Quando nel corso dell’Ottocento le spedizioni polari convinsero gli scienziati, al di là di ogni ragionevole dubbio e perplessità, che la Terra non assomiglia a una polpetta ma a uno sferoide lievemente schiacciato ai poli, e del fatto ne fecero partecipe il mondo, tale notizia cambiò per sempre la mentalità della gente, così che, per esempio, andare a vivere in Australia – o nelle Americhe - non sembrò più un fatto strano, innaturale, visto che su una quasi sfera stare qui o un po’ più in là è, relativamente parlando, la stessa cosa (il che non è per nulla vero se si ha la ventura di vivere su una polpetta).
Alla fine del secolo XVIII la misurazione del meridiano di Parigi impone come unità di misura universale un sottomultiplo del meridiano, il metro. La nuova unità di misura sostituisce le vecchie unità legate alla scala umana (il braccio, il piede, il pollice), così che “la misura degli spazi perde il riferimento ai movimenti umani” e “la prospettiva, che riguarda il controllo delle forme visibili, è assorbita nella geometria descrittiva di Monge, che rappresenta indifferentemente, su due dimensioni, tutto lo spazio tridimensionale” (1). La superficie terrestre, dove non era ancora passata la Storia ma solo la geografia, fu descritta e suddivisa in una griglia costante, orientata secondo i meridiani e i paralleli. I territori selvaggi, come un palcoscenico vuoto, erano così in attesa dei personaggi del mito e della Storia.
Nel frattempo il lavoro materiale, che dall’antichità fino alla fine del secolo XVIII era un accordo tra l’artigiano e il cliente, si spersonalizza e si trasforma in merce, e i clienti in consumatori: carne, stomaci e frattaglie e borse della spesa di carta riciclata o plastica, allevati per il benessere dell’industriale (tali e quali i polli che se non ci fossero i pollicultori ad allevarli razionalmente si sarebbero estinti da un bel dì, come ricordano gli onnivori ai vegetariani ignoranti).
A questo punto della Storia la città si era già trasformata in un teatro, con una divisione netta tra il privato, il dietro le quinte (le case, i palazzi, gli uffici, i ritrovi) e il suolo pubblico: “la pubblica via, il marciapiedi, dove ognuno si mescola con gli altri e non è più riconosciuto” (2).
Se all’inizio dell’Ottocento chi, dall’interno di un locale pubblico, guardando i passanti nella via poteva ancora indovinare, dai diversi atteggiamenti e vestiti, la categoria sociale di appartenenza di ogni singolo componente della folla, con il passare del tempo e il sopraggiungere della notte i diversi atteggiamenti e colori delle vesti si sarebbero uniformati nel grigio uniforme dell’Uomo della folla di E. A. Poe. E proprio allora in letteratura, e in seguito nell’arte figurativa, non viene più descritto il tipo sociale, la maschera, ma l’individuo, la persona unica ed irripetibile (come un mobile usato d'occasione?). Ecco un esempio di descrizione di un rigattiere, da un romanzo dell’epoca:
[...] e intanto arrancavo dolorosamente, quantunque il più veloce possibile, finché non capitai a passare dinanzi a una botteguccia, dov’era scritto che si acquistavano indumenti da donna e da uomo e che si facevano i prezzi migliori per cenci, ossa e grassume. Il padrone della bottega sedeva sulla porta in maniche di camicia, fumando; [...] Il signor Dolloby - Dolloby, almeno, era il nome scritto sulla porta - prese il panciotto, poggiò la pipa dritta contro lo stipite della soglia, entrò in bottega seguito da me, smoccolò con le dita le due candele, distese il panciotto sul banco e qui lo guardò, lo sollevò contro luce, tornò a guardarlo e disse alla fine:
- Cosa vi sembra che valga, via, questo corpettino?
- Oh, ve ne intendete di più voi, signore, - risposi con modestia.
- Non posso fare il compratore e il venditore insieme, - disse il signor Dolloby. - Fatemi una cifra per questo corpettino.
- Andrebbero trentasei soldi? - azzardai dopo qualche esitazione.
Il signor Dolloby l’arrotolò di nuovo e me lo tese: - Sarei un ladro in casa mia, - disse, - se ne offrissi diciotto (3).
E poche pagine dopo ecco un altro esempio di rigattiere:
- Oh che cosa vuoi? - ghignò il vecchio, con una cadenza selvaggia e lamentosa. - Santi occhi e santa carne, cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù gurù!
Mi prese un tale sbigottimento a queste parole, e specialmente alla ripetizione dell’ultima misteriosa che gli faceva in gola una specie di rantolo, che non seppi formare la risposta; al che il vecchio, sempre tenendomi per i capelli, ripeté:
- Oh che cosa vuoi? Santi occhi e santa carne, che cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù! - e stavolta se la strizzò di corpo con un’energia che gli fece sobbalzare gli occhi nella testa.
- Volevo sapere, - dissi tremando, - se comprereste una giacchetta.
- Oh, vediamo la giacchetta! - esclamò il vecchio. - Oh, santo cuore bruciato, mostraci la giacchetta! Santi occhi e santa carne, fuori la giacchetta! - Così dicendo staccò le sue mani tremanti, che parevano gli artigli di un uccellaccio, dai miei capelli; e s’inforcò un paio d’occhiali, per nulla decorativi, sui suoi occhi infiammati.
- Oh, quanto questa giacchetta? - esclamò il vecchio dopo che l’ebbe esaminata. - Oh! ... gurù!- quanto questa giacchetta?
- Mezza corona. - risposi, rimettendomi un po’.
- Oh, santi polmoni e fegato, - esclamò il vecchio, - no! Oh, santi occhi, no! Santa carne, no! Trentasei soldi. Gurù! (4)
Due figurine di rigattiere, una opposta l’altra, eppure le regole nel trattare gli affari sono le stesse. Questo realismo caricaturale, inteso come reazione alla spersonalizzazione (del lavoro e dell’unità di misura), era presente anche nella società del primo Ottocento. Ad esempio a Firenze certe persone più colorate di altre venivano immortalate in figurine, o addirittura in statuine di gesso che si vendevano liberamente per strada e decoravano i cassettoni.
Nel 1834 fra i più perseguitati era un tale, detto Zuccherino, che vendeva i biscottini e che aveva per male quando lo toccavano... sotto le reni [...] Un’altra vittima era un venditore di chicche, che quando passava tutti gli dicevano: - O becco! - poiché con questo bel nome soltanto era ormai conosciuto [...] C’era anche il Magnanino, che stava di bottega sull’angolo di Via de’ Cimatori, ubriaco puntualmente fino dalla mattina alle otto [...] Ponte era un ometto piccolo con una gran capelliera bianca, che andava sempre senza cappello come se avesse i calori anche d’inverno. Lo chiamavano Ponte, perché un giorno il vento gli portò il cappello in Arno, mentre attraversava il Ponte Santa Trinita: ed egli, stizzito, fece giuro di non portar mai più il cappello [...] Fra i tipi più curiosi e più buffi di cui si vendevano dai figurinai le caricature, i più noti erano Giorgino orefice del Ponte Vecchio, piccolo con le gambe torte, il viso lungo e una bazza smisurata; il principe Ruspoli, col collo lungo e d’una figura ridicolissima; il Michelagnoli, Commissario degli Innocenti chiamato per soprannome il re Erode, perché si diceva che le rendite le mangiasse tutte lui, e i fanciulli ivi ricoverati ne soffrissero [...] (5)
Era una reazione esasperata al grigio andante dell’Uomo della folla di Poe. E chi non riusciva proprio ad entrare nel nuovo mondo del lavoro, spersonalizzato e patentato (e al contempo aveva seri problemi ad usare la nuova unità di misura) non restava altro che emigrare nel Nuovo Mondo, e cangiarsi in un remoto:
Penso ora quanto fosse curioso, ma degno di Micawber, che, recandosi da Londra a Canterbury, parlasse come se andasse in capo al mondo, e, viaggiando dall’Inghilterra all’Australia, come se facesse una traversatina della Manica (6).
Mantenendo però sempre il cuore da questa parte dell’oceano:
Il signor Micawber può essere... non so nascondermi il fatto che probabilmente sarà... una pagina della Storia; e dovrà allora essere rappresentato nel paese che gli diede i natali e non gli diede un impiego! (7)
Parole profetiche per tanti cervelli in fuga (chi ha testa usi le gambe). Ma la figurina proletaria del mai rinunciatario signor Micawber verrà ben presto interiorizzata in personaggi psicologicamente approfonditi di impiegati inetti, fumatori incalliti, malati di noia, piattole introverse, su su (o giù giù) fino ad arrivare al film dell'industriale seduto su una panchina di un giardino qualunque, in una qualunque periferia post-industriale, che rimembra il suo tesssoro perduto per sempre.
(1) L. Benevolo, La città nella storia d’Europa (Economica Laterza, 1996), pag.163.
(2) L. Benevolo, op. cit., pag.178.
(3) C. Dickens, David Copperfield (Einaudi, traduzione di C. Pavese), pagg. 188-189.
(4) C. Dickens, op. cit., pagg. 192-193
(5) G. Conti, Firenze vecchia (1899, ristampa anastatica Giunti Marzocco 1984), pagg.470-471.
(6) C. Dickens, op. cit., pag. 805.
(7) C. Dickens, op. cit., pag. 808.
domenica 30 novembre 2008
domenica 16 novembre 2008
Kim nella Terra di Mezzo
Ebbene sì, esiste proprio la Terra di mezzo, ed è piccola e abitata da anatre e conigli nani, si trova al confine tra Calenzano e Sesto Fiorentino ed è nota come Parco del Neto, e copre una superficie di appena 7 ettari (pensate, immaginate, come potrebbe essere un parco di 80 ettari).
La guida di “Firenze e Provincia” del Touring Club Italia (edizione 2005) compie imperturbata la sua opera di informazione e divulgazione sbrigandosela in due parole (ché una grande vasca decorativa ottagonale con absidi inscritte nei lati, originariamente ornata di sculture – manco ci sono più - , poco più in là già incalza): “Si lascia Sesto Fiorentino alla volta di Calenzano, imboccando, all’altezza dello stadio comunale, la via di Calenzano (provinciale 28), lungo la quale è la Villa Gamba “il Neto”, con giardino all’inglese del 1853” (TCI, p.618).
