Come passa il tempo solo ieri andavamo in giro con maglioni di lana e sciarpe e scarponi con sotto la mota e cappottoni da milite ignoto e oggi c'è questo sole polveroso, promessa di una stagione di leggerezza infinita e vediamo le strade secondarie deserte libere correre i cani senza guinzaglio…
Solo ieri...
E poi c’erano quelle strisce abitate da insopportabili gamberottoli con la testa tonda, che parlavano e pensavano come vecchi pensionati disillusi delle donne e dal governo; menavano a spasso un bracchetto senza guinzaglio, saggio e petulante nella sua mutezza di sfinge egizia. Dormiva il bracchetto nasuto, sdraiato a pancia all’aria sul tetto della cuccia in giardino, e sognava di essere l’eroico avversario in combattimenti del barone rosso in un cielo di piombo.
Poi con gli anni Ottanta sono venuti i Simpson: codesta famigliola americana con padre obeso infartuato teledipendente, madre idiota blaterante con capelli blu ritti in testa come un cespuglio ardente, e due figli metodicamente inetti, in un verso o nell'altro, più una bimba ancora libera nella sua incapacità di parlare davanti agli esami della vita. Cane, gatto e nonno con dentiera sbrodolosa completano la serie della famiglia delle figurine gialle. Attorno un contorno di umanità metodicamente assurda, il barista racchio, il ciccione sbronzo, il preside ex berretto verde con madre arpia, la maestra tabagista, l’ispettore scolastico pomposo, il vecchio padrone della centrale nucleare e il suo affezionato portaborse, ecc. Dall’altra parte del secolo passato, in Italia, c’era un certo Vamba e il suo Giornalino con le pìstole di Omero Redi, e tanti altri collaboratori più o meno illustri: “Pirandello, Serao, Salgari, Fucini, Mascagni, Ojetti, Pascoli, Capuana, Aleramo e molti altri” (L' educazione dei fanciulli da Gian Burrasca ai Simpson, M. Serra, Repubblica, 05 marzo 2006). Dietro il Giornalino di Gian Burrasca c'era tutta la letteratura d'evasione del "ragazzo cattivo" di radice americana (Bad Boys), così, anche se in tono minore, nelle Pìstole di Omero:
“…era dispettoso, come anche col gatto che lo verniciava di verde da persiane quando gli riusciva sulla schiena e quella povera bestia restava delle settimane rimbecillita” (Pìstola di Omero, VII).
Sarebbe interessante sapere nella lettura di quale numero romano di lettera di Omero Redi, Vamba capì che l'autore non era un ragazzino delle elementari ma un adulto, anzi peggio un letterato, papirologo e professore di greco e latino (oltre che prete), cioè l'interventista e poi fascista Ermenegildo Pistelli. Forse fu allora che le pìstole si appesantirono di allusioni e citazioni e visite a poeti, e tanti nomi di ragazzi, ex lettori del pedagogico Giornalino e poi per sempre medaglie d’oro alla memoria.
Buon vecchio pipistrello, il Pistelli e le sue citazioni allusive a grappolo, sembra sia stato il maestro di tutta l'intelligenza italiana di quei tempi là, e chi l'ebbe alle elementari e chi all'università: nessuno scampò: tutti andarono - convinti - alla guerra (la Grande Guerra). I contadini, i popolani, la gente del Quartiere, insomma quelli che non leggevano il Giornalino di Vamba (come i poco svegli che non hanno mai letto Linus, preferendogli Topolino) poi alla Guerra ci andarono comunque, ma a calci in culo.
Buon vecchio lucertolo, il Vamba, così scrive di lui l'Omero, nella pìstola LIX: "Se tu t'accosti a un gruppo di bambine, senti che anche loro parlano della guerra, ma la mescolano con mille argomenti molto panciafichisti... A proposito: solamente per avere inventata questa parola ti dovrebbero caro Vamba fare accademico della Crusca". Uno più, uno meno.
