giovedì 27 agosto 2009

La soffitta

La soffitta non solo era un luogo nel tempo e nello spazio concluso in sé ma anche una terra di mezzo situata tra il tetto e le stanze abitate dalla famiglia. Un luogo pieno di cose morte da centinaia, migliaia, forse milioni di anni. Un posto tranquillo, silenzioso e caldo, forse un tantino polveroso per depositarvi macchine che necessitano periodicamente di lubrificazione, ma tant’è.
La soffitta era come la riva di accumulo nell’ansa di un fiume, là si era depositata, giorno dopo giorno, la zavorra, gli oggetti non più in uso o passati di moda, e che per una ragione o un’altra non erano stati buttati via: una biciclettina rotta, quadri a olio del fratello del padre del vicino di casa, il signor Amleto, libri spaginati della scuola elementare, fumetti ammuffiti e scarabocchiati con una penna rossa, un tavolino a tre gambe con il resto di due e mezza, teiere e tazzine sbreccate, un macinino a manovella per macinare i chicchi tostati del caffè e i grani di pepe nero, cornici con arabeschi in rilievo e dorature in orone e gesso scrostato, prive della lastra di vetro, un centauro agonizzante con la testa chiomata piegata all’indietro in vetro di Murano, e posacenere, vasi e portavasi in terracotta, e un disegno tessuto su tela - una veduta di Piazza San Marco a Venezia - realizzato con crine di cavallo, forse veneto (il cavallo, non il disegno, ché l’artefice era ignoto), una bandiera arcobaleno sbiadita da mille pomeriggi di sole e ingrigita da mille mattine di nebbia, sedie scompagnate, scatole di cartone contenenti solo il diavolo sa cosa, e ancora valigie, borse, borsette e borsoni, e pentole, pentolini e pentolacce e stracci, e pile di vecchi numeri del National Geographic e numeri sparsi di Topolino.
Tutto quello che poteva essere trasportato, intero o smontato, su per la scala a chiocciola rischiava, prima o poi, di essere afferrato dalla corrente e finire nella stanzina sotto le travi del tetto. Ma il fenomeno non era irreversibile, dopo qualche stagione, qualcosa poteva tornare giù, nuotando controcorrente. Un mobile da vecchio arnese bislacco da prendere a pedate si scopriva pregevolmente e danarosamente antico e dolorosamente fragile, tanto che chi lo guardava era preso da un’emozione violenta, fatta di impazienza, tristezza, attrazione e timore che una parte dello stesso potesse andare distrutta o danneggiata, così da non poter stare su in soffitta, lontano dagli occhi e dal cuore, neppure un minuto di più. Questa metamorfosi funzionava però anche al contrario, e dopo qualche tentennamento l’oggetto sradicato dalla corrente ritornava in soffitta, con qualche nuovo graffio e ammaccatura.

[…]

Tra gli oggetti in soffitta c’era una macchina per scrivere, una Lettera 22 Olivetti, con il nastro rosso e blu consumato, il campanello muto e il carrello paraplegico. I martelletti erano ordinati in schiera e in attesa delle due dita che battessero svelte parole sulla lucida tastiera nera, tanto da intrecciarli assieme in un abbraccio d’amore.
E c’era una vecchia macchina per cucire meccanica, dal profilo elegante, stile ottocento, il corpo nero, lucido e snello, con fregi dorati di ornati in rilievo sui fianchi. La macchina era assicurata a una base di legno che ancora odorava di cera d’api, ma se si slacciavano i due ganci di sicurezza la macchina era libera di ruotare su cerniere metalliche, rivelando ingranaggi unti d’olio e un sogno segreto, essere una magica locomotiva a vapore. Il volano consumato e la manovella erano in attesa della mano esperta, per spingere su e giù l’ago, muovere la spoletta, trascinare il tessuto.
Una macchina simile, forse una sorella, ma con un destino diverso, era stata portata in spalla da un vecchio sarto, fotografato e immortalato sulla copertina di un National Geographic, nell’atto di guadare un corso d’acqua. La macchina aveva la vernice scrostata ed era priva della base di legno, il colore dominante del metallo era un rosso ruggine; pareva che avesse attraversato il fuoco purificatore della pira e ridotta al cuore del metallo non fosse più risorta, come la mitica fenice; eppure nonostante l’aspetto sofferente doveva funzionare come nel primo giorno di vita, quando lucida e dorata aveva alzato e abbassato l’ago al primo giro di manovella, sul bancone di prova nella moderna officina meccanica indiana. Era solo una piccola macchina per cucire a manovella, l’intera bottega di un umile sarto itinerante, e con la fedeltà inumana dei cani lo aveva seguito lungo le strade di polvere e fango del distretto indiano di Gujarat. L’uomo e la macchina per cucire erano invecchiati assieme, e adesso che si specchiavano nell’acqua erano il cane che si specchia nell’uomo, l’uomo che si riflette negli occhi del cane. E forse era la fedeltà di una macchina priva di anima la causa del mite sorriso del vecchio indiano, non si sarebbe piegato al monsone e neppure al carma, perché sull’altra riva del fiume erano sempre in attesa i cangianti tessuti dell’India. Vai, vecchio tessitore di trame, senza paura, perché cento misure e un taglio è la tua unica Regola, e mai hai pensato di elemosinare lo stato di calamità naturale, neppure in sogno, in tutto il sogno della tua vita... (*)

Immagine da The River, Bruce Springsteen (C) 1980
(*) Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza)

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