domenica 21 febbraio 2010

CEIsAAA, II

Sulla strada, 1 luglio 193*
La strada per Favbrillhà attraversa boschi di querce selvagge e pini stillanti resina. In lontananza, sulle colline, si estendono i campi gialli di grano maturo. Uomini, donne, vecchi e bambini trebbiano e vagliano il grano, e per trasportarlo usano carri dalle ruote di fuoco. Scendono i carri dalle colline, a tutta randa, e le ruote disegnano svastiche nell’aria, ma gli assi dei carri non sono lubrificati, infatti, disturbano le nostre orecchie educate alla musica di Wagner e Liszt (anche a così grande distanza), con un suono monotono e ossessivo, che ricorda lo stridio di cicale impazzite per il caldo infernale (quaranta gradi all’ombra delle querce e dei pini). E uno di noi, P. de P., forse a causa di un colpo di sole, è salito su un sasso e si è messo a filosofeggiare alla comitiva; affermava che tutti noi siamo fermi nel tempo, anche se in cammino, che siamo come insetti prigionieri nell’ambra, come i raggi di una ruota che disegnano una svastica di luce infuocata. Uno di noi, O.K.A., ha raccattato un escremento di mulo e glielo ha tirato addosso centrandolo, abbiamo riso fino alle lacrime (anche le maestranze locali), indi abbiamo ripreso la strada cantando in coro.
Uno di noi, A.O.S., non si è unito al coro, si è allontanato e si è messo a raccogliere e mangiare i pinoli nel bosco.

Sulla collina di Favbrillhà, 2 luglio 193*
Favbrillhà è un sito di sicuro interesse mondiale per alcuni dati esteriori. La collina ha il caratteristico aspetto di un sito archeologico d’importanza fondamentale nella ricostruzione della storia precedente l’alba dell’antico regno Ittita; noi lo crediamo fermamente, anche se per adesso non esiste nessuna prova a sostegno. Ma la morfologia della collina prova, senza ombra di dubbio, l'esistenza di un grande centro urbano. Qualche lettore di questo diario avrà certamente presente in memoria le prime edizioni della Prova del Cuoco, ricordate? Sullo sfondo la mirabile scenografia esibiva, alle spalle della testina canuta del Bigazzi, un grosso uovo fritto in tegamino, con il bordo tutto bruciacchiato. Ebbene, al centro della collina di Favbrillhà, un po’ spostato a sinistra, per chi osserva a volo di uccello la collina, si eleva un collinotto tondeggiante, a mo’ di tuorlo d’uovo fritto in tegamino, è sicuramente l’Acropoli. L’acropoli è circondata da una vasta regione depressa pianeggiante e di colore biancastro, è la Città Bassa. La città bassa è cinta tutt’attorno da un bordo, in rilievo sul piano della campagna. Il bordo della collina presenta ben tre soluzioni di continuità, tre notevoli avvallamenti. Il bordo frastagliato, di colore rosso mattone bruciato, evidenzia ciò che resta delle antiche imponenti fortificazioni, poste a difesa della formidabile città.