E quell’immagine incombente del buon prete dietro le spalle del ragazzino cattivo O.R. che assorto scrive la pìstola al Vamba (come si vede sulla copertina del libro, disegnata da Vittorio Corcos), oggi non sarebbe più editabile: pedofilo docet? Eppure il Serra scrive: “il mezzo secolo che va dal Giornalino di Gian Burrasca (l' opera più celebre di Vamba) alla comparsa della televisione fu assai più breve del mezzo secolo che va da Giovanna la nonna del corsaro nero ai reality show, al wrestling, a M-tv. Come dire che due guerre mondiali, il fascismo, la rivoluzione russa, hanno potuto incidere sui costumi e sulle attitudini dell' Occidente assai meno di quanto sono riusciti a fare il consumismo e la società dello spettacolo.” E poi conclude tutto contento con una “buona notizia”, una buona novella, che ancora esiste una pedagogia, in queste storie in carta e in digitale, infatti, se ieri il cognato socialista di Gianburrasca si sposava in chiesa di nascosto, oggi Bart Simpson potrebbe guardarsi le spalle nell'entrare in una chiesa cattolica. Eppure io ci vedo sempre codesto prete sorridente, appostato come un grosso grillo saggio, alle spalle del ragazzino cattivo, sempre lì che batte sull'incudine. Sempre questa coscienza deformata nella forgia oggi del marketing ieri delle ideologie e sempre con modello un Bene a lunga scadenza... già, come il latte parmalat.
Scusate, ma io preferisco Calvin & Hobbes.
E poi, una così lampante illuminante folgorante evoluzione nei costumi in Italia, boh... mica la vedo, basta guardare Striscia la notizia con uno dei tanti servizi sui canili-lager.
E il gatto o il cane o il diversamente abile vengono sempre allegramente spennellati sulla schiena con vernice verde da persiana e messi su youtube da simpatiche canaglie.
Se un cuore intatto e una coscienza deformata entrano in conflitto allora la coscienza viene sconfitta (Mark Twain).
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mercoledì 28 aprile 2010
lunedì 19 aprile 2010
Assurdo diario di mago Merlino
Siamo turisti in giro per le strade di una magica città; una città che alterna larghe e lunghe vie, come magliette a trippa di gatto, a strette e contorte viuzze, viottole, e antichi palazzi non finiti a condomini di cinque e sei e trentasei piani, polverosi musei e tronfie gallerie a botteghe di cianciafruscole sparpagliate sul marciapiede. All’orizzonte le torri rosse delle officine si stagliano nel blu del cielo estivo. Sulla strada si affacciano banche e banchi di ortolani, grassi pizzicagnoli e ombrosi fornai, librerie antiquarie e straccivendoli, enigmatiche insegne, pizzerie da asporto, mestiche e mesticherie. Tiriamo fuori la nostra magica macchina digitale e cominciamo a scattare istantanee: ad una fontanella secca posta sul canto di una stradina che s’affina nell’ombra fresca e umida; ad un monumento equestre pazientemente zebrato da generazioni di piccioni stanziali; ad un portico in prospettiva (luci e ombre, ombre e luci); ad un pittoresco muro crostoso e ammuffito che ci nasconde la vista di un silente giardino di periferia; alle nuvole che si dipanano lente in alto nel cielo blu.
È una sera d’estate. Dall’ombra profonda e blu planano, sopra le nostre teste, le misteriose parole quotidiane, e suoni di piatti e di posate, Chopin su un Yamaha B3 scherza e ride con un Hendrix digitale, e uno isterico speaker divide e impera sui fatti del giorno quasi andato, Filippo ha le placche in gola. In strada, all’ombra di un albero, sonnecchia indifferente un gatto soriano. Filippo ha le placche in gola, e allora? e con questo? embè? E dove, dove sta Zaza? Un cane boxer maschio si accuccia per urinare l’orina accumulata in un pomeriggio di tedio e noia, prima guarda assorto all'orizzonte poi lancia un'occhiata al padrone che gli dice, bravo, bravo, bravo, è che non ha ancora imparato che deve alzare la zampa se vuole segnare il territorio. E una ragazza ci passa accanto, Tutte le kose k hai detto sn vere sekondo me, ma non lo dice a noi, che siamo solo turisti in giro per le strade di questa magica città, ecc. E le ombre della sera si allungano e sembrano ghignanti demoni etruschi, ci circondano e ci proteggono, e anche a noi si allungano le gambe e sembriamo tanti ragni in giro per le strade di questa magica città, ecc. Coloriamo le strade di un assurdo blu oltremare.
Il demone etrusco avvolge le nere e membranose ali in posizione di riposo e ci squittisce come un topo nelle orecchie; chiediamo a Renzo Tramaglino di tradurre i versi del demone, dice, è ora di porre immediatamente alla guida la domanda che avete pensato e sognato stanotte: ma ‘sta città immortale è una wunderkammer, cioè un labirinto, o è un frattale? E se è una wunderkammer, allora dove dov’è la via di fuga? (se la storia della Vita è un database di storie Grandi e piccine, ed ogni singola storia è un elenco di mosse e contromosse sulla scacchiera del Mondo, e le cui azioni e reazioni non sono mai isolate ma sempre vincolate ad altre mosse e contromosse di storie passate, presenti e future, allora questo presente esiste solo se è esistito il passato, e solo se è possibile raccontare il passato, con un tempo imperfetto? solo se è possibile immaginare un futuro).
Ma noi manco ascoltiamo la risposta della barbarica guida con la patata in bocca, che si sta pure incartando nel tentativo di meravigliarci con la Visione di una rovina etruscogrecoromanapisciosa in controluce e nella luce di aprile, manco morti, piuttosto ci guardiamo attorno, alla ricerca di un bestiario, di un bestio, di uno zoo alieno, alé ecco sotto l’albero un opportunista gatto, soriano. Che fa testo? chiediamo al demone etrusco con nere ali, di pipistrello. Ratto e brusco ci risponde, e che sono io mago Merlino?
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È una sera d’estate. Dall’ombra profonda e blu planano, sopra le nostre teste, le misteriose parole quotidiane, e suoni di piatti e di posate, Chopin su un Yamaha B3 scherza e ride con un Hendrix digitale, e uno isterico speaker divide e impera sui fatti del giorno quasi andato, Filippo ha le placche in gola. In strada, all’ombra di un albero, sonnecchia indifferente un gatto soriano. Filippo ha le placche in gola, e allora? e con questo? embè? E dove, dove sta Zaza? Un cane boxer maschio si accuccia per urinare l’orina accumulata in un pomeriggio di tedio e noia, prima guarda assorto all'orizzonte poi lancia un'occhiata al padrone che gli dice, bravo, bravo, bravo, è che non ha ancora imparato che deve alzare la zampa se vuole segnare il territorio. E una ragazza ci passa accanto, Tutte le kose k hai detto sn vere sekondo me, ma non lo dice a noi, che siamo solo turisti in giro per le strade di questa magica città, ecc. E le ombre della sera si allungano e sembrano ghignanti demoni etruschi, ci circondano e ci proteggono, e anche a noi si allungano le gambe e sembriamo tanti ragni in giro per le strade di questa magica città, ecc. Coloriamo le strade di un assurdo blu oltremare.
