domenica 27 dicembre 2009

Anabasi di una frase (parte VI)

L’affumicatura è una forma di cottura lenta (come la bollitura), ma niente si frappone tra il fuoco e la carne, se non l’aria, dunque l’affumicatura è una tecnica simile all’arrostimento (cottura veloce). La differenza fra le due tecniche dipende dallo strato d’aria tra l’alimento e il fuoco: nell’arrostimento è minimo, nell’affumicatura è massimo. “Per affumicare la selvaggina, gli Indios sudamericani, per i quali questa è la tecnica culinaria preferita, costruiscono un traliccio di legno, detto boucan, alto circa un metro e mezzo; dopo averci sistemato la carne, mantengono sotto di esso un fuoco lentissimo di 48 ore o più” (1).

Il boucan è un oggetto culturale, mentre lo spiedo per l’arrosto è un semplice bastone di legno, un oggetto naturale, anche se, in una nota, Lévi-Strauss aggiunge che “sarebbe poco prudente generalizzare, perché gli Indios dell’Oregon veneravano in modo particolare i bastoni appuntiti che servivano da spiedo e che ai loro occhi si opponevano al recipiente nel quale mettevano le pietre riscaldate per ottenere l’ebollizione (recipiente che spesso era costruito da un semplice pezzo di corteccia adattata alla meglio) ” (2).

Un semplice bastone appuntito può diventare un oggetto culturale. Lévi-Strauss osserva che alcuni churinga australiani (piccole lastre di pietra o di legno incise con motivi astratti, simboli dell’antenato mitico), e tra i più preziosi, non sono decorati, e non sono neppure manufatti, infatti, anche un masso naturale o un albero può essere un churinga. Lévi-Strauss li assimila ai nostri “documenti d’archivio”.



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Documenti “che noi chiudiamo nei forzieri o affidiamo alla segreta custodia dei notai e che di tanto in tanto esaminiamo con i modi dovuti alle cose sacre, per restaurarli se necessario, o per riporli in cartelle più eleganti. In simili occasioni anche a noi piace recitare i grandi miti, la cui memoria è ravvivata dalla contemplazione delle pagine strappate e ingiallite: fatti e gesta dei nostri antenati, storia delle nostre dimore, dalla loro costruzione o dal momento in cui furono cedute” (3). A chi ipotizza la sacralità dei churinga perché recano, inciso o disegnato, il contrassegno totemico, Lévi-Strauss risponde con una felice similitudine: “Un documento non diventa sacro per il solo fatto di portare un timbro prestigioso, per esempio quello degli Archivi Nazionali: esso porta il timbro perché prima è stato riconosciuto sacro, e anche senza lo resterebbe ugualmente” (4). Inutile quindi ammantare i churinga di un carattere sacro e magico perché sono maneggiati da officianti, decorati da incisioni (i timbri totemici), e spalmati (restaurati) con ocra rossa: “quando un’usanza esotica ci attira a dispetto (o a cagione) della sua apparente singolarità, il motivo generalmente sta nel fatto che ci suggerisce, come fosse uno specchio deformante, un’immagine familiare che riconosciamo confusamente come tale senza però riuscire a identificarla” (5).

Il boucan si approssima, strutturalmente parlando, alla pentola per il bollito, ma non è la stessa cosa, mettere dentro la pentola del lesso poveri polli o bambini cattivi non è come mettere sopra un traliccio di legno le oloturie, o sopra le pareti calde di un forno la pasta di farina di grano o di mais (pizza & tortilla). Esiste un’opposizione tra la bollitura e l'affumicatura, che si riverbera nell’uso dei due strumenti culturali. La pentola si conserva, si tramanda agli eredi, si lava dopo l’uso – ma non sempre – comunque la si usa con cura e rispetto, il boucan invece “deve essere distrutto immediatamente dopo l’uso, altrimenti l’animale si vendicherebbe e verrebbe a sua volta ad affumicare il cacciatore” (6). Impossibile immaginare un’oloturia assassina, che si vendica dell’affumicatura, perseguitando l’affumicatore, viceversa il cinema horror di serie B è pieno di bambini cattivi e maligni, affogati ma redivivi, non-morti, ecc., che da sotto l’acqua o da sotto il letto afferrano e tirano i piedi del povero turista, vittima predestinata perché all’oscuro degli usi e costumi locali, da qui l’abitudine del turista scafato (e di 007), appena preso possesso di una camera d’albergo, di guardare sotto il letto e nella tazza del wc. L’oloturia può generare incubi, come il sogno della ragione, solo se di dimensione XXL, come una specie di gelatinoso Blob. E' evidente una razionalizzazione nel pensiero del selvaggio per giustificare l'opposizione.

