Three notches, le tre tacche di Arne Saknussen, Three notches, sembra quasi il titolo di una canzone cantata da un Mel Brooks che imita the voice, Frank Sinatra, three notches, tre segni per indicare la Via per raggiungere il centro delle cose. Tonight I’ll be on that hill ‘cause I can’t stop, I’ll be on that hill with everything I got, no, non è Mel Brooks…
Signore, my Lord (se i buoni giuseppini me lo consentono), davvero si potesse un giorno arrivare a toccare il cuore nascosto delle cose che ci danzano intorno, semplicemente seguendo i segni lasciati dagli altri viandanti ai crocevia delle strade, come i neghittosi turisti a Venezia, che non si perdono mai, non c’è pericolo, perché seguono le frecce dipinte sui muri per Rialto o San Marco, fingendo di conoscere la natura delle cose, imitano perfino la camminata dell’ultimo eroe del cinema muto o del cinema 3D, ma credono veramente di aver toccato il cuore segreto delle cose, portandosi dietro una bottiglia di acqua gassata di due litri e ½? Guardali, sono come turisti nel deserto, come gli ultimi eroi romantici accanto a una jeep parcheggiata al confine di un deserto rosa fumetto, studiano, calcolano, disegnano flow-chart, progettano algoritmi per rispondere alla fondamentale domanda, quanto di benzina e quanto di coca-cola® e quante scatolette simmenthal® dovranno stipare, i materialisti atei, nel bagagliaio della jeep, la nuova Jeep® Grand Cherokee che ha un fondo reversibile del bagagliaio con un elegante strato di moquette da un lato e uno strato di plastica lavabile, quanto basta per arrivare all’oasi incantata, fata morgana, isola azzurra che vola e plana come la fenice sopra la sabbia perduta da una clessidra spezzata, e, soprattutto, senza finire come codesto bucranio che un regista simpatico e ottimista ci mostra sempre in primo piano, così che gli ultimi eroi romantici accanto alla jeep con elegante strato di moquette inquadrati nell'orbita vuota sembrano formichine che si agitano intorno a un chicco di caffè (la jeep).
Nel post precedente ho scritto, stop, sostiamo un attimo, magari spegniamo un attimo le lampade Ruhmkoff, è vero che sono autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata, ma è il "pressoché" che ci frega tutti, perché le lampade stanno dando chiari cenni di spegnimento, dunque ragioniamo, quante volte il conte Sak ha raggiunto il centro della Terra? Una volta? Due volte? Tre volte? Forse la prima volta c’era arrivato per caso, certo non pensava mica a scalpellare segni sulla pietra, ché poteva precipitare in un buco appena dietro l’angolo, e non era, il conte, d'indole bastarda come il suo discendente in linea diretta, la sorpresa doveva essere stata notevole, genuina, Oibò, guarda un po’ dove sono arrivato, al centro della Terra! Ma ragioniamo un po’, ragioniamo un po’ per assurdo, tanto per perdere un altro po’ di tempo della clessidra spezzata, e se le tacche il conte primigenio le aveva incise nel suo primo, unico e irripetibile viaggio, come faceva a sapere che quella era la strada, quella la Via per toccare il centro del mondo e non un'altra, magari meno tortuosa e quindi più economica.
La soluzione del mistero delle tre tacche…
Forse il conte aveva con sé una capra, capram, per dissetarsi con il latte e un’enorme scorta di cavolo, fasciculum cauli, per nutrirsi. Il conte che era un tipino scaltro aveva sospinto davanti a sé la povera capretta belante e impaurita fino al centro del mondo, giù lungo strette e tortuose cenge su insondabili abissi, che se ci fosse caduto dentro quale sarebbe stata la perdita per l’umanità io mica lo so, agli animalisti ricordo che non sempre la Divina Provvidenza vede e sostiene il giusto (guardate Giobbe), e comunque stava già rimboccandosi le maniche per sostenere i piccoli Adolf e Benito, invece una capretta, via anche per definizione e luogo comune, rientra nella categoria biblica del capro espiatorio e quindi alè giù nell’abisso, comunque anche a dispetto dei santi erano arrivati il conte e la capretta sani e salvi al centro della terra. Piantata la bandierina, il conte aveva legato la capretta ad una stalagmite, ed era risalito in superficie, correndo come un accolito in amok che si era dimenticato il cavolo, e senza tirare il fiato era ridisceso nuovamente dentro il provvidenziale buco nel cratere dello Sneffels Yocul in Islanda, portandosi questa volta con sé un lupo al guinzaglio, tutti sanno che i nobili sono tipi estrosi, c’è da dire che nella risalita il conte aveva inciso una tacca sul suolo petroso e quindi adesso che ripercorreva, per la terza volta, la strada poteva andarsene a spasso con il can… cioè con il lupo al guinzaglio, pavoneggiandosi tutto e mirandosi vago nelle pozze d'acqua sorgiva. Arrivato al capolinea daccapo era risalito trascinando con sé la capretta stressata, intanto aveva abbandonato, come un cane sull’autostrada, il povero lupo, tutti sanno che i nobili sono volubili, oggi penso bianco domani penso nero, e disperato il lupo si mise ad ululare alla luna, anche se da quel luogo la luna era praticamente invisibile. Strada facendo il conte incideva una nuova tacca accanto a tutte le tacche che incontrava. Il tempo di tirare fuori la testa dal buco, sfogliare la posta, lasciare la capra libera di brucare la prima erba della primavera islandese e giù di nuovo in cantina, ma questa volta si portava sulle spalle l’enorme scorta di cavolo, che anche i nobili piangono se hanno fame, e andava mangiando cavolo a pranzo cavolo a cena e cavolo a merenda, arrivato nel fondo del fondo il conte ebbe sete, e ahimé dovette tornare indietro per riprendersi la capra, durante la passeggiata, ormai ci aveva preso gusto, incideva una terza tacca accanto alle prime sul suolo petroso. Finalmente giunto alla fine del suo settimo viaggio al centro del mondo, il conte Sak se ne stava seduto al buio, con accanto la capra, un lupo e la scorta di cavolo, e pensando a tutto il tempo trascorso a salire e scendere lungo la crosta del mondo meditava di scrivere su un peso di piombo le sue memorie, Memorie di un saliscendi, ma aveva appena terminato di scrivere il prologo (e nel prologo c’era già tutto) che gli cascò la penna di mano... se un medico di scuola lapalissiana fosse passato di là avrebbe certo sentenziato che il conte Saknussen un secondo prima era ancora vivo ma un secondo dopo era bell’e morto.
.
mercoledì 10 febbraio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento