti delle case (e da allora non sono mica più atterrati). Pigionali, ragazzaglia e gentaglia assortita si ritrovarono dalla mattina alla sera sotto i bei ponti sull'Arno. Ma il Municipio pensò bene di stipulare un contratto con la Società Edificatrice di Case Operaie (e produttrice di sego). La Società si mise subito all’opera, tirando su dalla sera alla mattina ben 3000 stanze. Subito prese in affitto da famiglie del medio ceto borghese. Suonavano da quelle stanze i pianoforti verticali a tutta randa, con sottofondo dei grilli delle Cascine. E già l’Ingegner Poggi arrotava i suoi coltelli. Numerosi bottegai torinesi accorsero ad accaparrarsi i migliori locali del centro, come oggi i cinesi; non sia mai (o come direbbe Topo Gigio, ma cosa mi dici mai?!) ché questi erano francesi, europei, be’, certo al limite forse italiani. Sparivano così le "mescite di minestre", le "canove di vino", le vecchie botteghe con la porta con il muricciolo rialzato da un lato, con gli sportelloni verdi coperti di grossi chiodi, e il chiavistello che riuniva gli sportelli attraversando a sghembo da una parte all’altra. Poi certo sparirà anche il Mercato Vecchio, ma siamo già quasi alle soglie dell'età moderna.
Resta di quel tempo là qualche immagine in bianco e nero... impressionante. Sembrano le vecchie botteghe risalire al tempo, che è solo leggenda, delle città etrusche dei morti.
Resta di quel tempo là qualche immagine in bianco e nero... impressionante. Sembrano le vecchie botteghe risalire al tempo, che è solo leggenda, delle città etrusche dei morti.
Immagine n.5: una bottega del vecchio centro di Firenze, da Firenze capitale (1865-1870), di U. Pesci, 1904.
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