giovedì 21 gennaio 2010

Anabasi di una parola (finale)


Non c’entrerà nulla ma per la cronaca sto abborracciando e in fretta questo post con il sottofondo musicale di vecchie canzoni di Cat Stevens (Lady d'Arbanville, Rubylove, Tuesday's Dead, Morning Has Broken, Bitterblue, Moonshadow, Peace Train, Where do the children play? Hard Headed Woman, Wild World, Sad Lisa, Miles from Nowhere, Into White, Father and Son, Tea for the Tillerman, Angelsea, Ruins, Oh Very Young), perché sono arrivato alla soluzione del mistero dei misteri (critici patentati mangiatevi il fegato con contorno di crescione), e ho le ali ai piedi. Il mistero del post in particolare, il mistero contingente, è perché diavolo quel diavolo di Elio Vittorini non ha tradotto il termine bootlegger dalla frase ecc. E mi sono dato anche una risposta retorica, e cioè che Steinbeck attribuiva a questa parola un significato particolare, ma era solo un modo astuto per presentare un’altra parola che Steinbeck scrive, qualche pagina dopo, in corsivo, amok. A questo punto era inevitabile trovare una connessione tra le due magiche parole. C’era una volta l’America, ma non è non è mai stata l’America "vera", e non era ancora l’America dei film western di Sergio Leone, non era il mito di terza mano di Francesco Guccini, quel mito che svaniva nelle ombre sdraiate nelle immortali sere d’estate, non era neppure l’America di Bud Spencer e Terence Hill, ma c’erano una volta - Italia anni Trenta - due bei tipi, Elio Vittorini e Cesare Pavese, andavano inventando per se stessi soprattutto, e poi per il lettore il mito di una America mai esistita, infinita e deserta, una Terra Promessa più vera di quella inventata un tempo che è solo leggenda dal più grande raccontastorie del mondo (non era Silvio). E forse Melville e Steinbeck hanno scritto veramente romanzi ma non fa testo, chi se ne frega, fa testo quell’Italia di quel tempo là.
Ora, poiché sono fondamentalmente un pigro un ripetitivo e uno smemorato di collegno qui riporto, integralmente, un post scritto l’otto settembre dello scorso anno:

Il mondo magico (*) di Ernesto de Martino (etnologo e allievo di Benedetto Croce) inaugura nel 1948 la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” dell’Editore Einaudi. Per de Martino l’uomo primitivo è continuamente soggetto al rischio di perdere se stesso e di perdersi nel mondo. E’ interessante notare che per il de Martino del Mondo magico “la realtà, anche quella cosmica, è sempre storica, cioè condizionata dal livello della condizione umana. Così, per esempio, gli spiriti esistono per coloro che partecipano a un mondo magico, ma non possono esistere per gli spiritisti dell’Europa contemporanea, perché la nostra storia interdice l’esistenza oggettiva delle anime dei defunti; per conseguenza è oggettivamente possibile ad uno stregone primitivo parlare con i morti, ma la voce dei morti non può esistere per gli spiritisti moderni” (**). Sembra l’idea per la trama di un film comico. Volendo si potrebbe pensare che l’uomo primitivo, per il de Martino, è come un cane portato al guinzaglio che impaurito, da cause per noi risibili, si libera dal collare e guinzaglio (il debole io del primitivo) e fugge fino a sparire all’orizzonte, sordo ai richiami dell’io, salvo poi tornare, svanita la paura, in cerca del padrone (l’io sapiens-sapiens) e come se nulla fosse stato, come se tutto fosse solo un sogno. La magia allora è come l’amore che lega il cane al padrone, ed è più forte del guinzaglio. Ma questo mio pensiero rende troppa grazia alla stramba teoria di Ernesto de Martino.
Teoria che fu attaccata dal Croce, negatore dell’idea che si potesse “cangiare l’idea stessa del cangiamento”, dell'idea eretica - ma no, siamo tutti amici - che si potesse storicizzare le categorie dello spirito (***). Effettivamente è strano (molto strano) che una presenza debole e sempre sul punto di svenire istericamente possa avere la forza di piegare i cucchiaini del caffè con la sola forza bruta del pensiero (anche perché il caffè non era stato ancora inventato in quei tempi bui; forse la cicoria, ma non il caffè). Comunque, passano gli anni, cangiano le mode (de Martino intanto beve la cicuta) ma nel 1959 Italo Calvino scrive Il cavaliere inesistente, e sembra un plagio del Mondo magico. Vedi il personaggio di Gurdulù che si immedesima nelle cose e negli animali, fino a perdersi nelle cose e negli animali. Mangia la zuppa e diventa la zuppa che mangia Gurdulù. Come in una fiaba, cioè come in un incubo, Gurdulù sarà assegnato come scudiero al cavaliere inesistente. Il medioevo per Calvino “era un’epoca in cui la volontà e l’ostinazione d’esserci, di marcare un’impronta, di fare attrito con tutto ciò che c’è, non veniva usata interamente, dato che molti non se ne facevano nulla […] Poteva pure darsi allora che in un punto questa volontà e coscienza di sé, così diluita, si condensasse, facesse grumo […] e questo grumo, per caso o per istinto, s’imbattesse in un nome e in un casato, come allora ne esistevano spesso di vacanti […] e – soprattutto – in un’armatura vuota, ché senza quella, coi tempi che correvano, anche un uomo che c’è rischia di scomparire, figuriamoci uno che non c’è…” (****).
Pare che anche la leggera scrittura di Calvino porti sulle spalle il fardello dell’idealismo. Nautilus che cambia continuamente casa restando sempre nella stessa casa.