In ogni quartiere di città ci dovrebbe essere un giardino all’inglese, una terra di mezzo, come il Neto, che importa se gli alberelli, appena piantati, domani saranno piccolini e non faranno ombra neppure a un volpino nano, fra cent’anni ci sarà un ricco sottobosco, dove i cani (portati al guinzaglio) sgrufoleranno e scaveranno tra le foglie e il terriccio umide buche, e le radici saranno d’inciampo ai malaccorti e distratti. Certo, meglio uno stadio oggi che un parco domani. Anzi meglio un parco e lo stadio, meglio ancora un parco, uno stadio e un centro commerciale (e dai non siate ipocriti, meglio un parcheggio, lo stadio e un centro commerciale con tanti alberelli bonsai, ché i paperi non votano e i tifosi sì). E se poi lo stadio è fra le nuvole, anzi sembra proprio una nuvola, un nuvolone bianco di cemento armato che si vedrà e non si vedrà nascosto come sarà fra gli alberi del futuro parcheggio, che tanto vale non farlo proprio (il parco s’intende), ché anche i vespasiani devono essere ben visibili, poiché il tifo dei tifosi rientra tra le necessità fisiologiche del popolo che paga le tasse e vota (mentre i cani mica votano alle elezioni comunali e, infatti, a Sesto sparirà a breve il canile, e che i cani randagi si lecchino pure in quel posto), ma in fondo agli architetti deve essere lasciata facoltà di architetturare, comunque sia non sarà una nuova Disneyland, che orrore, ma semmai una Calciolandia in quel di Castello (punto)
(e a capo) Un cugino di Donald Duck sghignazza beato da qualche parte in mezzo allo stagno artificiale (che visto dall’alto ha il profilo di un’anatra ed è alimentato da acque sorgive). I calenzanesi e i sestesi donano alle anatre le molliche di pane (panem ai paperi e circen ai cristiani).
Al ritorno, in auto, Kim se ne sta con il muso appoggiato contro il mio ginocchio. Una radio locale, tra la pubblicità di lenzuola più bianche del bianco e banche canterine, c’informa del malore occorso al nostro Presidente del Consiglio, per fortuna, accanto c’era il suo medico personale. Guardiamo dal finestrino (il cielo è blu come in un racconto di Dickens). Che cosa mi dice di questo novembre? Era da un pezzo che non vedevamo un tempo così.
venerdì 7 novembre 2008
Ma Berlusconi è un comico o un umorista?
Devo fare una premessa – che farà anche le veci di un Disclaimer, cioè quel misto fra una dichiarazione d’alti valori e principi e un dirigenziale pararsi il culo, che solitamente si usa inserire (in alto o in basso) nei blog e nei siti web; la premessa si può riassumere in poche parole, anzi in una semplice affermazione: cg-cad non è un blog politico (se per politico s’intende di partito).
Dunque la domanda che funge da titolo a questo post non è demagogica, non è di parte, non è motivata da interessi di partito o addirittura da carità di Patria (più o meno pelosa), è una domanda neutra e oggettiva, senza secondi o terzi fini, una domanda che nasce dal desiderio di capire - se possibile nello spazio di questo post e nel tempo breve di questo pomeriggio d’autunno - se il nostro presidente del Consiglio è un umorista, un comico o semplicemente una persona arguta. Ecco il fatto, contingente, cioè uno dei tanti aneddoti che costellano la vita politica di Silvio Berlusconi:
(ANSA) - Moscow, November 6 - Italian Premier Silvio Berlusconi on Thursday called United States President-elect Barack Obama ''tanned''.
''Obama is young, handsome and also tanned, so he has all the qualities to agree with you,'' Berlusconi told Russian President Dmitry Medvedev.
As domestic opponents urged Berlusconi to issue an immediate apology, Berlusconi told a press conference that his ''tanned'' remark, construed by many as a gaffe, was ''a great compliment''. Berlusconi responded to a reporter's suggestion that the remark might be misunderstood by accusing his opponents of not having a sense of humour.
''God save us from imbeciles,'' he said.
E’ assodato, e si dovrà prenderlo come un assioma euclideo (ché altrimenti non sarà possibile proseguire nella lettura di questo post) il dato di fatto che B. è bravissimo a raccontare storie, è insomma un racconta storie (notare che ho scritto “racconta storie” e non raccontastorie che c’è una bella differenza, come bere il “caffè e latte” o bere il caffelatte; avrei potuto scrivere racconta-storie (che si pronuncia raccontastorie), per unire e nello stesso tempo dividere l’abilità di B. di raccontare le storie, e le storie, belle e brutte, che si lasciano raccontare da B., ma simili raffinatezze semantiche esulano dal contenuto di questo post, che, insomma, tratta di pasta e fagioli, o solo fagiuoli, con quel che segue), e visto che B. si è dichiarato fornito di sense of humour, al contrario degli imbecilli che non ridono delle sue battute, ma si fanno pure venire le borse agli occhi (oimena oimena, o che dirà di noi la gente), tanto vale quotare un maestro indiscusso nell’arte di raccontare storie:
La storia umoristica è tipicamente americana, la storia comica è inglese, la storia arguta è francese. L’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta, quello della storia comica o della storia arguta dal contenuto.
La storia umoristica può andare per le lunghe e uscire dal seminato quanto le pare, senza approdare sostanzialmente a nulla, mentre la storia comica e quella arguta devono essere brevi e avere una logica conclusione. (1)
E ancora:
La storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio. Il narratore di una storia umoristica deve fingere di non aver alcun sospetto circa la presenza di implicazioni buffe o divertenti in ciò che sta raccontando, mentre il narratore di una storia comica ti dice subito che si tratta di una delle cose più buffe che abbia mai sentito, dopodiché inizia a raccontare con grande trasporto ed è la prima persona a ridere alla fine della storia. E, talvolta, se ha successo, è così felice e soddisfatto da tornare più e più volte a ribadire il nocciolo della storia, facendo scorrere lo sguardo da una faccia all’altra per raccogliere consensi. Una scena davvero patetica. (2)
Ai nostri fini è sufficiente sottolineare le seguenti frasi: “l’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta” e “la storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio”, per dovere ammettere che B. non racconta storie umoristiche, e di conseguenza non è un umorista.
Resta da capire se B. è un comico o semplicemente una persona arguta.
Be’ il senso del comico è un po’ sottovalutato in Italia; eppure “comico” ha un significato più profondo di quello che solitamente gli si attribuisce.
Infatti, il comico confina con il tragico, come si vede bene nella maschera del grande Totò.
E la grande Flannery O’Connor, a proposito del suo romanzo La saggezza nel sangue affermava che è una storia comica. E non è una battuta. Per chiarire senza andare fuori tema quoto la citazione che Bruno Cicognani appose all’inizio della sua raccolta di novelle (3):
Che è l’uomo, o Signore, che Tu ne fai sì gran conto e volgi la Tua mente verso di lui,
che fin dal mattino continuamente l’osservi e a ogni istante lo scruti?
Fin a quando non distoglierai il Tuo sguardo da me, appena tanto ch’io possa inghiottire la mia saliva?
Giobbe, VII, 17, 18, 19.
C’è chi immagina (religiosamente) Giobbe, comico caduto in disgrazia, seduto sul monte di cenere della sua vita passata, e chi (laicamente) connette i neuroni alle immagini depositate nella memoria del ragionier Fantozzi con la salivazione a zero, e infine c’è chi in quel desiderio di potere inghiottire la saliva ci legge la tragedia dell’uomo mortale, giunto alla fine della vita.
Il discorso torna, al solito dipende dal punto di vista: il comico vive in prima persona gli eventi, e ride cattivo, mentre l’umorista ne è fintamente distaccato, e li descrive.
B. non è un comico, non è cattivo (lo disegnano così), non è mai caduto in disgrazia, non è un inferiore, non è un angariato (anche se si lamenta sempre di Giudici che lo perseguitano, quando non è occupato a raccontare ridente barzellette), di fatto si crede immortale.
A B. è sfuggito l’evento epocale, quindi c’è da temere che B. sia una persona normale, né comico né umorista, una semplice personcina arguta, uno spiritoso segnalibro messo tra le pagine della Storia.
(1) Mark Twain. Come raccontare una storia e l’arte di mentire (ed. Mattioli 1885), pag. 9.
(2) Op. cit., pag. 10
(3) Bruno Cicognani, Le novelle (ed. Vallecchi, 1955)
Dunque la domanda che funge da titolo a questo post non è demagogica, non è di parte, non è motivata da interessi di partito o addirittura da carità di Patria (più o meno pelosa), è una domanda neutra e oggettiva, senza secondi o terzi fini, una domanda che nasce dal desiderio di capire - se possibile nello spazio di questo post e nel tempo breve di questo pomeriggio d’autunno - se il nostro presidente del Consiglio è un umorista, un comico o semplicemente una persona arguta. Ecco il fatto, contingente, cioè uno dei tanti aneddoti che costellano la vita politica di Silvio Berlusconi:
(ANSA) - Moscow, November 6 - Italian Premier Silvio Berlusconi on Thursday called United States President-elect Barack Obama ''tanned''.
''Obama is young, handsome and also tanned, so he has all the qualities to agree with you,'' Berlusconi told Russian President Dmitry Medvedev.
As domestic opponents urged Berlusconi to issue an immediate apology, Berlusconi told a press conference that his ''tanned'' remark, construed by many as a gaffe, was ''a great compliment''. Berlusconi responded to a reporter's suggestion that the remark might be misunderstood by accusing his opponents of not having a sense of humour.
''God save us from imbeciles,'' he said.
E’ assodato, e si dovrà prenderlo come un assioma euclideo (ché altrimenti non sarà possibile proseguire nella lettura di questo post) il dato di fatto che B. è bravissimo a raccontare storie, è insomma un racconta storie (notare che ho scritto “racconta storie” e non raccontastorie che c’è una bella differenza, come bere il “caffè e latte” o bere il caffelatte; avrei potuto scrivere racconta-storie (che si pronuncia raccontastorie), per unire e nello stesso tempo dividere l’abilità di B. di raccontare le storie, e le storie, belle e brutte, che si lasciano raccontare da B., ma simili raffinatezze semantiche esulano dal contenuto di questo post, che, insomma, tratta di pasta e fagioli, o solo fagiuoli, con quel che segue), e visto che B. si è dichiarato fornito di sense of humour, al contrario degli imbecilli che non ridono delle sue battute, ma si fanno pure venire le borse agli occhi (oimena oimena, o che dirà di noi la gente), tanto vale quotare un maestro indiscusso nell’arte di raccontare storie:
La storia umoristica è tipicamente americana, la storia comica è inglese, la storia arguta è francese. L’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta, quello della storia comica o della storia arguta dal contenuto.
La storia umoristica può andare per le lunghe e uscire dal seminato quanto le pare, senza approdare sostanzialmente a nulla, mentre la storia comica e quella arguta devono essere brevi e avere una logica conclusione. (1)
E ancora:
La storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio. Il narratore di una storia umoristica deve fingere di non aver alcun sospetto circa la presenza di implicazioni buffe o divertenti in ciò che sta raccontando, mentre il narratore di una storia comica ti dice subito che si tratta di una delle cose più buffe che abbia mai sentito, dopodiché inizia a raccontare con grande trasporto ed è la prima persona a ridere alla fine della storia. E, talvolta, se ha successo, è così felice e soddisfatto da tornare più e più volte a ribadire il nocciolo della storia, facendo scorrere lo sguardo da una faccia all’altra per raccogliere consensi. Una scena davvero patetica. (2)
Ai nostri fini è sufficiente sottolineare le seguenti frasi: “l’effetto della storia umoristica dipende da come la si racconta” e “la storia umoristica dev’essere raccontata in modo serio”, per dovere ammettere che B. non racconta storie umoristiche, e di conseguenza non è un umorista.
Resta da capire se B. è un comico o semplicemente una persona arguta.
Be’ il senso del comico è un po’ sottovalutato in Italia; eppure “comico” ha un significato più profondo di quello che solitamente gli si attribuisce.
Infatti, il comico confina con il tragico, come si vede bene nella maschera del grande Totò.
E la grande Flannery O’Connor, a proposito del suo romanzo La saggezza nel sangue affermava che è una storia comica. E non è una battuta. Per chiarire senza andare fuori tema quoto la citazione che Bruno Cicognani appose all’inizio della sua raccolta di novelle (3):
Che è l’uomo, o Signore, che Tu ne fai sì gran conto e volgi la Tua mente verso di lui,
che fin dal mattino continuamente l’osservi e a ogni istante lo scruti?
Fin a quando non distoglierai il Tuo sguardo da me, appena tanto ch’io possa inghiottire la mia saliva?
Giobbe, VII, 17, 18, 19.
C’è chi immagina (religiosamente) Giobbe, comico caduto in disgrazia, seduto sul monte di cenere della sua vita passata, e chi (laicamente) connette i neuroni alle immagini depositate nella memoria del ragionier Fantozzi con la salivazione a zero, e infine c’è chi in quel desiderio di potere inghiottire la saliva ci legge la tragedia dell’uomo mortale, giunto alla fine della vita.
Il discorso torna, al solito dipende dal punto di vista: il comico vive in prima persona gli eventi, e ride cattivo, mentre l’umorista ne è fintamente distaccato, e li descrive.
B. non è un comico, non è cattivo (lo disegnano così), non è mai caduto in disgrazia, non è un inferiore, non è un angariato (anche se si lamenta sempre di Giudici che lo perseguitano, quando non è occupato a raccontare ridente barzellette), di fatto si crede immortale.
A B. è sfuggito l’evento epocale, quindi c’è da temere che B. sia una persona normale, né comico né umorista, una semplice personcina arguta, uno spiritoso segnalibro messo tra le pagine della Storia.
(1) Mark Twain. Come raccontare una storia e l’arte di mentire (ed. Mattioli 1885), pag. 9.
(2) Op. cit., pag. 10
(3) Bruno Cicognani, Le novelle (ed. Vallecchi, 1955)
martedì 4 novembre 2008
Marinetti, se ci sei, batti un colpo!
Sulla rete è presente questo Manifesto che canta le connessioni.
Poi ci sono queste capsule del tempo che si moltiplicano, e spesso si perdono, nello spazio vuoto o nella memoria di un bambino. E spesso quando casualmente si ritrovano ci fanno fare il viso rosso, desiderare di non averle mai confezionate.
All'inizio del 1900, un gruppo di studentesse americane del Mount Holyoke college, in Massachusetts, sigillò una scatola di metallo destinata alle colleghe del lontano anno 2000. Una volta aperta, 100 anni e 20 minuti dopo (i minuti necessari ai fabbri per scardinarla), all'interno sono stati trovati un berretto universitario, programmi teatrali, una foto della classe 1900, alcune monete, un libretto d'esami e soprattutto un messaggio. "Se la scienza vi ha insegnato quello che molti credono sarà uno degli elementi più diffusi delle vostre conoscenze, ovvero il potere di comunicare con il mondo invisibile dal quale saremo osservando il vostro destino - recitava il testo - vi preghiamo di rispondere a questo messaggio" (1).
Una evidente connessione è con un bellissimo film di Carpenter - visto tempo fa, e di cui ora ricordo il titolo (Il Signore del Male) - dove c'è una squadra di ricercatori, tecnici, scienziati e operatori dell'occulto (cioè religiosi) che si insediano in una chiesa (appartenente alla confraternita del sonno; in pratica i frati pregano dormendo, e va be' questi sono speciali) al fine di studiare uno strano fluido verde (cioè il Male allo stato puro, un vero e proprio sciroppo di menta del Maligno), racchiuso in una capsula di cristallo chiusa ermeticamente. Tutti quelli che dormono (frati e laici) nei locali della chiesa fanno lo stesso sogno, che in realtà non è un sogno ma un messaggio trasmesso dal futuro.
Le studentesse americane del Mount Holyoke college e Carpenter potrebbero chiedere agli autori del Manifesto i diritti di ©.
Marinetti, se ci sei, batti un colpo.
Quadrati, triangoli e draghi quadrati
Nelle città degli umani qua e là fa capolino un ritaglio di verde. Alberi di città, tra un taglio e l’altro, fanno ombra ai passanti. Talvolta ci s’imbatte in giardini, con un laghetto dove nuotano neghittosi cigni e pesci rossi. Sotto i tetti e in alto sulle torri campanarie nidificano corvi e allocchi. I passerotti saltellano tra i piedi dei passanti a caccia grossa di briciole. Gli onnipresenti piccioni si becchettano avanzi e ruoli.
Anche nella nostra magica città esistono immensi spazi verdi dove si nascondono strane creature magiche (per qualche autoctono sono veri e propri mostri). Però qualche animaletto potrebbe vivere tranquillamente anche dentro una bolla di sapone, indifferente ai nostri concetti di alto e basso, davanti e dietro, sopra e sotto. Si potrebbe dire di questi animaletti che sono intrinsecamente assorti nei fatti loro. O forse che il loro metabolismo obbedisce alle regole di una geometria intrinseca.
Ma che vuol dire geometria intrinseca? Un rettangolo ha quattro angoli uguali, questo è un dato intrinseco al rettangolo. Ma se un rettangolo ha due lati verticali non è un dato intrinseco, poiché è necessario un sistema di riferimento per determinare quale direzione è da considerare verticale e quale orizzontale.
Anche voi volendo potete muovervi come un frattale intrinseco, e provare a mimare il suo comportamento. Per fare ciò dovete immaginarvi dentro uno spazio vuoto (o anche fuori di uno spazio pieno). Uno spazio privo di vincoli e punti di riferimento (alberi, case, torri, strade, colline, monti, segnali stradali, covoni di grano, spaventapasseri, ecc.) dove potete camminare liberamente. Una terra bruciata priva di cupi boschi frondosi, verdi colline ondulate e in lontananza campi di grano giallo, dove volano le albanelle; ma dove trovare un posto così? Potrebbe essere una spiaggia, davanti ad un nero mare cambriano.
Detto fatto, siete su quell’antica spiaggia (è giovedì) e siamo appena entrati nell’era Cambriana. All’improvviso un fulmine squarcia, per un istante, il cielo livido al tramonto; il rumore del tuono vi arriva all’orecchio stranamente attutito. Tanto per passare il tempo, nell’attesa d’immortale con la vostra macchina digitale il primo Eusthenopteron sulla battigia, decidete di fare un po’ di ginnastica intrinseca.
E come primo esercizio disegnate un quadrato camminando sulla sabbia. Dal guscio del trilobite, che avete appena mangiato (cotto in crosta), fate x passi avanzando dritti davanti a voi, poi girate a sinistra di 90° e avanzate di x passi, poi girate a sinistra di 90° e camminate per lo stesso numero di passi, infine girate un’ultima volta a sinistra di 90° e avanzate di un uguale numero di passi. Siete tornati al guscio del trilobite.
Come secondo esercizio provate a disegnare sulla sabbia (è meno faticoso) un semplice motivo frattale intrinseco. Disegnare un frattale a mano libera è semplice e complicato. Disegnare una Y è semplice: (1) disegnate una linea verticale; (2) girate a sinistra di 45°; (3) disegnate una linea lunga la metà della linea precedente; (4) tornate indietro al punto 2 e girate a destra di 45°; (5) disegnate una linea di lunghezza uguale alla linea disegnata al punto 3. Ora, trasformare la Y in un frattale intrinseco è invece assai complicato: dovete ripetere la procedura precedente partendo dagli estremi dei due bracci della Y, e tutte le volte le lunghezze delle tre linee, che formano il corpo delle Y, devono essere scalate della metà. Alla fine, dopo molte ripetizioni (e molte Y), vi avvicinerete al motivo frattale: un albero senza le foglie.
Per ottenere la curva di Koch a fiocco di neve dovete disegnare un triangolo equilatero, poi su ogni lato del triangolo disegnate una copia più piccola del triangolo di partenza, procedendo così fin che vi è possibile. Il risultato si avvicina a una figura geometrica frattale con un perimetro infinito, cioè due punti qualsiasi del perimetro, per quanto vicini, distano tra loro una distanza infinita. Anche se il perimetro misura una lunghezza infinita l’area racchiusa all’interno di questo triangolo è finita: 8/5 l’area del triangolo di partenza. Se si disegna sulla sabbia la curva di Koch non è facile riprodurre il frattale (ci vuole molta pazienza e precisione, e molto tempo a disposizione: tutto il tempo dell’era Cambriana).
Opus incerta
Anche nella nostra magica città esistono immensi spazi verdi dove si nascondono strane creature magiche (per qualche autoctono sono veri e propri mostri). Però qualche animaletto potrebbe vivere tranquillamente anche dentro una bolla di sapone, indifferente ai nostri concetti di alto e basso, davanti e dietro, sopra e sotto. Si potrebbe dire di questi animaletti che sono intrinsecamente assorti nei fatti loro. O forse che il loro metabolismo obbedisce alle regole di una geometria intrinseca.
Ma che vuol dire geometria intrinseca? Un rettangolo ha quattro angoli uguali, questo è un dato intrinseco al rettangolo. Ma se un rettangolo ha due lati verticali non è un dato intrinseco, poiché è necessario un sistema di riferimento per determinare quale direzione è da considerare verticale e quale orizzontale.
Anche voi volendo potete muovervi come un frattale intrinseco, e provare a mimare il suo comportamento. Per fare ciò dovete immaginarvi dentro uno spazio vuoto (o anche fuori di uno spazio pieno). Uno spazio privo di vincoli e punti di riferimento (alberi, case, torri, strade, colline, monti, segnali stradali, covoni di grano, spaventapasseri, ecc.) dove potete camminare liberamente. Una terra bruciata priva di cupi boschi frondosi, verdi colline ondulate e in lontananza campi di grano giallo, dove volano le albanelle; ma dove trovare un posto così? Potrebbe essere una spiaggia, davanti ad un nero mare cambriano.
Detto fatto, siete su quell’antica spiaggia (è giovedì) e siamo appena entrati nell’era Cambriana. All’improvviso un fulmine squarcia, per un istante, il cielo livido al tramonto; il rumore del tuono vi arriva all’orecchio stranamente attutito. Tanto per passare il tempo, nell’attesa d’immortale con la vostra macchina digitale il primo Eusthenopteron sulla battigia, decidete di fare un po’ di ginnastica intrinseca.
E come primo esercizio disegnate un quadrato camminando sulla sabbia. Dal guscio del trilobite, che avete appena mangiato (cotto in crosta), fate x passi avanzando dritti davanti a voi, poi girate a sinistra di 90° e avanzate di x passi, poi girate a sinistra di 90° e camminate per lo stesso numero di passi, infine girate un’ultima volta a sinistra di 90° e avanzate di un uguale numero di passi. Siete tornati al guscio del trilobite.
Come secondo esercizio provate a disegnare sulla sabbia (è meno faticoso) un semplice motivo frattale intrinseco. Disegnare un frattale a mano libera è semplice e complicato. Disegnare una Y è semplice: (1) disegnate una linea verticale; (2) girate a sinistra di 45°; (3) disegnate una linea lunga la metà della linea precedente; (4) tornate indietro al punto 2 e girate a destra di 45°; (5) disegnate una linea di lunghezza uguale alla linea disegnata al punto 3. Ora, trasformare la Y in un frattale intrinseco è invece assai complicato: dovete ripetere la procedura precedente partendo dagli estremi dei due bracci della Y, e tutte le volte le lunghezze delle tre linee, che formano il corpo delle Y, devono essere scalate della metà. Alla fine, dopo molte ripetizioni (e molte Y), vi avvicinerete al motivo frattale: un albero senza le foglie.
Per ottenere la curva di Koch a fiocco di neve dovete disegnare un triangolo equilatero, poi su ogni lato del triangolo disegnate una copia più piccola del triangolo di partenza, procedendo così fin che vi è possibile. Il risultato si avvicina a una figura geometrica frattale con un perimetro infinito, cioè due punti qualsiasi del perimetro, per quanto vicini, distano tra loro una distanza infinita. Anche se il perimetro misura una lunghezza infinita l’area racchiusa all’interno di questo triangolo è finita: 8/5 l’area del triangolo di partenza. Se si disegna sulla sabbia la curva di Koch non è facile riprodurre il frattale (ci vuole molta pazienza e precisione, e molto tempo a disposizione: tutto il tempo dell’era Cambriana).
Opus incerta
lunedì 3 novembre 2008
Ricordatevi di noi nell'anno 8113
We are food for worms, lads! Believe it or not. Each and every one of us in this room one day will stop breathing, turn cold, and die. Step forward and see these faces from the past. They were just like you are now. They believed they were destined for great things. Their eyes are full of hope. But you see, gentlemen, these boys are now fertilizing daffodils. If you listen real close, you will hear them whisper their legacy to you. Lean in. What do you hear? . Go on, lean in. Listen! You hear it? - Carpe - Hear it? - Carpe, Carpe diem! Seize the day, boys.
Make your lives extraordinary.
domenica 2 novembre 2008
In attesa dello zio d'Andromeda
"E’ maschio o femmina?" questa è la tipica domanda che un padrone di cane urla a un altro padrone di cane mai visto prima. Intanto i due cani si guardano, si annusano alla lontana, e tirano disperati il guinzaglio alla ricerca di un contatto, qualunque esso sia. E nonostante che l’anello di re Salomone non sia mai stato ritrovato si insiste a scandagliare il cielo stellato alla ricerca di un segnale di vita intelligente aliena. Anche se nell’improbabile, ma non impossibile, ipotesi di un contatto con gli alieni, noi (esseri umani) avremo a che fare con esseri pensanti che hanno meno in comune con noi di quanto noi abbiamo in comune con un ragno, e non solo a livello genetico (ché con i ragni abbiamo almeno un nonno materno in comune).
Charles Boys (l’autore di un testo classico della letteratura scientifica dell’Ottocento: Le bolle di sapone e le forze che le modellano) fece un esperimento con un ragno, un diapason e una mosca morta avvolta nella cera. Voleva scoprire se è possibile trarre in inganno i ragni. Dopo aver messo la mosca incerata su una foglia, fece vibrare il diapason e osservò i disperati tentativi del ragno di mangiare la mosca. Dopo aver tratto in inganno ripetutamente lo stesso ragno, Boys concluse che i ragni non imparano nulla dall’esperienza.
E noi, che non abbiamo nulla in comune, che non abbiamo mai mangiato la pappa assieme, di cosa parleremo con gli alieni? Del tempo che fa o delle ricorrenze di date di macelli? O di statali fannulloni e di studenti disperati ingannati dai baroni? Molto meglio tacere sorridendo, simulando così un minimo di intelligenza ed empatia.
Nel 1977 una commissione guidata da Carl Sagan ebbe l’incarico dal governo americano di interpellare "figure di rilievo mondiale, semiologi, pensatori, artisti, scienziati e scrittori di fantascienza chiedendo loro cosa poteva penetrare la coscienza di ascoltatori e spettatori inimmaginabili" (1). Il risultato fu il Voyager Golden Record , un disco fonografico inserito nelle due navicelle Voyager, lanciate nel 1977, e contenente suoni naturali e umani (per esempio il suono di un treno che passa accanto a un passaggio a livello), brani musicali, una breve frase di saluto in 55 lingue (compreso il sumerico e l’italiano, entrambe le frasi pronunciate da interpreti non di madrelingua) e 115 immagini. Una premessa necessaria e vincolante era (è) che gli alieni hanno le orecchie e occhi in grado di vedere nello spettro visibile. Che poi riescano a capire qualcosa del contenuto del disco è un altro discorso, comunque insieme al disco fu inserita nella navetta anche 1 testina di lettura e le istruzioni per l’uso, scritte in geroglifico.
Voyager 1 tra 40.000 anni sarà in prossimità dell'Orsa Minore, Voyager 2 in vista della costellazione di Andromeda. Abbiamo ancora un po’ di tempo per imparare a memoria una poesia di benvenuto.
