Quando nel corso dell’Ottocento le spedizioni polari convinsero gli scienziati, al di là di ogni ragionevole dubbio e perplessità, che la Terra non assomiglia a una polpetta ma a uno sferoide lievemente schiacciato ai poli, e del fatto ne fecero partecipe il mondo, tale notizia cambiò per sempre la mentalità della gente, così che, per esempio, andare a vivere in Australia – o nelle Americhe - non sembrò più un fatto strano, innaturale, visto che su una quasi sfera stare qui o un po’ più in là è, relativamente parlando, la stessa cosa (il che non è per nulla vero se si ha la ventura di vivere su una polpetta).
Alla fine del secolo XVIII la misurazione del meridiano di Parigi impone come unità di misura universale un sottomultiplo del meridiano, il metro. La nuova unità di misura sostituisce le vecchie unità legate alla scala umana (il braccio, il piede, il pollice), così che “la misura degli spazi perde il riferimento ai movimenti umani” e “la prospettiva, che riguarda il controllo delle forme visibili, è assorbita nella geometria descrittiva di Monge, che rappresenta indifferentemente, su due dimensioni, tutto lo spazio tridimensionale” (1). La superficie terrestre, dove non era ancora passata la Storia ma solo la geografia, fu descritta e suddivisa in una griglia costante, orientata secondo i meridiani e i paralleli. I territori selvaggi, come un palcoscenico vuoto, erano così in attesa dei personaggi del mito e della Storia.
Nel frattempo il lavoro materiale, che dall’antichità fino alla fine del secolo XVIII era un accordo tra l’artigiano e il cliente, si spersonalizza e si trasforma in merce, e i clienti in consumatori: carne, stomaci e frattaglie e borse della spesa di carta riciclata o plastica, allevati per il benessere dell’industriale (tali e quali i polli che se non ci fossero i pollicultori ad allevarli razionalmente si sarebbero estinti da un bel dì, come ricordano gli onnivori ai vegetariani ignoranti).
A questo punto della Storia la città si era già trasformata in un teatro, con una divisione netta tra il privato, il dietro le quinte (le case, i palazzi, gli uffici, i ritrovi) e il suolo pubblico: “la pubblica via, il marciapiedi, dove ognuno si mescola con gli altri e non è più riconosciuto” (2).
Se all’inizio dell’Ottocento chi, dall’interno di un locale pubblico, guardando i passanti nella via poteva ancora indovinare, dai diversi atteggiamenti e vestiti, la categoria sociale di appartenenza di ogni singolo componente della folla, con il passare del tempo e il sopraggiungere della notte i diversi atteggiamenti e colori delle vesti si sarebbero uniformati nel grigio uniforme dell’Uomo della folla di E. A. Poe. E proprio allora in letteratura, e in seguito nell’arte figurativa, non viene più descritto il tipo sociale, la maschera, ma l’individuo, la persona unica ed irripetibile (come un mobile usato d'occasione?). Ecco un esempio di descrizione di un rigattiere, da un romanzo dell’epoca:
[...] e intanto arrancavo dolorosamente, quantunque il più veloce possibile, finché non capitai a passare dinanzi a una botteguccia, dov’era scritto che si acquistavano indumenti da donna e da uomo e che si facevano i prezzi migliori per cenci, ossa e grassume. Il padrone della bottega sedeva sulla porta in maniche di camicia, fumando; [...] Il signor Dolloby - Dolloby, almeno, era il nome scritto sulla porta - prese il panciotto, poggiò la pipa dritta contro lo stipite della soglia, entrò in bottega seguito da me, smoccolò con le dita le due candele, distese il panciotto sul banco e qui lo guardò, lo sollevò contro luce, tornò a guardarlo e disse alla fine:
- Cosa vi sembra che valga, via, questo corpettino?
- Oh, ve ne intendete di più voi, signore, - risposi con modestia.
- Non posso fare il compratore e il venditore insieme, - disse il signor Dolloby. - Fatemi una cifra per questo corpettino.
- Andrebbero trentasei soldi? - azzardai dopo qualche esitazione.
Il signor Dolloby l’arrotolò di nuovo e me lo tese: - Sarei un ladro in casa mia, - disse, - se ne offrissi diciotto (3).
E poche pagine dopo ecco un altro esempio di rigattiere:
- Oh che cosa vuoi? - ghignò il vecchio, con una cadenza selvaggia e lamentosa. - Santi occhi e santa carne, cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù gurù!
Mi prese un tale sbigottimento a queste parole, e specialmente alla ripetizione dell’ultima misteriosa che gli faceva in gola una specie di rantolo, che non seppi formare la risposta; al che il vecchio, sempre tenendomi per i capelli, ripeté:
- Oh che cosa vuoi? Santi occhi e santa carne, che cosa vuoi? Santi polmoni e fegato, che cosa vuoi? Oh gurù! - e stavolta se la strizzò di corpo con un’energia che gli fece sobbalzare gli occhi nella testa.
- Volevo sapere, - dissi tremando, - se comprereste una giacchetta.
- Oh, vediamo la giacchetta! - esclamò il vecchio. - Oh, santo cuore bruciato, mostraci la giacchetta! Santi occhi e santa carne, fuori la giacchetta! - Così dicendo staccò le sue mani tremanti, che parevano gli artigli di un uccellaccio, dai miei capelli; e s’inforcò un paio d’occhiali, per nulla decorativi, sui suoi occhi infiammati.
- Oh, quanto questa giacchetta? - esclamò il vecchio dopo che l’ebbe esaminata. - Oh! ... gurù!- quanto questa giacchetta?
- Mezza corona. - risposi, rimettendomi un po’.
- Oh, santi polmoni e fegato, - esclamò il vecchio, - no! Oh, santi occhi, no! Santa carne, no! Trentasei soldi. Gurù! (4)
Due figurine di rigattiere, una opposta l’altra, eppure le regole nel trattare gli affari sono le stesse. Questo realismo caricaturale, inteso come reazione alla spersonalizzazione (del lavoro e dell’unità di misura), era presente anche nella società del primo Ottocento. Ad esempio a Firenze certe persone più colorate di altre venivano immortalate in figurine, o addirittura in statuine di gesso che si vendevano liberamente per strada e decoravano i cassettoni.
Nel 1834 fra i più perseguitati era un tale, detto Zuccherino, che vendeva i biscottini e che aveva per male quando lo toccavano... sotto le reni [...] Un’altra vittima era un venditore di chicche, che quando passava tutti gli dicevano: - O becco! - poiché con questo bel nome soltanto era ormai conosciuto [...] C’era anche il Magnanino, che stava di bottega sull’angolo di Via de’ Cimatori, ubriaco puntualmente fino dalla mattina alle otto [...] Ponte era un ometto piccolo con una gran capelliera bianca, che andava sempre senza cappello come se avesse i calori anche d’inverno. Lo chiamavano Ponte, perché un giorno il vento gli portò il cappello in Arno, mentre attraversava il Ponte Santa Trinita: ed egli, stizzito, fece giuro di non portar mai più il cappello [...] Fra i tipi più curiosi e più buffi di cui si vendevano dai figurinai le caricature, i più noti erano Giorgino orefice del Ponte Vecchio, piccolo con le gambe torte, il viso lungo e una bazza smisurata; il principe Ruspoli, col collo lungo e d’una figura ridicolissima; il Michelagnoli, Commissario degli Innocenti chiamato per soprannome il re Erode, perché si diceva che le rendite le mangiasse tutte lui, e i fanciulli ivi ricoverati ne soffrissero [...] (5)
Era una reazione esasperata al grigio andante dell’Uomo della folla di Poe. E chi non riusciva proprio ad entrare nel nuovo mondo del lavoro, spersonalizzato e patentato (e al contempo aveva seri problemi ad usare la nuova unità di misura) non restava altro che emigrare nel Nuovo Mondo, e cangiarsi in un remoto:
Penso ora quanto fosse curioso, ma degno di Micawber, che, recandosi da Londra a Canterbury, parlasse come se andasse in capo al mondo, e, viaggiando dall’Inghilterra all’Australia, come se facesse una traversatina della Manica (6).
Mantenendo però sempre il cuore da questa parte dell’oceano:
Il signor Micawber può essere... non so nascondermi il fatto che probabilmente sarà... una pagina della Storia; e dovrà allora essere rappresentato nel paese che gli diede i natali e non gli diede un impiego! (7)
Parole profetiche per tanti cervelli in fuga (chi ha testa usi le gambe). Ma la figurina proletaria del mai rinunciatario signor Micawber verrà ben presto interiorizzata in personaggi psicologicamente approfonditi di impiegati inetti, fumatori incalliti, malati di noia, piattole introverse, su su (o giù giù) fino ad arrivare al film dell'industriale seduto su una panchina di un giardino qualunque, in una qualunque periferia post-industriale, che rimembra il suo tesssoro perduto per sempre.
(1) L. Benevolo, La città nella storia d’Europa (Economica Laterza, 1996), pag.163.
(2) L. Benevolo, op. cit., pag.178.
(3) C. Dickens, David Copperfield (Einaudi, traduzione di C. Pavese), pagg. 188-189.
(4) C. Dickens, op. cit., pagg. 192-193
(5) G. Conti, Firenze vecchia (1899, ristampa anastatica Giunti Marzocco 1984), pagg.470-471.
(6) C. Dickens, op. cit., pag. 805.
(7) C. Dickens, op. cit., pag. 808.
domenica 30 novembre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento