Sempre dal capitolo quinto dei Promessi Sposi. Padre Cristoforo, dopo aver cantato in coro sesta e desinato in refettorio, è già fuori per strada, la sua meta è il covile di don Rodrigo, situato sul cocuzzolo non di una montagna ma di un poggio. L’ora sesta del religioso corrisponde al mezzogiorno del laico, tra cantare in coro e desinare in refettorio sarà passata un’oretta? Sicuramente padre C. non poteva affrettare i canti canonici e neanche abbuffarsi a tavola come un paninaro anni ottanta, che lo slow food - buono, pulito e giusto - imperava allora, almeno nei conventi se non nelle trattorie di fuori porta. E poi, dal convento dei cappuccini al covile del malandrino c’erano quattro miglia buone, o per meglio dire cattive, di campagna paludosa e di viottole sassose (ne sapeva qualcosa delle viottole, don Abbondio, o meglio ne sapeva qualcosa il suo piede destro, l’altruista, abituato a scansare i sassi che potevano essere d’inciampo a bravi e viandanti). E così, cammina cammina, quando padre C. finalmente arriva ai piedi del poggio della bestia da una pezza intenta al gozzoviglio scurrile (con i soliti quattro amici del bar), il cielo della Lombardia, che è bello quando è bello, rosseggiava tutt’attorno la campagna lombarda, come nella veduta laziale di Adamo Tedesco, anche se la stagione nella veduta è la prima estate, l’ora è quella dell’alba, il quadro si intitola Aurora, e il paesaggio, come già detto, è laziale, ma, insomma, si fa quel che si può con le diapositive (mentali) a disposizione e, soprattutto, il ©.
"[…] Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, (13) sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appié del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; (14) vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse; ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo. (15) […]”
(13) bicocca è un castello che spicca solo, in cima a un’altura.
(14) in una reticella. Anche quei contadini erano dunque, in fondo, dei bravi.
(15) provocativo. Dell’uso è provocante, che forse il M. ha evitato “per l’assonanza con petulante” (Rigutini).
(13) La bicocca è quella cosa lì, cioè un castello che spicca solo, in cima ad un’altura, ma la parola mi rammenta l’albicocca, e fantasticando un po’ m'immagino un personaggio, un misconosciuto Torto Al Cocco, bravaccio e mestatore, ghiozzo sotto il sasso, faccendiere e quindi ospite d’onore di Anno-Zero, avventuriero picaro del secolo decimo sesto, al soldo di ser Tizio e fra’ Caio, che aveva residenza e domicilio tra località Precotto e Prato Centenaro, immortalato con un salamino tra i denti e una coscia di pollo in mano nel mitico diario di Jacovitti. E chissà, forse cugino di secondo grado, di ramo paterno, del Cucco fiorentino. Forse da questo immaginario personaggio della Storia ha preso il nome la località Bicocca. Ma la Bicocca è anche l’ateneo dell'università degli studi di Milano-Bicocca. Campus fondato nel 1998 nell'area nord di Milano, ma, visto l’anno di fondazione, ateneo sconosciuto al M. che altrimenti ci avrebbe mandato la figlia a studiare, a calci in culo (*). E’ però la Bicocca pure il nome di una sanguinosa battaglia combattuta in detta località, da cui, infatti, prende il nome, la battaglia non la località, precisazione non peregrina, vedremo poi perché. Battaglia combattuta il 27 aprile 1522, e vinta dagli Spagnoli contro i Francesi e gli Svizzeri. A questo punto del discorso ci starebbe bene un link ad uno speciale di Super-Quark dedicato alla tecnologia e alle tecniche di guerra, per ricordarci che la battaglia segnò una svolta nell'arte della guerra, a causa del largo impiego degli archibugi, e ovviamente degli archibugieri che sparando e caricando, senza un attimo di tregua, riuscirono a fermare le cariche dei pur lesti fanti svizzeri, uccidendone non meno di tremila (il numero esatto varia secondo le fonti e i dati forniti dalla Questura svizzera e dal Sindacato spagnolo). La battaglia della Bicocca era nota al M. e gli era noto sicuramente anche il significato ondivago della parola. La battaglia della Bicocca è rimasta nella memoria dei Francesi, i quali per significare che un sito costerebbe molto sangue, e gioverebbe poco acquistandolo, soglion dire: "c'est une bicocque" (Pietro Verri). Al contrario in spagnolo bicoca, simbolo di una facile vittoria, ha assunto il valore di facile guadagno, cosa di valore che si può acquisire con poco sforzo (Wikipedia).
Ma a questo punto del post torniamo dal nostro frate cappuccino, fermo ai piedi del poggio, ora che siamo in possesso degli utensili necessari per carpire il nocciolo dei suoi pensieri e della sua strategia. Insomma la domanda è, padre Cristoforo come leggerai la parola bicocca che ti ha infilato in testa il M.? Del resto, le alternative sono solo due, Aristotele non è vissuto invano, o padre Cristoforo si fa scudo dell’interpretazione francese e, girata la fortuna (suggerimento del correttore automatico di Word al posto di culo), ritorna bel bello al convento, più allegro che prima, o investe tempo e denaro nello studio della lingua spagnola e affronta don Rodrigo, ad armi pari. Come una strega di aprile entriamo nella testa del frate cappuccino e registriamo in presa diretta i pensieri, proprio mentre con l’occhio pio osserva la viuzza a chiocciola che mena a una spianata dove si erge la bicocca di don Rodrigo, pensa che strano davvero che una discesa vista dal basso somigli tanto a una salita.
(14) Seguendo padre Cristoforo abbiamo lasciato alle spalle una campagna che se non era solare come l’antica Grecia immaginata nella penombra dei musei domenicali, era almeno solatia, una terra ubertosa, anche se un po’ disarmata, era autunno all’epoca dei fatti, e in carestia, grazie alla Spagna, eppure lavorata alacremente da minuscoli esseri (gli italiani all’epoca erano mediamente più bassi che alti), dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari, timidi come conigli, e rapidi a sparire da sotto l’occhio del padrone come lepri marzoline, piccoli uomini e piccole donne, piccini picciò, insomma gente minuta, hobbit che zampettavano allegri, con la testa piena di nozze e balli e canti e soprattutto pranzi; a piedi scalzi nei campi a zappettare, e nei boschi a cercar funghi buoni da seccare quando viene Natale e marron glacé e legna da bruciare per un paio di falò di streghe e accoppare di soppiatto qualche cervo, capriolo e cinghiale, e sempre con gli occhi ridenti e luminosi, le bocche prensili, fatte per ridere, mangiare e bere. Certo, Renzo, in questa Terra di Mezzo, ci fa una figura da bastian contrario e un po’ sgradevole, come un bruco nell'insalata, perché è tutto un agitarsi e minacciare omicidi in serie, agguati tra le frasche con il trombone, e indignarsi della condotta del povero parroco, e inquietarsi per il futuro sotto un cielo sempre più blu, e a smanacciare (e ne sapevano qualcosa i quattro poveri capponi portati all’avvocato di Lecco), ma, in fondo, sono lampi e tuoni d’estate, perché si calma subito e china il capo, da buon figliuolo, davanti alla barba grigia, puntata come spada ecc., di padre Gandalf. E poi Renzo si sa, lo sanno tutti, è il fermo, un frame di una fase di transizione, di un’evoluzione sociale, verso un modello borghese, Renzo alla fine della storia conquisterà lo status di piccolo imprenditore tessile. Ok, ma adesso? Adesso ci ritroviamo in mezzo a queste quattro lerce casupole, abitate da omacci tarchiati e arcigni e da maiali bradi di pelo ispido e nero; omacci con gli occhi iniettati di sangue e l’alito come un secchio di cozze lasciate tra l’essere e il divenire sotto il sole di prima estate; omacci con boccacce deformate dalle bestemmie, vere ferite in cancrena, le labbra livide, rivolte in dentro, a mostrare zanne e sozze gengive; e pure capelloni. Por mi vida, que de gente!
Ma dove c'ha condotto il M.? In una tana di orchetti, in una landa di ladri e malandrini, fuori del tempo e avulsi dalla geografia-storica, dove anche i pargoli, in collo a madri nerborute, biascicano morsi di tabacco, guatando duro i passanti.
E pure ac con l’occhio del filologo, addestrato al particolare, mette in nota n.14 la reticella che tiene arrovesciato il ciuffo, e conclude che, in fondo, quei contadini erano dei bravi, anche se in pensione.
(15) O forse provocante lo avrebbe fatto passare pure da pedofilo, oltre che dicesi fosse morbosamente attratto dalla Beccaria. O forse non voleva passare per un amante del genere, cioè della scuola dei bamboccianti. Magari preferiva la pittura di Salvator Rosa.
(*) Licenza poetica o gossip?
...mio padre mi cacciò con spiedi e lancie,
non che con sproni, a volger testi e chiose,
e me occupò cinque anni in quelle ciancie
L. Ariosto, Sat. VI, 157-159
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lunedì 7 dicembre 2009
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