martedì 8 dicembre 2009

The mystery of dirty drawers

Questo post può essere letto, volendo, come uno spin-off della serie dei post dedicati a una misteriosa frase tratta da un romanzo di J. Verne. La frase lega indissolubilmente per l’eternità, nel seguente ordine, una conserva d’oloturie, un malese, e un giudizio assoluto di qualità della conserva che Nemo attribuisce a un malese tipo, uno a caso, scelto a campione. Ma prima di iniziare, qualche parola sul perché questo post sarebbe uno “spin-off”. Dicesi spin-off, "nel mondo dei media, un film, un telefilm, una serie televisiva, un fumetto o una serie fumettistica, un'opera o serie letteraria, un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente o traendo spunto da uno dei suoi personaggi" (da Wikipedia). Spin ha il significato di movimento rotatorio, ma può essere usato, in senso figurato, per descrivere una persona in preda al panico. La frase To spin a yarn, il dizionario, inglese-italiano e italiano-inglese, Hazon-Garzanti la traduce come il raccontare una storia. E off, fuori, fuori da, esterno, ecc.. Mettendo insieme le due parole si ottiene una storia raccontata al di fuori della storia principale, un po’ come un sentiero nel bosco che ad un certo punto si biforca, ponendo il viandante di fronte all’alternativa se continuare sulla vecchia strada o provare la nuova. Lo spin-off deve avere un personaggio che nella storia d’origine occupava un ruolo secondario però interessante; nel nostro caso il personaggio non è ovviamente né l’oloturia, né il malese, e neppure Nemo, è un personaggio di un film di fantascienza di J. Carpenter, citato con il nome dell’attore nel primo post della serie. Riporto in versione integrale, per la gioia del lettore, la contorta citazione:

“Di qualche mistero prima o poi si arriva alla soluzione; tutti sanno, ad esempio, che la cosa nel film La Cosa di Carpenter, è Kurt Russell; guardatelo come sogghigna amaro e cattivo mentre seduto e affranto, accanto alla pira della base polare, dopo che ha passato la bottiglia di whisky, con un frammento dentro della cosa, all’ultimo disgraziato superstite umano (non a caso un nero, ché nei film di fantascienza sono vittime predestinate), che ha bevuto, ignaro.”


Polo Nord. Inverno del 1982. Un gruppo di scienziati scoprono un alieno ibernato da oltre 100.000 anni; riportato in vita è in grado di assumere qualsiasi sembianza e si nasconde tra loro. Riuscire a capire chi è chi, è la domanda fondamentale, se la pongono tutti (tutti, meno l’alieno), la seconda domanda, che a prima vista parrebbe meno fondamentale, la pone il cuoco del campo base, chi ha gettato nel secchio della spazzatura in cucina un paio di mutande sporche?


Il desiderio del cuoco di mantenere la cucina linda e pulita, libera da germi, è stato volutamente ignorato da un membro della base. E se invece fosse stato l’alieno?


Il mistero di un paio di mutandoni di lana da Polo (Nord) sporchi, e pure laceri, diventa un caso particolare del mistero generale e impaniante dell’alieno sconosciuto e bazzicante la base. L’alieno è a conoscenza delle norme di igiene, delle buone maniere, del galateo, ecc., quanto lo è un cane non educato a non sporcare in casa. E’ impossibile, per pura e semplice ignoranza, descrivere anche per sommi capi, dicesi un lineamento di storia, una storia dell'evoluzione della cucina nel mondo occidentale, dal semplice focolare alla cucina ultramoderna, ma restringendo il campo alla Toscana e il periodo alla fine del medioevo siamo a conoscenza del fatto che tra i ceti meno abbienti e i contadini la cucina era il cuore della casa, e che la casa s’identificava con la cucina, allora non esisteva la distinzione tra cucina, luogo dove si preparava il cibo, e il tinello, luogo dove si consumava il cibo. La cucina era uno stanzone con le pareti di pietra e mattoni, e si distingueva dalle altre stanze per la presenza del focolare. Il focolare era il cuore della cucina. L’importanza del fuoco è attestata “dall’uso proprio degli antichi censimenti di denominare con il termine fuoco ogni singolo nucleo familiare e con quello di focolare la cerchia domestica, in tempi più tardi anche e soprattutto come sistema di relazioni e di affetti” (1). Nei ceti abbienti la cucina era un luogo dove il padrone di casa raramente entrava, neppure per fare cucù alla serva. Nei palazzi di città la cucina non s’identifica più con la casa, non solo, la cucina è collocata in una posizione decentrata ed isolata, e non solo la cucina, infatti, il Palladio raccomanda che ambienti come la cantina, la lavanderia, il magazzino per la legna, ecc., devono essere posti “in luoghi più ascosi agli occhi nostri che sia possibile, perché in quelle si riporranno tutte le bruttezze della casa e tutte quelle cose che potessero dare impaccio et in parte render brutte le parti più belle” (2). Palladio giustifica questa triste emarginazione di alcuni spazi rispetto ad altri con la similitudine tra il corpo umano e la casa, come nel corpo umano ci sono parti nobili e belle e parti ignobili e brutte (ma necessarie) così le stesse parti sono presenti nella casa. Questa similitudine tra casa e corpo umano solleva problemi non da poco, questi agiteranno le menti di geometri e architetti da allora in poi, ad esempio L.B. Alberti si pone il problema di come non far raffreddare i piatti nel trasporto dalla cucina alla sala da pranzo, “la cucina non dovrà trovarsi a diretto contatto con i banchettanti, e nemmeno lontana fino al punto di far raffreddare durante il tragitto le pietanze che vanno servite calde; basterà che ai convitati non giunga all’orecchio il rumore fastidioso di sguatteri, piatti e padelle. Il tratto da percorrere per portare i cibi in tavola non dev’essere esposto alle intemperie, né di difficile transito, né contaminato da immondizie, sicché la purezza delle pietanze non venga meno” (3). Il rumore sgradevole di sguatteri, piatti e padelle diventa sollazzevole fonte di divertimento nel teatro delle maschere, e in pittura nelle scene di genere di mendici, derelitti, scugnizzi. Sembra che solo con Jusepe de Ribera, per la prima volta in Italia, “entra nel campo della pittura l’aspetto più ignorato e dimenticato della realtà italiana, la massa del popolino calpestato, affamato, la folla di mendicanti e di storpi da cui veniva colpito l’occhio dei viaggiatori al loro arrivo a Napoli” (4). Partendo dall’uomo-ragno leonardiano (citazione da Lorenzo di C. Guzzanti) e passando attraverso la similitudine palladiana si arriva al decoro borghese dell’Ottocento e ai nostri giorni, all’ipocrisia delle convenzioni sociali, alla città di cartapesta (vedi post Realismo e forma urbana ). La città di facciata sostituisce, dopo la distruzione del tessuto urbano (vedi i post Firenze 1892-1895 e Il bollito dell’Ingegner Pesce), un tessuto alieno di centri commerciali, grandi complessi sportivi, e finalmente stadi tra le nuvole.


Nell’ultima immagine un alieno perplesso cerca di risolvere il mistero dei mutandoni sporchi e laceri, dal suo punto di vista. Un tentativo di comunicazione, non verbale, da parte dell’alieno, forse un desiderio di far parte del “focolare” della base polare, c’è stato, certo molto più della parvenza di umanità che si cela dietro le ordinanze di certi sindaci incatenati a vita (alla poltrona).

(1) C. Paolini, I luoghi del cibo, Edizioni Polistampa, pag. 13.
(2) A. Palladio, in op. cit. (pag. 16).
(3) L.B. Alberti, in op. cit. (pag.16).
(4) F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi 1989, pag. 35.

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