Siamo alla frutta, ma prima di chiudere il post, ancora qualche parola sull’opposizione gusto / disgusto. E’ innegabile che ci disgusta qualcosa che ha un sapore sgradevole e nauseante. Questo “qualcosa” è come la cosa di Carpenter è proteiforme. Il dottor disgusto, come il suo cugino, il signor gusto, è un elemento relativo alla nostra educazione e alla nostra evoluzione culturale e biologica, insomma quando eravamo sugli alberi, dondolando appesi per la coda, i nostri gusti e relativi disgusti erano probabilmente diversi, ma non necessariamente agli antipodi. Un bel ragno grosso e peloso, sulla parete di una grotta o su un ramo di un albero, comunque nel suo ambiente naturale, non ci disgusta, anzi l’osserviamo con l’occhio attento ed indagatore di Linneo, lo stesso ragno che si spidocchia sopra il cuscino del letto turberebbe anche la coscienza d'Indiana Jones (e imperlerebbe di gocce di sudore la faccia del primo 007), dunque il disgusto è conseguenza di come ci poniamo nello spazio rispetto alla cosa. Scrive Charles Darwin: “Nella Terra del Fuoco un indigeno toccò con un dito la carne fredda conservata che io stavo mangiando nel bivacco, e sentendola tenera manifestò chiaramente un estremo disgusto; mentre allo stesso tempo io fui molto disgustato dal fatto che il mio pasto fosse stato toccato da un selvaggio nudo, benché le sue mani non sembrassero sporche” (7). Poco dopo Darwin rincara la dose notando che “una sbrodolatura di minestra nella barba di un uomo ci disgusta, benché non ci sia evidentemente niente di disgustoso nella minestra in sé stessa” (8). Sagge parole, una minestrina calda non fa che bene. Esiste, dunque, una connessione tra l’atto di mangiare e la cosa mangiata in situazioni e spazi non adatti al mangiare. In una grotta, messi alle strette, si mangia anche un ragno, suvvia. Ma chi leccherebbe la minestra sbrodolata sulla barba di un uomo? Un cane. Chi vive con un cane, sa che il cane fa spesso cose inimmaginabili, indescrivibili, e di cui non si pente affatto, e tuttavia noi avviciniamo fiduciosi la nostra faccia al suo muso peloso e adorante (e leccante, di solito). Poi magari facciamo il bagno nell'amuchina gel dopo essere stati cinque minuti in tram. Il nostro comune amico Darwin qualche pagina più in là del fondamentale saggio L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) fa un’osservazione molto interessante, Darwin nota che alcune persone hanno il vomito facile, hanno una specie d’ottovolante incorporato nello stomaco, scatta un pulsante e via mostrano al mondo, a parenti amici e sconosciuti assortiti cosa hanno mangiato, insomma sono persone facilmente portate a "rimettere il desinare", al solo vago pensiero di aver mangiato o anche di poter mangiare un cibo insolito, ma non è questa l’osservazione interessante, accanto a questa osservazione c’è un fatto, dato per certo a Darwin da un certo signor Sutton di Londra, che le scimmie del giardino zoologico vomitano spesso pur essendo in buona salute, ciò spinge il grande naturalista a pensare che questo atto potrebbe essere volontario. Darwin è un re dello stagno, sa che uno più uno fa solitamente due, e ipotizza che i nostri comuni progenitori dovevano avere la capacità di rigurgitare volontariamente il cibo non adatto per loro, capacità che si è poi persa con la codificazione delle prime forme di linguaggio. E' rimasta però, come un simpatico corollario, l’usanza di sputare in terra o di mostrare la lingua, per palesare una forma di disgusto. Ma qui l’osservazione di Darwin è datata, infatti, scrive che “l’atto di portare fuori la lingua per espellere dalla bocca qualcosa di sgradevole può spiegare perché in tutto il mondo tirare fuori la lingua è un modo di esprimere il disprezzo e l’odio” (9). Dopo Einstein che mostra la lingua al fotografo e il rocker che sputa, come un lama andino, sul fan in adorazione mistica, o la mitica frase di Zucchero al portatore del tapiro, quest’ultima osservazione di Darwin è per forza di cose datata, ahimè. Anche l’atto di sputare in faccia alle persone, si è un po’ ingentilito col tempo, ma mica tanto, ed è comunque sempre associato a fatti che vanno contro tutte le regole del vivere civile (ad esempio non pagare i debiti ma esigere il pagamento dei crediti, usanza cara al nostro don Abbondio). Ecco un altro calzante esempio.

- Come hai saputo dei gioielli?
- La gente parla.
- Che persona ripugnante. Usare il sacro sacramento della confessione per perseguire i propri interessi.
- Non proprio.
- Be’, sei la creatura più spregevole che abbia mai avuto la sfortuna di conoscere!



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Il viaggio attorno allo svelamento di una frase misteriosa di Verne si è così concluso.

(1) C. Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, 1971, p. 437.
(2) C. Lévi-Strauss. OBMT, p. 465.
(3) C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1979, p. 260.
(4) C. Lévi-Strauss, PS, p. 261.
(5) C. Lévi-Strauss, PS, p. 260.
(6) C. Lévi-Strauss. OBMT, p. 437.
(7) C. Darwin, L’espressione delle emozioni, Boringhieri, 1982, pp. 327-328.
(8) C. Darwin, EE, p. 328.
(9) C. Darwin, EE, p. 330.

(*) Il mistero delle dodici sedie, Mel Brooks

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