martedì 9 febbraio 2010

The mystery of the three notches



There’s some marks on the surface.
Looks like a letter or some notches.
Three notches made by the hand of man…
…pop out of a volcano across the world?
What’s your conclusion?
Science does not jump to conclusions.
Science is not a guessing game.

Three notches, le tre tacche di Arne Saknussen, Three notches, sembra quasi il titolo di una canzone cantata da un Mel Brooks che imita the voice, Frank Sinatra, three notches, tre segni per indicare la Via per raggiungere il centro delle cose. Tonight I’ll be on that hill ‘cause I can’t stop, I’ll be on that hill with everything I got, no, questo non è Mel Brooks…
Signore, my Lord, si potesse davvero un giorno arrivare a toccare il cuore nascosto di queste cose palesi che ci danzano intorno, semplicemente seguendo segni lungo la strada, come i turisti indolenti e neghittosi girano Venezia, non si perdono mai, non c’è pericolo, non devono chiedere la strada agli ultimi abitanti gentili. Essi, i turisti non i gentili, si limitano a seguire le frecce sui muri per il ponte di Rialto o per piazza San Marco, finzione di finzioni, e così avanti vanno prodi per la loro strada, fingendo di conoscere la natura delle cose, e imitano nel passo la camminata dell’ultimo eroe del cinema muto o 3D o di Joseph Beuys, e pensano veramente di aver toccato il cuore segreto delle cose, ma si portano dietro una bottiglia di acqua gassata di due litri e 1/2, come turisti nel deserto, come gli ultimi eroi romantici accanto a jeep ferme ai margini di un arido deserto da fumetto, studiano, calcolano, disegnano flow-chart, progettano algoritmi per rispondere alla fondamentale domanda, quanto di benzina e quanto di coca-cola e quante scatolette simmenthal dovranno stipare i materialisti atei sulla jeep per arrivare all’oasi incantata, fata morgana, isola azzurra che vola e plana come fenice sopra la polvere di una clessidra spezzata, e, soprattutto, senza finire come codesto bucranio che un regista simpatico e ottimista sempre inquadra in primo piano, così che gli ultimi eroi romantici appaiono nell'orbita cava come formichine che si agitano intorno a un chicco di sesamo.
Nel post precedente ho scritto, stop, sostiamo un attimo, magari spegniamo un attimo le lampade Ruhmkoff, è vero che sono autogeneranti e dalla durata pressoché illimitata, ma è il "pressoché" che ci frega tutti, perché le lampade stanno dando chiari cenni di spegnimento, dunque ragioniamo, quante volte il Conte Sak ha raggiunto il centro della Terra? Una volta?, due volte?, tre volte? Forse la prima volta c’era arrivato per caso, e certo non pensava mica a scalpellare segni sulla pietra, ché poteva precipitare in un buco appena dietro l’angolo, e non era, il conte, d'indole bastarda come il suo discendente, e la sorpresa doveva essere stata notevole, genuina, Oibò, guarda un po’ dove sono arrivato, al centro della Terra! Ma ragioniamo un po’, ragioniamo un po’ per assurdo, tanto per perdere un altro po’ di tempo dalla clessidra spezzata, e se le tacche il conte primigenio le aveva incise nel suo primo, unico, irripetibile viaggio, come faceva a sapere che quella era la strada, quella la Via per toccare il centro del mondo e non un'altra, magari più lineare e quindi più economica. La soluzione del mistero delle tre tacche…
Forse il conte aveva con sé una capretta per mungere il latte, e un’enorme scorta di cavoli, e un lupo al guinzaglio, per difenderlo dalla paura del buio eterno; e avrà sospinto davanti a sé la capretta belante e impaurita fino al centro del mondo, non sia mai fosse caduto in un orrido precipizio, e arrivato al centro della terra aveva legato la mite capra ad una stalagmite, ed era tornato indietro in una folle corsa come un accolito in amok, e senza tirare il fiato di nuovo era tornato dentro al buco, portandosi con sé questa volta il fedele lupo, ma nel risalire alla superficie il conte scaltro aveva inciso una tacca sul suolo petroso e quindi praticamente correva in discesa e ad occhi chiusi, e giunto al capolinea era sceso e risalito portando con sé la capretta, un tantino stressata a dire il vero, e lasciando solo al buio il povero lupo, che si mise disperato ad ululare di solitudine alla luna invisibile, nuovamente il conte aveva inciso una tacca accanto alla prima, messo fuori la testa dal buco era daccapo sceso giù in cantina lasciando la capra libera e felice a brucare la prima erba di una primavera islandese; ‘sta volta il conte si portava dietro il cavolo, che era quasi il tocco e qualcosa doveva pur mangiare, e andava per la sua strada seguendo le due tacche mangiando cavolo, a pranzo e a cena e pure a merenda, arrivato al fondo del mondo sentì il conte un po' di sete, dunque dovette tornare a riveder le stelle (e riprendersi la capra), e già che c’era, ché ci aveva preso gusto, incideva un’altra tacca accanto alle prime due sul suolo petroso. Finalmente al termine del suo settimo viaggio al centro del mondo, il conte Sak se ne stava seduto al buio, con accanto la capra, il lupo e la scorta di cavolo, e pensando a tutto il tempo trascorso andava scrivendo su un peso di piombo le sue memorie, ma come capita a tutti, un secondo prima era ancora vivo, ma un secondo dopo era già morto.

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