(1) A. Weisman, Il mondo senza di noi (Einaudi), pag. 302
sabato 1 novembre 2008
Un'immagine in fuga (2)
Nel post precedente ho scritto che un’immagine vale 10000 parole (anche mille, è sottinteso, grazie), ma che però queste parole prima o poi bisognerà pronunciarle, anche se alle ciance logorroiche di tizio e alle articolate riflessioni di caio si preferisce un semplice sì o no.
Certo la realtà non si mostra in bianco e nero, ma in multicolor, almeno 16.777.216 colori. Ma infine si chiede solo di palesare un giudizio in merito all’immagine del post precedente. Anche perché il giudizio precede comunque le parole, tante o poche che siano. Infatti, il giudizio è già presente nella visione dell’immagine, non si scappa (dal giudizio, s’intende). C’è chi nell’immagine vede un mariuolo, chi un discolo da mettere sulla buona strada, chi ci vede uno zoom (un particolare) di una folla in fuga dai mutanti, licantropi, ponti in fiamme sul Tamigi, terremoti, inondazioni, trombe d’aria e banche canterine.
OK, ma esiste anche il pregiudizio, che cos'è? forse un giudizio che precede il giudizio presente nell'atto della visione?
C'è un romanzo di Saramago dove tutti gli esseri umani (meno uno) perdono la vista, solo che invece di "vedere" tutto nero vedono tutto bianco. Tutta la "realtà visibile" si cancella e affonda in un mare di nebbia. Ora, il pregiudizio è in pratica indistinguibile dal giudizio una volta esternato con le parole. Nel libro di Saramago tutti prendono consapevolezza di questa cecità (meno una persona) al giudizio, questa consapevolezza è come un virus. Quoto da Wikipedia:
In psicologia biologica, con il termine consapevolezza (inglese awareness) si intende la percezione e la reazione cognitiva di un animale al verificarsi di una certa condizione o di un evento. La consapevolezza non implica necessariamente la comprensione.
Torniamo all'immagine. E' possibile ricavare un contenuto oggettivo da un'immagine, quale essa sia, valido per tutti e in tutti i mondi presenti, passati e futuri? Insomma un fatto, un dato certo e misurabile con una tolleranza di errore (in più e in meno).
Io penso proprio di no. Un'immagine che si crede un fatto (non falsificabile) è un'immagine certo eroica ma anche morta, le immagini vive sono quelle in fuga, cioè quelle che hanno "paura" (o come ha detto Paolo Poli: al cinema e in guerra i posti in prima fila sono quelli peggiori).
Lo scopo di una nassa è di catturare i pesci e quando i pesci sono stati presi la nassa viene dimenticata. Lo scopo di una trappola per conigli è di catturare i conigli, catturati i conigli la trappola viene dimenticata. Lo scopo delle parole è di trasmettere idee, afferrate le idee, le parole vengono dimenticate. Dove posso trovare un uomo che ha dimenticato le parole? E' l'unico con cui mi piacerebbe parlare. (Walker Percy)
Certo la realtà non si mostra in bianco e nero, ma in multicolor, almeno 16.777.216 colori. Ma infine si chiede solo di palesare un giudizio in merito all’immagine del post precedente. Anche perché il giudizio precede comunque le parole, tante o poche che siano. Infatti, il giudizio è già presente nella visione dell’immagine, non si scappa (dal giudizio, s’intende). C’è chi nell’immagine vede un mariuolo, chi un discolo da mettere sulla buona strada, chi ci vede uno zoom (un particolare) di una folla in fuga dai mutanti, licantropi, ponti in fiamme sul Tamigi, terremoti, inondazioni, trombe d’aria e banche canterine.
OK, ma esiste anche il pregiudizio, che cos'è? forse un giudizio che precede il giudizio presente nell'atto della visione?
C'è un romanzo di Saramago dove tutti gli esseri umani (meno uno) perdono la vista, solo che invece di "vedere" tutto nero vedono tutto bianco. Tutta la "realtà visibile" si cancella e affonda in un mare di nebbia. Ora, il pregiudizio è in pratica indistinguibile dal giudizio una volta esternato con le parole. Nel libro di Saramago tutti prendono consapevolezza di questa cecità (meno una persona) al giudizio, questa consapevolezza è come un virus. Quoto da Wikipedia:
In psicologia biologica, con il termine consapevolezza (inglese awareness) si intende la percezione e la reazione cognitiva di un animale al verificarsi di una certa condizione o di un evento. La consapevolezza non implica necessariamente la comprensione.
Torniamo all'immagine. E' possibile ricavare un contenuto oggettivo da un'immagine, quale essa sia, valido per tutti e in tutti i mondi presenti, passati e futuri? Insomma un fatto, un dato certo e misurabile con una tolleranza di errore (in più e in meno).
Io penso proprio di no. Un'immagine che si crede un fatto (non falsificabile) è un'immagine certo eroica ma anche morta, le immagini vive sono quelle in fuga, cioè quelle che hanno "paura" (o come ha detto Paolo Poli: al cinema e in guerra i posti in prima fila sono quelli peggiori).
Lo scopo di una nassa è di catturare i pesci e quando i pesci sono stati presi la nassa viene dimenticata. Lo scopo di una trappola per conigli è di catturare i conigli, catturati i conigli la trappola viene dimenticata. Lo scopo delle parole è di trasmettere idee, afferrate le idee, le parole vengono dimenticate. Dove posso trovare un uomo che ha dimenticato le parole? E' l'unico con cui mi piacerebbe parlare. (Walker Percy)
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