lunedì 30 novembre 2009
Fine novembre
E tornando all'attore lo ricordo in quella scena finale, umile marinaio che sta per essere trascinato sotto acqua da un viluppo di corde e legni e sembra che stia lì che aspetta il turno dal dentista. E lo ricordo avvocato difensore di un maestro eretico, nella scena mentre prende per il culo l’esperto di Bibbia, un altro Grande, del resto.
E ancora poliziotto quasi in pensione che dà un calcio a moglie e figlia, figurativamente parlando che era un Gentleman, e fugge, o almeno ci prova, con la valigia del tesoro stretta stretta, dopo una corsa folle per le strade d’America (e c'è pure Lewis, in un cammeo, che gli passa apposta con l'auto sopra il cappello nuovo) dei grulli di turno.
E se non avete capito di chi parlo allora non avete ancora capito nulla di cinema, come io non ho capito ancora nulla di questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo.
Ben tornato dicembre :)
domenica 29 novembre 2009
Anabasi di una frase (parte III)
Le oloturie sono piante, animali, virus, batteri o ciottoli levigati dalla corrente di un torrente montano? Questo è il nocciolo del post.
Sicuramente non sono sassi, ma organismi viventi, perché una tradizione culinaria millenaria proibisce, anche al refrattario alle usanze terrestri e tetragono capitano & ingegner Nemo, di cibarsi di sassi.
Gli organismi viventi si ordinano seguendo una struttura gerarchica di classificazione, elaborata, limata e messa a punto nel corso degli ultimi due secoli dalla comunità scientifica (nell’immagine vedi due esemplari di membri della comunità scientifica), tuttavia il contributo decisivo nel metodo d’ordinamento adoperato si deve ad Aristotele, filosofo greco vissuto più di duemila anni fa. Il metodo aristotelico si basa sulle scelte binarie, vale a dire esistono solo due scelte, due scatole, non esiste una terza scatola. Ad esempio, codesto insetto sulla parete, o possiede le ali o non le possiede. Non le possiede. Bene, o ha sei zampe o ne ha otto. Ne ha otto. Se ne possiede otto non è un insetto, è un ragno… o un gambero, ma sicuramente non è un insetto. E che ci fa un gambero sul muro? Allora è un ragno. Impossibile, è troppo grosso per essere un ragno toscano. Be’, allora non può che essere un gambero mediterraneo, o comunque un crostaceo, perché, come ha detto Sherlock Holmes, eliminato l'impossibile, quel che resta, per quanto improbabile, deve essere vero. Elementare Watson. Questa frase Holmes nei romanzi non l’ha mai pronunciata, solo nei films, Holmes la ripete ossessivamente, come fosse un mantra nipponico. Semanticamente citando, una pellicola cinematografica ha pari dignità e testimonianza di un testo, e poi i gialli sono stati scritti dal dottor Watson, che non voleva certo essere ricordato dai posteri come l’anello debole e il grullo della coppia. La forza di una catena è data dal suo anello più debole. E questa è la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, in sintesi.
E via via, dividendo il creato, binariamente parlando, con il metodo aristotelico-holmesiano, potremmo insegnare ad un robot a muoversi e interagire nello spazio antropizzato, così che sarà in grado di porre in essere opposte strategie, se collocato in spazi umani dissimili, ad esempio, l’asettica cucina di un appartamento e la sala dei crostacei del museo zoologico cittadino.
Ora, il solito lettore astioso si ricorderà di aver trovato, un giorno, un millepiedi avvoltolato a palla, mentre sciacquettava il lattughino nell’acquaio del tinello, e legandoselo al dito, l’astio non il millepiedi, me lo farà sicuramente pesare. Va be’, torniamo a capo, cioè alla struttura gerarchica di classificazione, perché devo ancora elencare i livelli della struttura. E questi, in ordine crescente d’inclusione di tipologie d’esseri viventi (che nuotano, volano, radicano, strisciano e zampettano), sono: la specie, il genere, la famiglia, l’ordine, la classe, il phylum e il regno.
Se una sera d’autunno umida e piovigginosa mettiamo una oloturia (si trovano nei negozi specializzati in articoli da viaggio e sport estremi) in un vasetto vuoto di marmellata, la ricopriamo di latte e la lasciamo a mollo tutta la notte, la mattina di poi siatene certi e convinti che non troverete né lo yogurt né il kefir, né tanto meno la birra, ne consegue ed è lampante, non solo per il mite muratorino ma anche per il duro Stardi, che l’oloturia non è un lievito, inoltre nessuna cellula dell’oloturia è in grado di sintetizzare la clorofilla, e quindi non è neppure un particolare tipo di batterio. Adesso affermiamo che non è un batterio in generale e si fa prima, e neanche un virus, questa strana creatura che tuttalpiù è ospite del batterio malato, e ne condiziona il comportamento, così nei cani infetti e si chiama rabbia, così nei fanatici umani e si chiama “eccesso di zelo religioso”. Infine, le cellule dell’oloturia sono separate dall’ambiente da una membrana che consente il passaggio selettivo di sostanze: non sono cellule vegetali. Può un organismo composto di cellule animali (ricordate Aristotele?) essere un vegetale?, sì ma è roba da Fisiologo, come la pecora con il vello d'erba. Basta così, l’oloturia è un animale pluricellulare, e non un vegetale.
Punto e a capo.
Esclusi i vegetali, che stanno lì e non fanno male a nessuno, esclusi anche lieviti, virus e batteri, in materia di grosse bestie, non si può non prendere le mosse dalla fonte tradizionale per eccellenza, quella biblica di Genesi, I. 20-25:
Poi Dio disse: “Producano le acque in abbondanza animali viventi, e volino degli uccelli sopra la terra per l’ampia distesa del cielo”. E Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri viventi che si muovono, i quali le acque produssero in abbondanza secondo la loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che questo era buono. E Dio li benedisse, dicendo: “Crescete, moltiplicate, ed empite le acque dei mari, e moltiplichino gli uccelli sulla terra”. Così fu sera, poi fu mattina: e fu il quinto giorno. Poi Dio disse: “Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici della terra, secondo la loro specie”. E così fu. E Dio fece gli animali selvatici della terra, secondo la loro specie, il bestiame secondo le sue specie, e tutti i rettili della terra, secondo le loro specie. E Dio vide che questo era buono.
Orsù, riprendiamo il metodo aristotelico e chiediamo alla nostra oloturia, dopo averla tolta dal barattolo di marmellata, possiedi o non possiedi le ali per volare? Non ho testa né occhi per guardarti, né orecchie per ascoltare la tua domanda e neppure un apparato vocale adatto per poterti rispondere a tono, in ogni caso, anche se sono fatti personali, rispondo che non ho le ali, e prevedendo la tua prossima domanda oziosa, no, neppure le zampe. Ci sarà, a questo punto del post, qualche lettore un po’ malizioso che esclamerà, sei proprio messa male, mia povera e disgraziata oloturia. Eppure, secondo la teoria dell’evoluzione delle specie anche noi un giorno avevamo forma e stile di vita simili alle attuali oloturie, miti e pacifici strisciavamo sul fondo degli abissi del mare, suzzandone il fango, poveri e nudi, felicemente all’oscuro della superbia degli ingrati eredi.
Secondo il dettato biblico l’oloturia sarebbe un pesce, e correggendo leggermente il tiro si può ipotizzare che un pesce non è ma sicuramente appartiene al phylum degli Echinodermi. Ho saltato qualche passaggio nella dimostrazione. Comunque, gli echinodermi sono animali esclusivamente marini e vivono sui fondali, sono dotati di un endoscheletro calcareo, e sono generalmente ricoperti da protuberanze e aculei. Nel caso particolare, la forma delle oloturie è cilindrica, a barilotto. In condizioni di forte stress ambientale gli echinodermi si autorompono, per esempio espellendo i visceri, rompendo le parti distali del corpo, per esempio le braccia nelle stelle di mare. L’animale tuttavia non muore, mi spezzo ma non mi piego è il motto dell'echinoderma, a meno che non espella i gangli cerebrali, che tutto gli ricresce, felicemente come la coda alla lucertola, meno i gangli. A noi esseri umani, con antenati in comune con il phylum degli Echinodermi, sono rimasti solo i modi di dire, le frasi fatte, basta mi sono rotto, mi spezzo ma non mi piego, ecc.
L’oloturia è comunemente detta cetriolo di mare, e da qui forse per analogia, la conserva di oloturie del cuoco del Nautilus, perché Nemo sente sempre un’imperiosa necessità di imitare pietanze e ricette della terra ferma. Questi cetrioli però aborrono il sole almeno quanto i Testimoni di Geova aborrono la barba, hanno una vita essenzialmente notturna, i cetrioli non i Testimoni che sono attivi essenzialmente la domenica, sono cetriolini by night :) e pare tendenzialmente velenosi, infatti, le abbronzate genti del Pacifico usano fare a pezzi i cetrioli di mare e spremerne il succo nelle pozze delle scogliere per stordire i pesci.
E se così fanno le genti del Pacifico, lo faranno anche i malesi, forse.
Alla prossima puntata per studiare la connessione fra la conserva di oloturie del capitano e i malesi.
(*) Assaggiate tutti questi cibi; ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe senza rivali al mondo; ecco una crema di latte fornito dalla mammella dei cetacei, e lo zucchero dai grandi fuchi del mare del Nord, e infine permettetemi di offrirvi marmellata di anemoni che sono migliori dei frutti più saporiti.
J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari
venerdì 27 novembre 2009
Breve ma veridica storia delle religioni
J. Saramago, Tutti i nomi
Immaginate un dio ludico, che gioca tutto il tempo con le sue creature, con la palla, con la corda, con il gioco del riporto, insegna comandi di obbedienza, siedi, terra, ecc. inventa pure giochi di intelligenza, e le creature scoprono il fuoco, la ruota, l'assegno postdatato, ma poi, poi viene l'estate, il mare e i monti prendono tutta l'attenzione del buon dio, che da buon dio non se la sente di lasciare le creature on the road e le affida alla pensione faraone.
Ovviamente le creature, nella loro limitatezza e finitezza, si sentono abbandonate dal dio, che è solo entrato nella fase oziosa, cioè, evolutivamente parlando, è passato dalla fase autunno-inverno delle prediche logorroiche e dei comandi imperiosi, fai così, scendi di lì, vieni qui, pussa via, e dagli stadi vendicativi e rancorosi, con il fazzoletto pieno di nodi, comunque sempre incombente tra le povere creature, alla fase primavera-estate, smemorato, ozioso e indifferente. E le creature vanno in stress da separazione e solitudine: uggiolano, ululano, raspano a terra, soprattutto scrivono, e alla fine disperati si leccano a vicenda, fino a spellarsi, fino alle piaghe.
E il dio ozioso, a pancia all'aria su una nuvola-amaca, fazzoletto a mo' di bandana in testa (vedi bene che i nodi sono serviti a qualcosa) butta giù uno sguardo distratto alle creature piagate e in guerra e sospira, di nuovo 'ste piaghe d'egitto! Va be', darò la colpa a faraone.
giovedì 26 novembre 2009
Anabasi di una frase (parte II, bis)
Ora, fermo restando la figura professionale tipicamente borghese e ottocentesca dell’ingegner Nemo (che già questo basterebbe a far saltare il coperchio alla definizione), è la presenza dei coltelli con la punta stondata sulla mensa del capitano che pone in contraddizione insanabile i due post (quello del bollito e il precedente); purtroppo non c’è geco che tenga, devo confessare un mio difetto (sono prevenuto), e preferisco pensare a Nemo come un personaggio dell'Ottocento, tristo figuro morlockiano che sceglie la guerra e le macchine, piuttosto come un eloi svagato, immemore e ballerino sulle ancor fumanti macerie delle magnifiche sorti e progressive dell'età moderna e capitalistica, cioè un postmoderno. I coltelli con la punta stondata stanno al postmoderno come Berlusconi sta alla politica: coltelli a punta tonda e Berlusconi vanno solo con il lesso.
Nel prossimo post cercherò di capire cosa sono le oloturie. Piante, animali o virus?
lunedì 23 novembre 2009
Anabasi di una frase (parte II)
Ora, rileggendo con più calma la frase (colorata in azzurro), mi sono accorto che il cuoco del capitano Nemo conservava oloturie mentre marmellizzava anemoni (questo succede a chi soffre di quel male che avrà pure un nome, non lo so, ma, tanto per spiegare, è un difetto nella lettura opposto alla dislessia); e questo lo scrivo non tanto per mettere i puntini sulle i o per concludere trionfante il post dichiarando che questo è quanto e che tanto dovevo all’esegesi della frase, visto che sono ancora all’inizio del post, e manco a metà della serie dei post dedicati ecc., ma perché, e questo è importante, una conserva non è necessariamente una marmellata, mentre una marmellata è comunque una conserva (dolce), e andando ancora un po’ più nello specifico devo adesso riferire di quella direttiva europea del 1982 che ci informa che la parola “marmellata” va usata solo per le conserve dolci di agrumi, tutti i restanti frutti, o tutti i frutti esclusi gli agrumi, se conservati con conservanti dolci si devono chiamare “confetture”, e niente più. Già, non esiste sul mercato europeo un singolo barattolo di marmellata di mirtilli, tuttavia esistono milioni di barattoli di confettura di mirtilli.
E' un fatto ormai assodato che il capitano Nemo, vissuto nell'Ottocento, mangiava conserve di oloturie e spalmava su qualche surrogato del pane marmellate di anemoni.
Ma cos’è una conserva? Una conserva è una procedura messa in opera per conservare un alimento fresco e poterlo così mangiare quando la stagione è andata, cioè fuori stagione. Adesso a voler fare il tarlo pignolo dovrei domandare al cuoco del capitano Nemo ma esistono le stagioni in fondo al mare? Ovviamente no, c'è da sospettare che il capitano Nemo sia, sociologicamente parlando, un postmoderno consumatore di alimenti, infatti, noi postmoderni, consumiamo confetture marmellate e conserve a prescindere della stagione. In fondo, evangelicamente citando, nessuno è profeta in patria (Matteo XIII. 57, Marco VI. 4, Luca IV. 24), con quel che segue di diaspore e lingue blateranti e torri di babele.
E che cosa conservano gli esseri umani? Un po’ tutto, ortaggi, frutta, pesci, carne e molluschi, ma anche cadaveri, interi o frammenti di cadaveri; ad esempio la procedura della mummificazione nell’antico Egitto, originata forse dall’osservazione di mummificazioni naturali di animali nella sabbia del deserto, ha generato un numero imprecisato di mummie, che sono conserve non alimentari (e non marmellate, ché la direttiva potrebbe essere retroattiva). Per la parte storica del post ricordo che nell’Ottocento, in Egitto, facevano andare i treni a vapore bruciando le mummie egizie a tutta randa. Purtroppo non le hanno bruciate tutte e quindi il nostro Giacobbo settimanalmente ce ne mostra una, fresca fresca scavata da Zaki Hawass.
La prima conserva alimentare che mi viene in mente è la mai abbastanza esaltata conserva di pomodori. Per conservare i pomodori, sulla terra ferma, è usato il sale, forse il cuoco di Nemo avrà usato il sale marino per conservare le oloturie.
Al prossimo post per capire cosa sono le oloturie. Piante, animali o virus?
(*) Assaggiate tutti questi cibi; ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe senza rivali al mondo; ecco una crema di latte fornito dalla mammella dei cetacei, e lo zucchero dai grandi fuchi del mare del Nord, e infine permettetemi di offrirvi marmellata di anemoni che sono migliori dei frutti più saporiti.
J. Verne, Ventimila leghe sotto i mari
mercoledì 18 novembre 2009
Anabasi di una frase (n.1)
un greve trono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi…
Dante, Inferno (Canto IV, 1-4)
Tempo fa, mi ero occupato su questo blog delle Wunderkammern presenti nel cinema e in letteratura, e avevo proposto una personale classificazione, degna, direi senza falsa modestia, di M il mostro di Dusseldorf, ed ero lì, in particolare in questo post, con la testa tutta presa e occupata da fuchi marini pesci che giocano a palla ragni e mosche nel piatto ingegneri pescivendoli fiocineri canterini e ceneri di tabacco, per mettere sotto la lente di ingrandimento del mio occhio anabasilico una strana e oscura frase presente in una citazione da un famoso romanzo di Verne. Riporto interamente la citazione, colorando d'azzurro la misteriosa frase:
Quello che credete sia carne, non è altro che filetto di tartaruga marina; ecco un piatto di fegato di delfino, che prenderete per un umido di maiale. Il mio cuoco è molto abile, eccellente per conservare i vari prodotti dell’Oceano. Assaggiate tutti questi cibi; ecco una conserva di oloturie che un malese direbbe senza rivali al mondo; ecco una crema di latte fornito dalla mammella dei cetacei, e lo zucchero dai grandi fuchi del mare del Nord, e infine permettetemi di offrirvi marmellata di anemoni che sono migliori dei frutti più saporiti.
Ho cercato su Google, ma il mistero per me rimane intatto. Ecco una controprova (45.220 risultati trovati, oggi).
Di qualche mistero prima o poi si arriva alla soluzione; tutti sanno, ad esempio, che la cosa nel film La Cosa di Carpenter, è Kurt Russell; guardatelo come sogghigna amaro e cattivo mentre seduto e affranto, accanto alla pira della base polare, dopo che ha passato la bottiglia di whisky, con un frammento dentro della cosa, all’ultimo disgraziato superstite umano (non a caso un nero, ché nei film di fantascienza sono vittime predestinate), che ha bevuto, ignaro.
Ma perché diavolo un diavolo di malese pagano dovrebbe, per Verne (e il professore-ameba), essere un esperto mondiale in confetture di frutta noi non lo sappiamo ancora.
Con i prossimi post cercheremo di venirne a capo.
martedì 17 novembre 2009
Tra la nebbia dell’io
nebbia [...] Offuscamento, di passione, ignoranza, [...] Macchie della cornea trasparenti, sottilissime, superficiali, di color bianco ceruleo, che offuscano la vista [...] (Vocabolario Zingarelli).
E' novembre, un mese febbrile e nebbioso; ed eccoci qua a parlare della nebbia, ché dell'influenza suina se ne parla già abbastanza.
In particolare vorrei evidenziare una connessione che ho trovato tra la nebbia presente in un capitolo del Viaggio dell’elefante di José Saramago e la nebbia presente nel capitolo 15 di Huckleberry Finn di Mark Twain.
L'invisibile soggetto narrante, cioè Saramago, nell’osservare il triste caso del parroco del paesino che credendo di fregare l'elefante maledicendolo con l'acqua marcia di fogna, è da questo gentilmente spintonato giù nel fango della strada, ha perso di vista l’elefante e la scorta, inghiottiti dalla bruma e dalla storia. Una bruma densa come purea, “neppure sfiorando col naso la terra si riuscirebbe a scoprire che qui c’è passata gente”. Ma il soggetto narrante, invece di affrettarsi, si attarda, riflette sul fatto che nessuno a Lisbona ha pensato bene di portarsi dietro due o tre cani. “Un cane è un’assicurazione sulla vita, un fiutatore di piste, una bussola a quattro zampe. Basterebbe dirgli, Cerca, e in meno di cinque minuti ce l’avremmo di ritorno, con la coda scodinzolante e gli occhi brillanti di felicità”.
Sicuramente i compagni della carovana si sono accorti della mancanza dell’assente, un paio di loro si saranno offerti volontari per tornare indietro. Intanto l’autore che se ne stava seduto, in attesa del soccorso umano, ora si è alzato, e ha fatto il primo passo, passo che gli ha causato una serie di angosciose riflessioni, e “senza un cane lì ad asciugargli le lacrime”. Tutto sembra perduto, soprattutto è perduto l’elefante, e quindi è perduta la storia, che non può più andare avanti (quanti romanzi sono finiti nel nulla, a dormire sogni di morte chiusi in un cassetto). L’autore si è seduto a terra, e nel “giro di tre minuti” si è addormentato. “E’ sprofondato nel sonno, e c’è da credere che ancora oggi sarebbe lì a dormire se salomone non avesse emesso, all’improvviso, in qualche parte del nebbione, un barrito assordante…”. Da questa opacità della mente, da questa comatosa stanchezza l'autore viene salvato da un barrito sonoro dell'elefante. Poi saranno tre, i barriti, che consentiranno all’autore di ritrovare l’elefante nella nebbia e proseguire la storia.
Nel capitolo 15 del capolavoro di Mark Twain il soggetto narrante (Huck Finn) è su una barca e perde di vista la zattera con Jim, a causa di un enorme banco di nebbia. Finalmente, dopo molta angoscia e fatica, Huck riesce a ritrovare la zattera, dove Jim, esausto per il gridare e il dolore e il pianto si è addormentato. E Huck gli gioca uno scherzo, gli dice che è stato solo un sogno. Poi si pente e chiede scusa (ad un "essere inferiore"), e cambia la lingua e crea un mondo.
I critici sono concordi nell’attribuire alla nebbia in HF un significato simbolico, di un’opacità della coscienza che impedisce di vedere l’unità tra due individui portati dalla stessa corrente, sulla stessa zattera.
E’ questa opacità dell'io che spinge Huck allo scherzo, perché dai tempi dei sumeri noi "esseri superiori" (basta poco per esserlo, ad esempio essere cittadini italiani... appunto, poco) adoperiamo un linguaggio scherzoso o di scherno con i "diversi", che non osiamo chiamare “esseri inferiori”, ma semplicemente inferiori, lo stesso linguaggio scherzoso lo usiamo con gli animali, ad esempio con i cani o gli elefanti da circo. Un linguaggio scherzoso che si muta in azioni. Non avete mai visto un elefante in equilibrio su una palla, un cane che dà la zampa?
Un linguaggio di scherno che continuerà a mutare in azioni. Avete mai visto un lager, o un mattatoio?
Ma se la nebbia è un sintomo della malattia, è anche la cura della malattia, perché nel perderci ci ritroviamo: smarrendo l'io ritroviamo un noi.
Niente paura, son cose di fantascienza, accadono solo nei film e nei romanzi d'autore.
lunedì 16 novembre 2009
Albanella vola
Mi sto ripetendo?, così è (se vi pare) ;)
A questo mondo ognuno viene alla luce a modo suo. L’erba mette fuori dalla terra per prima cosa il naso, lo allunga verso l’alto e se ne resta così, con quel naso verde e basta: niente orecchie, piedi, becco, solo quel naso verde.
Jordan Radičkov, Noi passerotti
Ogni espressione elaborata dall’interprete LISP dà sempre un risultato, che può essere un valore numerico, una stringa di caratteri oppure il valore nullo (nil), comunque sia l’espressione elaborata restitusce all’ambiente qualcosa. Questa caratteristica ci porta a definire una operazione fondamentale in LISP: la nidificazione, cioè l’operazione di inserimento di una espressione all’interno di un’altra espressione. Perché è una operazione fondamentale? In altri linguaggi di programmazione i dati e le azioni sono separati, ad esempio nel linguaggio Pascal un programma è costituito da due parti: una descrizione delle azioni che devono essere fatte ed una descrizione dei dati che sono modificati da queste azioni. Le azioni sono descritte da istruzioni ed i dati sono descritti da dichiarazioni e definizioni. Così un programma in linguaggio C è costituito da funzioni e da variabili. Una funzione contiene istruzioni che specificano le operazioni da effettuare, mentre le variabili memorizzano i valori usati durante l’esecuzione. Niente di tutto ciò è vero in LISP. In LISP non esiste un campo dati separato dal cielo delle azioni: dati e azioni convivono dentro le parentesi tonde che delimitano l’espressione come uova nel nido.
Abbiamo visto che ogni espressione elaborata dall’interprete LISP restituisce un valore, per scrivere un programma è quindi sufficiente annidare (nidificare) espressioni dentro altre espressioni, utilizzando i valori restituiti. In sintesi questo è lo schema di un gruppo di espressioni LISP:
( ) ( ) ( ) ( )
e questo è un programma LISP:
( ( ) ( ) ( ) )
Eterno ritorno e STOP
Mi sto ripetendo?, non mi pare mica :)
E poi si parte e tutto è O.K.
Eugenio Montale, Prima del viaggio, Satura
Il primo itinerario introduce al modo di pensare ricorsivo in LISP. Una funzione ricorsiva è una funzione che chiama sé stessa. Come si individua in un codice sorgente una funzione ricorsiva? Facile, all’interno del codice della funzione da qualche parte deve esistere un’espressione che chiama la funzione stessa. Tutto qui? No, una caratteristica essenziale di una funzione ricorsiva è data dall’esistenza di una condizione di terminazione, il cui scopo consiste nel determinare quando la funzione non deve più essere definita in termini di sé stessa.