Sulla collina di Favbrillhà, 9 agosto 193*

Nel tardo pomeriggio di un afoso giorno d’estate, con il cielo tutto coperto di nembi e il suono lontano di tuoni, divorati dalle pulci e scavando come talpe i morbidi fianchi del collinotto centrale, tutto cosparso di insulsi cocci di terracotta, enigmatiche monete di conio incerto, frigoriferi e lavatrici, due o tre televisori con il tubo catodico esploso, finalmente abbiamo trovato un antichissimo muro in opus incertum, così ben costruito che neanche uno spillo riuscirebbe a passare tra un masso e l’altro (uno di noi ha fatto la prova con uno stecchino da denti usato). Ahimè, abbiamo portato con noi, dall’Europa, solo sette carriole, qui non è possibile farne costruire di nuove, ché il falegname del posto, tale Giuseppe, è un incapace; dunque abbiamo usato cento ceste di vimini e venticinque armeni per portare via la terra; abbiamo pagato, gli armeni, trenta centesimi il giorno (la domenica ben trentacinque centesimi a cranio!).
Scavando tutt’attorno al muro mirabile, abbiamo dissepolto uno scheletro, anzi uno scheletrino.
Uno di noi, Arne Otto Saknussen, è subito caduto in ginocchio, accanto allo scheletrino, unendo le mani in preghiera, a guisa d’orante sumero. Subito dopo, e ad alta voce, ha proclamato che lo scheletrino apparteneva ad un suo antenato, Arne Saknussen, il famoso scopritore di Atlantide, il primo a raggiungere il centro del mondo e non tornare più indietro, e da oggi anche scopritore di questa città dal nome ancora sconosciuto.
Uno di noi, O.K. Allright, ha invece avanzato l’ipotesi che lo scheletro sia di un grosso gibbone, stanziale in questa regione fino a qualche millennio di anni fa, lo proverebbe la lunghezza sproporzionata delle ossa lunghe del braccio, e le piccole dimensioni dello scheletro.
Infine, uno di noi, Pio de Pio, è salito su un sasso e si è messo a piangere, poi ha urlato che lo scheletro era la vera prova dell'esistenza dell’Ebreo Errante (EE), ma è stato deriso da tutti, messo in minoranza, preso a bersaglio con le vecchie monete dal conio indecifrabile e i cocci di terracotta.
O.K. Allright, ha tirato fuori da una tasca una lente di ingrandimento e ci ha pregato di osservare che la mano del gibbone, o di Arne Saknussen, era volutamente appoggiata su un grosso orcio di terracotta, che lo stesso ha attribuito alla cultura di Naqada (inizio del III millennio a.C.), dunque il gibbone, o Arne Saknussen che dir si voglia, ci ha fornito il primo fondamentale sincronismo, per la datazione, non tanto dello scheletrino, quanto del sito.
Otto Saknussen si è levato in piedi, e saltando come un capretto in primavera, ha belato, Ah Mio Avo Benedetto, esisterà mai un luogo dell’ecumene dove non hai mai messo piede?
A questo punto abbiamo congedato gli armeni, e siamo andati in tenda a dormire.

Sulla collina di Favbrillhà (e al Centro del Mondo), alba del 15 agosto 193*
Scrivo queste righe con mano tremante, perché seguendo l’indicazione della mano dello scheletrino abbiamo trovato l’Archivio. L’archivio per eccellenza, l’archivio per definizione, l’archivio dei vivi, l’archivio dei morti, l’archivio dei non morti, insomma l’archivio di tutta la corrispondenza, interna ed esterna, di uno staterello che un tempo si estendeva dal mare superiore al mare inferiore, ma di cui ancora tutto ci è ignoto, perfino il nome, figuriamoci le liste dei re. In ogni modo ci stiamo lavorando su, notte e dì.
L’Archivio purtroppo è bruciato. I segni lasciati dalle lingue di fuoco danzano ancora sulle pareti crollate e sul pavimento ingombro di migliaia di tavolette d’argilla cotta.
Tutta la notte abbiamo danzato e cantato, fuori come tegole, con sottofondo l'eterna musica di Wagner.

Sulla collina di Favbrillhà (e al Centro del Mondo), 21 settembre 193*
Due di noi, Pio de Pio e O.K. Allright, si sono presi carico di tradurre le migliaia di tavolette, si sono buttati sopra come due orche arrapate su un branco di foche, notte e dì decifrano, decrittano, traducono...
Piangendo, P. de P., e ridendo, O.K. A., adattano, mettono insieme, interpretano e glossano i sogni e i desideri di esseri umani, che sono polvere nel deserto da cinque millenni di anni.
Pio de Pio vi ha già letto l’origine del mito del diluvio, l’indirizzo di casa di Giobbe, il nome del pizzicagnolo di Mosè, numerosi nomi e cognomi di sicura provenienza biblica; e una notte di tregenda chiuso in tenda, tremando e guardandosi alle spalle, ha scoperto che l’Altissimo aveva un fratello minore germano, ma più basso di statura, dio della tempesta locale. Da quella notte, Pio de Pio, va ravanando tra le tavolette di argilla cotta e bruciata, nella folle speranza di scoprire il codice fiscale, o addirittura la partita IVA, di Dio.
O.K. Allright, vola più basso, come un’albanella fra i campi di grano, fruga nella vita quotidiana e nella spaz… gossip della gente comune e dei re di uno staterello dell’Asia anteriore antica, che un tempo, che è solo leggenda, si estendeva infinito, su questo attuale scalcinato deserto, dell’Anatolia centrale.

