giovedì 30 ottobre 2008

Un'immagine in fuga

L’immagine di copertina dell’edizione integrale di Oliver Twist, edito nella collana “Biblioteca Economica Newton” (traduzione di Mario Martino), mostra un ragazzino in un frame di una corsa o rincorsa o fuga da qualcosa o da qualcuno; forse dalla miseria, dalla delinquenza di strada, da zie adottive (adottanti?) che vorrebbero rigenerarlo. Un ragazzino alla ricerca di territori abitati da indiani selvaggi e pirati e mutanti licantropi, ovvero di un semplice biglietto di sola andata per le rosse colline di Marte.

Un’immagine, come usa dire, vale diecimila parole, però queste parole prima o poi bisognerà pronunciarle, anche se alle ciance logorroiche di tizio e alle articolate riflessioni di caio sarebbe preferibile un semplice sì o no. Certo la realtà non si mostra in bianco e nero, ma in multicolor, almeno 16.777.216 colori. Ma infine si chiede solo di palesare un giudizio in merito (all’immagine). Anche perché il giudizio precede comunque le parole, tante o poche che siano. Infatti, il giudizio è già presente nella visione dell’immagine, non si scappa (dal giudizio, s’intende). C’è chi nell’immagine vede un mariuolo, chi un discolo da mettere sulla buona strada, chi vede uno zoom, un particolare di una folla in fuga dai mutanti, licantropi, ponti in fiamme sul Tamigi, terremoti, inondazioni, trombe d’aria e banche canterine.

Com’è che nella letteratura di lingua inglese c’è (quasi sempre) questa figurina di ragazzo in corsa, in fuga da qualcuno o da qualcosa? Da Charles Dickens a Mark Twain, da Bruce Springsteen a Walter Hill e Danny Boyle, ecc. Certe volte corre da solo, a piedi, in auto, in bicicletta, su un monopattino a rimorchio d'un furgoncino, sopra o sotto il treno (più raramente seduto dentro); altre volte corre in compagnia, di una ragazza, della famiglia tradizionale, allargata, ristretta; corre con la nonna e il gatto in una cesta, con l’amico, l’amica, un passante grullo per strada.

E com’è che la nostra letteratura, non tanto quella persa dietro i tartari e i grulli ma questa che pesa e pesa con il bilancino del farmacista il vissuto quotidiano di zoppine e smemorati, innamorati persi allucchettati, piccoli industriali panchinati, è sempre (quasi) ferma? Eppure si muovono queste immobili figurinette nere. Immobili in mobili scivolano lievi sotto i semafori gialli, fischiettando Yellow Submarine. Se una colpa c’è non è della letteratura o del cinema o della TV o della carta stampata e digitale e neppure di nonno Felice. E' certo, la colpa è della automobile che vive una vita autonoma e ‘sta volta ha deciso di passare col giallo; la colpa è delle macchine in genere, della tecnologia. E c’è chi mi dà conferma a questa teoria sbarazzina, il tapiro che solleva ambo le mani dal volante in un pio gesto di rassegnato fatalismo, e passa.
Le macchine sono tutte perfette e immortali, fino alla prossima rottamazione.

Ma anche nel nostro Bel Paese (accanto alle nostre banane caramellate e al nostro ossobuco di mela) esiste una minoranza di disperati che convinta che le manganellate in testa non aiutano a crescere e a maturare (e fanno pure male) liberamente sceglie la fuga.

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