Il classico esempio di funzione ricorsiva è quella che calcola il fattoriale di un numero. Questo è indicato con la notazione n! ed è definito come:
n! = 1 se n=0
n! = n x (n - 1)! se n>0
quindi:
n! = 1 x 2 x 3 x ... x n
Visto che per calcolare n! si deve prima calcolare (n-1)! si usa una funzione che invoca sé stessa fino a quando n = 0, così definita:
fatt(n)
se n>0 n*fatt(n-1)
se n=0 1
L'esempio mostra una situazione ideale, cioè il programma termina con n = 0. Ma quando non è presente una condizione di terminazione la funzione chiamerà sé stessa all'infinito, generando un errore nel sistema. In altre parole una funzione ricorsiva non può essere definita esclusivamente in termini di sé stessa, altrimenti darebbe luogo ad una definizione circolare. Quando è utile usare una funzione ricorsiva? Quando ogni chiamata alla funzione rende il problema più semplice da affrontare e se il problema consente di determinare una condizione di terminazione. Nell’esempio fatt(n-1) è più semplice di fatt(n), e la condizione di terminazione è raggiunta con fatt(0). Leggendo con attenzione il listato in basso, vediamo che la funzione fattoriale è chiamata la prima volta (all’interno della funzione principale n!) con un argomento: la variabile numerica intera num (e il compito del programma è di calcolare il fattoriale di num). Lo scopo della variabile n (num), all’interno della funzione fattoriale, è di tenere il conto del numero delle chiamate alla funzione fattoriale. Ad ogni successiva chiamata alla funzione fattoriale (all’interno della stessa) il valore numerico contenuto nella variabile num decresce di un’unità fino ad arrivare a 0. Tutte le espressioni presenti nella funzione fattoriale sono nidificate all’interno della funzione if. Con n = 0 (ecco la condizione di terminazione) la funzione fattoriale termina. Con n maggiore di 0 la funzione fattoriale calcola il prodotto di n per il fattoriale di n-1.
(defun fattoriale ( n )
.(if (= n 0)
..(setq n 1) ; stop!
..(setq n (* n (fattoriale (- n 1))))
.)
)
(defun c:n! ( / num )
.(initget (+ 1 4)) ; 1=non nil, 4=non negativo
.(setq num (getint "\nInserisci un numero intero positivo: "))
.(princ (fattoriale num))
.(princ)
)
;;; eof
Mettendo l’espressione (initget (+ 1 4)) in forma di commento e digitando -1 alla richiesta di input il programma CAD stamperà il seguente messaggio di errore:
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: -1
Errore irrecuperabile ***
raggiunto il limite della pila interna (simulato)
La chiamata alla funzione fattoriale con argomento -1 dà luogo ad un ciclo ricorsivo infinito, che viene spezzato dal programma CAD. Come test del programma digito questa serie di numeri: 0, 7, 10, 13, 14, 15, 16, 17:
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 0
1
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 7
5040
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 10
3628800
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 13
→1932053504
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 14
1278945280
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 15
2004310016
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 16
2004189184
Comando: n!
Inserisci un numero intero positivo: 17
-288522240
Consultando una tavola di fattoriali mi accorgo che il programma dà una risposta errata con n maggiore o uguale a 13 (questo perché il fattoriale di 13 ha superato la dimensione massima consentita ad una variabile intera in CAD). Una soluzione al problema è usare la funzione getreal al posto di getint. La funzione getreal restituisce un numero reale anche quando il numero digitato è un valore intero (per eliminare la parte decimale si userà la funzione fix).
(defun fattoriale ( n )
.(if (= n 0)
..(setq n 1) ; stop!
..(setq n (* n (fattoriale (- n 1))))
.)
)
(defun c:n! ( / num )
.(initget (+ 1 4)) ; 1=non nil, 4=non negativo
.(setq num (getreal "\nInserisci un numero intero positivo: "))
.(princ (fix (fattoriale num)))
.(princ)
)
;;; eof
Comando: N!
Inserisci un numero intero positivo: 13
6.22702e+009
Commenti e stile
Commenti
Il Novellino dà l’impressione di un solaio narrativo nel quale si può trovare di tutto, squisitezze e schegge inservibili, una spada di Toledo, una vecchia macchina da scrivere, un fantasma che ha disimparato a parlare, l’ultima salma impagliata di un animale definitivamente scomparso dalla faccia della terra. In ogni caso, questi oggetti estranei e ostili, giustapposti in un luogo appartato, hanno questo in comune, questo documento o testimonianza di un «autore»: sono tutti morti.
Giorgio Manganelli, Introduzione al Novellino.
Un commento è semplicemente una nota che spiega il codice sorgente nei punti salienti. È una buona consuetudine inserire commenti all'interno del codice sorgente dei programmi, e non solo per chi leggerà il codice ma anche per noi stessi, quando ci torneremo sopra, magari dopo un anno, a voler essere ottimisti, o una settimana. Non basta però scrivere i commenti nel codice sorgente; i commenti devono essere anche chiari, sensati ed utili. Sarà una raccomandazione ovvia, ma ho notato nel leggere i codici sorgenti, di programmi scaricati da Internet, che non sempre i commenti presenti sono utili; non lo sono ad esempio i commenti inseriti a pioggia, in modo meccanico, per precisare nomi di variabili in modo insulso, tipo «P sta per PIPPO» o per esternare al lettore i dubbi e le perplessità del programmatore: «ma questa variabile devo passarla per valore?». È inutile e maleducato inserire commenti sull’intelligenza del lettore; è inutile inserire un commento alla fine di un ciclo condizionale per sottolineare la fine dello stesso (inutile si intende se il codice è ben indentato, vedremo poi come in seguito), sempre che il ciclo condizionale non sia più lungo di una schermata video. Se il programma è in corso d’opera inserire commenti nelle parti del codice da perfezionare è fondamentale; in questa fase della vita del programma mettere in forma di commento pezzi del codice come alternative da sperimentare in futuro è molto utile. Però quando il programma eseguirà alla perfezione il compito assegnato ricordatevi di eliminare questi pezzi di codice in forma di commento. Perché la presenza di questi commenti all’interno di codici spacciati per definitivi non solo è illogico ma sa pure di sciatto (ma un programmatore di indole poetica sosterrebbe che questi morti frammenti di codice sorgente sono come un «solaio narrativo» al di sopra delle stanze abitate del programma).
Un commento in LISP inizia con il segno ; tutto ciò che segue questo segno, nella stessa riga, non è letto dall’interprete LISP. È possibile inserire più righe di commento facendo precedere ogni riga dal segno. E alla fine del programma, dopo l’ultima parentesi chiusa, è buona regola scrivere:
;;; End of file
o più semplicemente:
;;; eof
così siamo sicuri che il codice sorgente c’è tutto e non ne abbiamo perso un frammento per strada.
Stile
Premesso che alla base di un codice sorgente leggibile, da occhio umano, c'è una buona implementazione dell’algoritmo, per rendere comprensibile un codice sorgente non basta inserire commenti ma è essenziale indentarlo. Un codice sorgente con una buona indentazione è più leggibile, necessita di meno commenti superflui, e da un punto di vista umano è più funzionale. Infine una corretta indentazione consente di vedere facilmente se manca una parentesi all’appello. All'interprete LISP non interessa come si presenta il codice, per lui i seguenti listati sono uguali:
(defun test (arg / b c)
.(setq a “VG”)
.(setq b “VL”)
.(setq c arg)
.(setq c (* arg 2))
)
(defun test (arg / b c)
......(setq a “VG” b “VL” c arg)
......(setq c (* arg 2))
)
(defun test (arg / b c)(setq a “VG”)(setq b “VL”)(setq c arg)(setq c (* arg 2)))
Ma l'interprete LISP non è un essere umano. Tenuto conto che la difficoltà maggiore nel programmare in LISP sta nel parificare il numero di parentesi e delle virgolette doppie è quasi ovvio arrivare alla conclusione, più o meno per tutti, che una buona indentazione del codice sorgente non è un optional come non lo è la pelliccia per Lupo Alberto.
Il numero degli spazi di indentazione è invece una questione di gusti personali. Tuttavia siccome un programma LISP si sviluppa, o si avviluppa, in molteplici liste annidate, una singola spaziatura prima della parentesi aperta è sufficiente, perché già con due o tre spaziature le espressioni finirebbero fuori della pagina mostrata in video, rendendo faticosa la lettura del codice per i continui interventi del mouse sul cursore orizzontale.
domenica 15 novembre 2009
Per le strade di Manhattan
Testa, ascenderemo fino alla cima del monte. Croce, scenderemo giù fino a valle. Se la sorte deciderà per l’ascensione, allora forza e coraggio, puntare i piedi e salire come capre di montagna, ché quelle di pianura non servono allo scopo; afferrando radici terragne e muschiosi tronchi d’albero, prima o poi sarete sulla vetta, sul crinale di un monte che forse un tempo fu percorso dai nostri più agili antenati ominidi (punto indicato come A), e di lassù, guardando tutt’attorno, giacché vi siete persi in un bosco mediterraneo, senz’altro noterete qualche ondivago pennacchio di fumo che si dipana neghittoso nel terso cielo grigio-azzurro, o febbrili torri elettriche di babele, oppure un pittoresco campanile di una chiesetta fatiscente di campagna. Tracciata mentalmente la strada, che unisce A al pigro pennacchio o al rudere medioevale (punto B), lesti e balzelloni scenderete giù a valle, senza deviare il cammino di un solo centimetro, frenando ogni tanto e riprendendo l’abbrivo della corsa per non rischiare l’inciampo in qualche radice marcita o rimbalzare come una palla di gomma nel muschioso tronco di una quercia, o in un duro castagno. Ma tutta questa fatica e tutto 'sto sudore perso per strada, ora, se ci pensiamo bene, è stato superfluo, inutile e vano, ché in ogni modo scendere a valle si doveva, e allora, la prossima volta, lasciamo la monetina in tasca e rispondiamo al nostro aut-aut che senz’altro sì, noi scenderemo a valle. E che alla fine sì, noi troveremo un sentiero, e lo seguiremo non nel verso che scema ma in quello che declina, oppure finiremo dentro un gelido torrente e ci lasceremo trascinare dalla corrente a valle, come in un tranquillo week-end di paura, ovvero metteremo la suola destra (sinistra se siamo mancini) dello scarponcino infangato, ma di marca, sul materno catrame di una strada provinciale. Tutto bene. Noi seguiremo la strada... ok, ma se la strada è in piano? Niente panico. Ecco che parte in testa un secondo aut-aut: destra o sinistra? Non vi consiglio di seguire inclinazioni politiche o fedi religiose ma di lanciare in aria la monetina. E se questo smarrimento ci afferra come il virus dell’influenza, una notte d’inverno, tra i padiglioni di un grande ospedale? Chi si è smarrito in quel labirinto piano e oscuro ha provato veramente l’incubo e l’angoscia di non arrivare. Eppure nonostante l’angoscia in cuore, esiste sempre un punto B nello spazio, esiste una meta, una persona cara da visitare, perché nessun visitatore si perde la notte tra i padiglioni di un grande ospedale solo per andare a visitare un letto vuoto.
Ma come fare ad arrivare al punto B se la strada è in piano? La domanda mi spinge ad una riflessione filosofica che è anche un’auto-citazione (da LISP Trek, 2007):
La fig. 1 rappresenta in modo schematico un quartiere simile a Manhattan, le cui strade sono tutte ortogonali (con una unica eccezione). Si ipotizza che ogni tratto di strada tra un incrocio e quello successivo, sia in direzione da nord a sud che in direzione da ovest ad est, abbia una lunghezza di 100 metri. L'obiettivo è andare a piedi dall'isolato A (ed in particolare dall'incrocio in basso a destra dell'isolato A) all'isolato B (e in particolare all'incrocio in alto a sinistra dell'isolato B). Se B dista da A x isolati in direzione ovest-est e y isolati in direzione nord-sud, dobbiamo percorrere x+y tratti di strada. Quante alternative abbiamo per spostarci da A a B lungo uno dei percorsi più brevi? Con x = y = 0 restiamo dove siamo. Con x = 0 (a) o y = 0 (b) l'unico percorso più breve è una linea retta da nord a sud (ipotesi a) o da ovest a est (ipotesi b). Rimane da esaminare il caso con x e y maggiori di 0, e il problema non cambia se A e B sono molto vicini, come si vede nella seconda figura.