Lettura e interpretazione della Tavoletta 876.a

A Balabù parla.
Così Berlù (?)

Il tuo accolito è giù al cancello, dice:
“Era la festa di (?), quanta folla per la via […]
Con Zazá, c[ampagna?] mia, me ne andai a passeggiá.
[…] la banda di […] suonava il Parsifal (?)

[seguono alcune righe intraducibili]

[…] se fumarono a Zazá”

Il tuo accolito è giù al cancello, dice:
“Dove sta Zazá?! Uh, mia d[onna mia]. Come fa Zazá, senza Is[aia]?”

Chi ha truvato a Zazá ca mm''a purtasse a me.
Jámmola a truvá, sù, facciamo presto.
Jámmola a incontrá […] venti coppie (di cavalli?) in testa.
Is[aia] sta ccá!
Is[aia] sta ccá!
Is[aia] sta ccá!
Non se ne vuole più andà.

Zazá, Zazá, za-za-za-za,
Za-za-za-za-za-za-zá.
Za-za-za-za-za-za-zá.

Chi ha truvato a Zazá, ca mm''a purtasse a me.
Se non troverai Zazà, [portami sua] sorella.

Zazá, Zazá, za-za-za-za,
Za-za-za-za-za-za-zá.
Za-za-za-za-za-za-zá.

Interpretazione di Pio de Pio.
Lo stile di questa lettera è caratterizzato da una notevole sobrietà, proprietà di linguaggio e stringatezza formale. Un certo re Berlù, ancora sconosciuto ma ci stiamo lavorando su, scrive a un funzionario locale, certo Balabù, probabilmente il nome corretto era Belzebù (lo scriba sicuramente ha interpretato male). Il re dice al funzionario che un lavorante della sua zona si è lamentato di un misterioso furto di tutto il raccolto di orzo “zazà”, forse perpetrato dai famelici Kaska, mitici bevitori di birra. A questo punto il re esige dal funzionario locale una quota minore dell’orzo dovuto, ché in quei tempi primitivi c’era l’usanza che i funzionari locali dovevano pagare di tasca propria gli ammanchi (sic).
Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la numerosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio nella lettera 876.a il nome Isaia, nell'archivio di Favbrillhà.

Interpretazione di O.K. Allright.
Questa lettera è un tipico esempio di cazzeggio tra scribi, numerose tavolette dell’Archivio di Favbrillhà recano qua e là commenti, riflessioni e infrazioni al codice deontologico dello scriba.
Un misterioso re Berlù, di fatto mai esistito, oggi si direbbe il re Travicello, scrive a un funzionario locale, un certo Balabù, che ad un suo accolito gli hanno preso la moglie mentre era al mercato. In quei tempi primitivi, prima del codice di Hammurabi, chi non saldava un debito entro dieci giorni gli prendevano un famigliare, o un animale domestico, in pegno, e lo mettevano a macinare l’orzo tutto il giorno, sotto il sole. Il re ordina al funzionario di trovare la moglie del disgraziato, o almeno la sorella, e di portarla alla sua augusta presenza.
Una prova fondamentale del contenuto burlesco della lettera 876.a sono le tre tacche che formano la parola ZA, esse coprono quasi tutta la superficie della tavoletta, sia il recto sia il verso e i margini destro e sinistro; anche in questa lettera nessuna traccia di una presunta esistenza di un'onomastica biblica, (l'ipotetico Isaia si deve leggere IsU).
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