Cos’è questo rischio del soggetto di perdere se stesso e di perdersi nel mondo, o in altre parole, da un altro punto di vista, perché la zuppa di avena vuole mangiare il bambino? Avete letto Calvin & Hobbes? Ok, questa esperienza di un soggetto che si trasforma in oggetto eravamo tutti noi, così è stato per ognuno di noi, quando eravamo gamberottoli e saltellavamo qua e là, come Calvin predato da Hobbes, e combattevamo chi con la purè di patate chi con il porridge chi con gli spinaci cotti.
E quella sensazione di essere un’allodola che vola alta nel cielo imprendibile e che sfida ogni analisi aveva pure un nome e più di uno (certo, nomi inventati dai primitivi per prendere per il culo gli etnologi), probabilmente oggi è una malattia psichica cronica inventata da psicologi per prendersi per il culo. In quel tempo mitico quella malattia si chiamava latah, olon, irkunii, amurak, menkeiti, imu, e amok. I debiti si pagano (prima o poi). Tutti i nodi vengono al pettine. Quel che è fatto sarà reso. Le azioni ricadono sempre su chi le commette. E tra dire e fare c'è di mezzo il mare. Calvino andava plagiando de Martino, e de Martino andava plagiando Steinbeck che non è mai esistito, inventato da Elio Vittorini.
Forse è da lì che dobbiamo prendere le mosse per la soluzione del mistero. Volando con le ali dell’immaginazione vediamo quel mito sbriciolarsi come un castello di sabbia in balia delle onde di un mare cambriano, vediamo una città giocattolo di sassi e ramoscelli nascosta tra le foglie gialle e rosse di un bosco in autunno. I lettori non sanno di essere stati giocati da due veri gangster della parola. Bootlegger, amok sono solo parole magiche, e loro e i lettori giocavano con queste parole e mille altre come il mio cane giocava in autunno con i frutti degli ippocastani. I ricci esplodevano cadendo sul marciapiede bagnato svelando lucidi e duri tesori, che dicono portano fortuna se si conservano per un anno. Facevano un gran baccano i ricci cadendo, a tre o quattro per volta, sui cofani delle auto in sosta. Il mio cane non sapeva di essere ingannato dall'Autunno, era assolutamente convinto che quell’accadimento fosse uno spettacolo straordinario, allestito solo per lui e che sarebbe durato una stagione infinita. Oh very young.


(*) E. de Martino, Il mondo magico (U.S. Boringhieri, 1981)
(**) M. Eliade, Scienza, idealismo e fenomeni paranormali (in Il mondo magico)
(***) B. Croce, Intorno al magismo come età storica (in Il mondo magico)
(****) Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959
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