I percorsi più corti sono solo due: xXy e yYx; non esiste un terzo percorso breve che attraversa sia l'incrocio X sia l'incrocio Y. Se ora ricollochiamo A dove stava in origine si vede che comunque ogni percorso breve che porta a B deve passare o dall’incrocio X o dall’incrocio Y ma non da entrambi. La soluzione sta quindi nel sommare il numero di percorsi brevi che passano dall’incrocio X e il numero di percorsi brevi che attraversano l’incrocio Y. Il numero di percorsi brevi da A a X è lo stesso problema con x e y-1 (a). Il numero di percorsi brevi da A a Y è lo stesso problema con x-1 e y (b). Infatti nel caso della fig. 2 (a) è x = 1, y = 0 e (b) x = 0, y = 1.
; manh.lsp * 17 febbraio 2004
; © 2004 Claudio Piccini
(defun nPercorsi (e c)
(if (or (= e 0)(= c 0))
(setq np 1)
(setq np (+ (nPercorsi e (- c 1))(nPercorsi (- e 1) c))))
)
(defun c:manh ()
(initget (+ 1 4)) ; non nullo, non negativo
(setq e (getint "\nInserire numero isolati in direzione OVEST-EST: "))
(initget (+ 1 4)) ; non nullo, non negativo
(setq c (getint "\nInserire numero isolati in direzione NORD-SUD: "))
(princ (strcat "\nLe alternative sono " (itoa (nPercorsi e c))))
(princ)
)
;;; eof
giovedì 12 novembre 2009
Mattatoio n.5
5 citazioni dal libro (nella traduzione di Luigi Brioschi, U.E. Feltrinelli):
(1) Un tedesco americano di quarta generazione, oggi residente in mezzo agli agi di Cape Cod (dov’è fin troppo schiavo del vizio del fumo), ebbe modo di assistere, molto tempo fa, come soldato di fanteria hors de combat, prigioniero di guerra, al bombardamento di Dresda, in Germania “la Firenze dell’Elba”, e di sopravvivere per narrarne la storia.
Questo è un romanzo scritto un po’ nello stile telegrafico e schizofrenico in uso sul pianeta Tralfamadore, da dove vengono i dischi volanti.
Pace.
(2) …le venne una gran voglia di un crocifisso, e se ne comprò uno in un negozio di regali di Santa Fe durante un viaggio che la famigliola fece nel West al tempo della Grande Crisi. Come tanti altri americani, cercava di costruirsi una vita che avesse un senso con le cose che trovava nei negozi di regali.
(3) Io sono un tralfamadoriano, e vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle Montagne Rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. E’, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra.
(4) Evadere era fuori questione. Fuori della cupola l’atmosfera era satura di cianuro e la Terra si trovava a 713.700.000.000.000.000 chilometri di distanza.
(5) Là fuori non c’era nulla, non c’era alcun genere di traffico. C’era solo un veicolo, un carro abbandonato con due cavalli. Il carro era verde e a forma di bara.
Gli uccelli parlavano.
Un uccello disse a Billy Pilgrim: “Puu-tii-uiit?”
Kurt Vonnegut, unico erede, fratello germano, di Mark Twain.
lunedì 9 novembre 2009
Una nuova Stasi
E' la definizione di Stasi su Wikipedia, che qui riporto aggiornata ad oggi (Wikipedia è opera aperta in continua evoluzione):
Stasi è l'abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, "Ministero per la Sicurezza di Stato", abbreviato in MfS o popolarmente in Stasi appunto. La Stasi era la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est (DDR). Rimase famosa per avere arruolato numerosi tedeschi dell'Est per il controllo delle attività dei propri concittadini, concedendo loro privilegi speciali (senza fonte).
Il testo scritto in rosso è un avvertimento dei controllori di Wikipedia al compilatore della voce, come dire noi non sappiamo se questi integerrimi ed esemplari cittadini delatori della Germania dell'Est spiavano per avere un privilegio o più semplicemente per amore di Patria. Non è cosa banale, anche fra i dipendenti statali, esistono lavoratori che scordano di lavorare pur di controllare se altri dipendenti lavorano o se invece passano il tempo su Internet a cazzeggiare. E questa opera di spionaggio la fanno per niente in cambio, non solo ma anche andando contro la legge della privacy. Fuorilegge e fannulloni: tanto è forte nei loro cuori l'amore per lo Stato.
C'è da commuoversi (se fosse vero).
domenica 8 novembre 2009
Commento a un commento ai PS (n. 3)
[…] Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura. (11) […]
(11) tra compagni di sventura. Può alludere, come molti credono, agli italiani esuli; ma anche agli italiani in generale; e anche agli uomini in generale!.
Questo commento mostra un aspetto stranamente attuale di ac (anonimo commentatore).
Prendiamo, per esempio, il caso del crocefisso esposto nei luoghi pubblici. E’ questo un caso da far accapponare la pelle a un uovo sodo, altro che avvocato Azzecca-garbugli.
La questione è però semplice: c’è chi lo vuole e c’è chi non lo vuole (esposto nei luoghi pubblici).
Il punto è capire quali sono i fini nell'esporre il crocefisso nei luoghi pubblici.
Certo, al tuttologo televisivo non serve ricercare un fine (per inc*** con x o y una causa vale l’altra); eccolo, infatti, mostrare ingrugnito sul bavero della giacca una piccola croce argentea.
E’ necessario l'esposizione del crocefisso per convertire il non credente che lavora in un luogo pubblico? Certo che no. E il non credente che non vuole il crocefisso esposto in ufficio cosa rischia nell'aldilà? Basta chiedere, ad un cattolico osservante, se esiste l’inferno e ti risponderà, sì… ma è vuoto. Ora, se anche Adolf Hitler è costretto a dormire rattrappito sullo zerbino davanti alla porta dell’inferno perché non lo fanno entrare, il non credente che non vuole il crocefisso esposto nei locali pubblici, al massimo della pena sconterà un paio di settimane in purgatorio.
Ma nessun singolo cattolico osservante dirà che l'esposizione del crocefisso in un locale pubblico serve per convertire il non credente, né per sottolineare la potenza della Chiesa (per questo ci sono già chiese e cattedrali pinate d'arte e di oro e d'argento e di pietre preziose in Italia). E non esiste alcuna ingerenza da parte della Chiesa, perché l’Italia è un paese laico; quindi il crocefisso è esposto nei luoghi pubblici per motivi laici e profani, come un simbolo dello Stato, cioè in quanto radice della nostra Storia, e probabilmente anche della nostra Geografia, (ma quel coso che sghignazza in un angolo è il Leviatano?).
Finzioni vs. Illusioni
Questa è la fine della nostra avventura?
Niente ha fine.
Siamo venuti in cerca del segreto dell’immortalità, per diventare dèi, ed eccoci qui, mortali, più umani che mai.
Se non abbiamo trovato l’immortalità almeno abbiamo trovato la realtà.
Abbiamo cominciato in una favola e abbiamo trovato la vita, ma… questa vita è realtà?
No.
E’ un film.
Noi siamo immagini, sogni, fotografie.
Non dobbiamo restare qui, prigionieri!
Romperemo l’illusione.
Questa è magia!
La vita reale ci attende.
The Patsy © 1964 by J. Lewis (immagini)
La montagna sacra © 1973 by A. Jodorowsky (immagine n.5 e testo)
sabato 7 novembre 2009
Ritornati dalla polvere (n. 3)
Si definiscono Eloi, e sono vegetariani, anzi fruttivori, infatti, mangiano solo esotici frutti colorati con i colori del Rosso Fiorentino, e bevono pura acqua di fonte, in coppe di bianco vetro opaco. Ma, nonostante la dieta fruttivora e la fede assoluta in una massima pavesiana (*) nessun Eloi arriva alla senilità, e perché? Oibò, è presto detto, perché sottoterra, proprio sotto i piedi scalzi e ballerini degli Eloi, bazzicano e tramano, dentro neri e oleosi alambicchi, brutti mostri albini e pelosi, chiamati (dagli Eloi) Morlock.
I Morlock non sono vegetariani (ché sarebbe stato chiedere troppo alla Divina Provvidenza); anzi essi sbranano gli Eloi, ma solo quel tanto che basta per non sterminarli tutti.
Ma quel fatale pomeriggio di ottobre dell’anno 802701 la macchina del Tempo si ferma e scarica George sull’erba di un prato fiorito, dove un tempo esisteva la sua casa e tutt’attorno si stendeva Londra. George è un inventore e un ottimo ingegnere, ma, soprattutto, è una brava persona; subito chiede dove sono nascoste le macchine e dove gli anziani, ma, soprattutto, dove sono i libri, così che potrà provare a capire o almeno sfiorare l'enorme portata d'informazione data da ottocentomila anni di scienza e tecnica. Dimenticavo, lo chiede proprio agli Eloi.
E un empatico biondino smette di mangiare un frutto e lo conduce alla biblioteca, e già George s’immagina di perdersi in un labirinto sconfinato di scaffali e libri di scienza e tecnica suddivisi da lucide etichette con massime zichichiane; macché solo quattro assi di legno marcio in una nicchia nel muro, celata da una tendina polverosa.
Un esempio di libro conservato nella biblioteca degli Eloi.
Sì, mi dicono tutto su di voi.
Cosa avete fatto?
Migliaia di anni per costruire, ricostruire, creare e ricreare, perché voi riduciate tutto in polvere.
Un milione di anni di uomini intelligenti morti per i loro sogni.
Per cosa?
Per farvi nuotare, ballare… e divertire!
E però George, nonostante sia un inventore e un ottimo ingegnere e una brava persona, quando dovrà scegliere tra il partito di maggioranza dei pii e laboriosi Morlock (con il solo vizietto di un quasi cannibalismo di maniera) e il partito di minoranza degli smemorati Eloi, sceglierà di stare dalla parte degli Eloi. Niente paura, è solo un film di fantascienza, di George Pal.
(*) Lavorare stanca
domenica 1 novembre 2009
Ritornati dalla polvere (n. 2)
Gli Sterminatori (ma anche l’altra umanità) è devota, fino al fanatismo, al malvagio dio Zardoz (che si chiama come il titolo di un bellissimo film di fantascienza). Zardoz è una sorta di enorme testone di pietra monomaniaco che svolazzando nei cieli plumbei non tralascia mai di ordinare lo sterminio dell’umanità (quella dei vestiti colore ocra), e vomitare sugli sterminatori fucili, pistole e caricatori assortiti.
Zardoz non è un dio, ebbene no, ma una macchina, solo una macchina, per quanto assai evoluta. Zardoz è una invenzione degli immortali, scienziati che vivono nei Vortex, specie di villaggi agrituristici sparsi sul pianeta. In teoria questi scienziati, uomini e donne (una a caso, Charlotte Rampling) sono diventati immortali per spingere la scienza oltre i confini presubibilmente toccati dalla nave stellare Enterprise nel suo viaggio quinquennale, ma in pratica passano il tempo a spingere un carrettino del fornaio, pieno di strani filoncini di pane verde, ad invecchiare di mesi o anni qualche reo, colpevole di non pensare in sintonia, e a sognare in comune quasi tutto il dì e la notte.
Intanto tra le genti, dimenticate da Dio ma ben presenti a Zardoz, e gli sterminatori tutto prosegue con la solita routine in stile guerra fredda, quando era sufficiente nascere a destra o a sinistra di un muro per essere chiamato zombie o credersi un uomo libero, fino a quando un giorno come un altro, durante il solito saccheggio, tra uno stupro e un ammazzamento…
Zed vede un tizio mascherato che da una finestra gli fa cucù…
Lo 007 prima maniera non era tipo di farsi fare cucù alla finestra senza reagire e così, in un secondo o due, ha già sfondato l’uscio e penetrato dentro l’edificio (una biblioteca), pronto a zardozzare l’ultimo disgraziato buontempone. Sale le scale e di nuovo vede il misterioso individuo…
...che lo invita ad entrare nella biblioteca.
Dove gli indica un libro… Libro che resterà sospeso in aria, come per magia. Il misterioso individuo ha pensato bene di legare il libro ad un filo per allontanarsi senza pericolo… E’ un libro per bambini, per imparare a leggere. E sarà il primo di tanti altri. Zed ci prende gusto, e legge legge legge, fino a quando scopre un libro fondamentale; una vera e propria bibbia...
...che gli farà perdere per sempre la fede in Zardoz, e scatenargli dentro e fuori un’ira funesta (eccolo, infatti, mentre getta in aria una raccolta, rilegata in marocchino rosso, di opere scelte di Bruno Vespa).
Domanda: perché Il meraviglioso Mago di Oz fa perdere a Zed la fede in Zardoz?
E quella sua famosa libreria? E’ forse ancora dispersa su per i muriccioli. (A. Manzoni)