Il demone etrusco avvolge le nere e membranose ali in posizione di riposo e ci squittisce come un topo nelle orecchie; chiediamo a Renzo Tramaglino di tradurre i versi del demone, dice, è ora di porre immediatamente alla guida la domanda che avete pensato e sognato stanotte: ma ‘sta città immortale è una wunderkammer, cioè un labirinto, o è un frattale? E se è una wunderkammer, allora dove dov’è la via di fuga? (se la storia della Vita è un database di storie Grandi e piccine, ed ogni singola storia è un elenco di mosse e contromosse sulla scacchiera del Mondo, e le cui azioni e reazioni non sono mai isolate ma sempre vincolate ad altre mosse e contromosse di storie passate, presenti e future, allora questo presente esiste solo se è esistito il passato, e solo se è possibile raccontare il passato, con un tempo imperfetto? solo se è possibile immaginare un futuro).
Ma noi manco ascoltiamo la risposta della barbarica guida con la patata in bocca, che si sta pure incartando nel tentativo di meravigliarci con la Visione di una rovina etruscogrecoromanapisciosa in controluce e nella luce di aprile, manco morti, piuttosto ci guardiamo attorno, alla ricerca di un bestiario, di un bestio, di uno zoo alieno, alé ecco sotto l’albero un opportunista gatto, soriano. Che fa testo? chiediamo al demone etrusco con nere ali, di pipistrello. Ratto e brusco ci risponde, e che sono io mago Merlino?
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martedì 13 aprile 2010
Con quello sguardo neghittoso negli occhi

Con quello sguardo neghittoso negli occhi,
Odx sospeso per sette (7) giorni
Odx sospeso per sette (7) giorni
salta la palizzata a ore undici e scivola su laccature ematiche pavimentose,
mi dice, tra congiuntivi e congiuntive,
io spero che me la cavo.
pkTEX
Texture: O-11 su texture A-c (zoom=21, punti=500)
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mi dice, tra congiuntivi e congiuntive,
io spero che me la cavo.
pkTEX
Texture: O-11 su texture A-c (zoom=21, punti=500)
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martedì 6 aprile 2010
Festa del grillo
Come corre il tempo, ieri era appena Pasqua con la colombina e l’ovetto kinder di cioccolato (ché l'estate batte alle porte), è oggi mancano meno di 40 giorni alla festa del grillo alle Cascine.
Esiste ancora una minoranza di alieni interessati solo all’arte e alle tradizioni popolari? Un tempo c’era sempre qualche alieno in giro per gli Uffizi, su e giù per il Ponte Vecchio, per via Tornabuoni, per Corso Tintori, per via degli Avelli, in giro ad assistere a qualche genuina manifestazione cittadina che si perdeva nella notte dei tempi, per esempio la festa del grillo.
I babbi etruschi già nel 59 a.C. cacciavano i grilli nel prato delle Cascine, e dopo averli chiusi in gabbiette li recavano in dono ai bimbi. Ritornavano dalla polvere, i bimbi, e uscivano dalle urne di pozzolana per ascoltare il cri-cri del grillo. Un’antica consuetudine, più forte della Costituzione Leopoldina, più antica del cucco, più magica di un incantesimo di mago Merlino, esigeva che il ragazzino buono, allo scoccare della mezzanotte, liberasse il povero grillino nei verdi prati delle Cascine, o nel giardinetto di fronte casa, o sulle piastrelle in cotto dell’Impruneta del terrazzino di pozzolana, o nel secchio marrone della spazzatura organica, cri-cri, ringraziava il grillino riconoscente, con la lacrima al ciglio. Allo scoccare della mezzanotte in punto il ragazzino cattivo aveva da un pezzo schiacciato il grillo sotto il tacco, cri-cri-krok! Libero, tutta la notte, di giocare con la playstation in travertino, o manducare gelati all’Etruscheria.
Con il passare degli anni, impoverendosi i polverosi prati cittadini di grilli e allargandosi le cinte della città e delle brache bianche dei babbi romani e tardomedievali (quest'ultimi nerovestiti e con gli occhi bianchi), svegli commercianti in lenticchie di vetro s’inventarono un mestiere: cacciatori di grilli sul monte Cantagrilli; li vendevano sfusi o in gabbietta per la gioia dei bimbi, ferocemente selettivi nello scegliere il sesso del grillo, rigorosamente maschile, e la lunghezza spropositata delle antenne. Era capitato più di una volta che un alieno grilloforme del sistema di Saiph fosse catturato sul monte Cantagrilli, ingabbiato e venduto come uno schiavo babilonese in catene al mercatino del martedì alle Cascine. Non in grado, l’alieno, di evocare il tipico suono benaugurale, come i suoi morfologici compagni di sventura, trascorreva in ambasce e angosce (con le galosce?) la nottata, tra scuotimenti e sbatacchiamenti alla casetta-gabbietta; ma non era solo - purtroppo - accanto c’era il suo Carma, che vegliava e studiava, studiava e sudava tra telescopio, alambicchi e antichi trattati di magia, chiromanzia, alchimia, egittologia ermetica, settimana enigmistica. Studiava, il signor Carma, se liberare l’alieno-grillo alle Cascine, nel giardinetto di fronte casa, sulle mattonelle in cotto dell’Impruneta, nel secchio marrone della spazzatura organica, o mandarlo al tacchificio.
Quello del grillaio, era un mestiere tramandato con orgoglio di padre in figlio. Un mestiere di cui Firenze era famosa nel mondo, ma un triste giorno del 1999 un assessore comunale, malato di “fondamentalismo animalista, malpancista e smanioso di liberare il mondo tutto e subito” (*), decise di cancellare, vietando il mercato dei grilli, con la motivazione di crudeltà mentale nei confronti dell’insetto (i grilli furono sostituiti da simulacri in ceramica, sonori o muti).
Nessuno sa con precisione cosa ci poteva vedere un alieno pipistrelliforme di Rigel nel Tondo Doni di Michelangelo (e neppure Stendhal), o in un tondone di farina gialla, e che dire della festa della rificolona e della cantonata presa dall’alieno pidocchioforme del sistema di Aldebaran? La mia la ci ha i fiocchi, ma la tua la ci ha i pidocchi, cantavano i ragazzini in strada, e l’alieno pidocchioforme, tornato a casa, elogiava la meravigliosa esterofilia dei ragazzini fiorentini, in una lettera al direttore del Giornale di Aldebaran.
Esistevano cunicoli spazio-temporali che si aprivano nella Firenze della rivolta dei Ciompi, nella città rinascimentale immortalata nella Vita del Cellini, cunicoli che permettevano agli alieni di imbattersi in Leonardo da Vinci che piega un ferro di cavallo con le mani; osservare di nascosto Masaccio – maglione a girocollo e berretto col ponpon – dipingere la "Cacciata dal Paradiso", con Masolino, vestito e calzato tutto di verde ramarro, nascosto in un angolo della Cappella Brancacci, che mugugna che è tutto sbagliato che è tutto da rifare. Cunicoli che permettevano di calpestare le strade di fango di un villaggio, in località Rifredi, nell’anno 1002, e incespicare in una gallina dal feroce occhio inquisitore d’ispettore generale, urtare con il ginocchio il groppone di un inquieto, malpancista maialino bianco e nero, alla ricerca di una patata fondamentalista, al di là delle Colonne d’Ercole. Assistere al falò delle vanità, erano bruciati quadri, libri, vesti, mobili intarsiati in scagliola, i panni e i cenci dei partecipanti del Grande Fratello e i partecipanti dell’Isola dei Famosi. Arrostire un Eusthenopteron sulla spiaggia di Monte Morello davanti a un mare cambriano, dalle acque trasparenti come una lastra di cristallo. Uscir di casa da un portone e sbucare nell’anno 1870, al limitare estremo del parco delle Cascine, dove il torrente Mugnone incontra l’Arno, e assistere, in prima fila tra le autorità cittadine, al rogo di Rajaram Cuttraputti, marajà di Kolepoor, che di ritorno da un viaggio turistico in Inghilterra morì a Firenze, e secondo il rito braminico fu arso alla confluenza dei due fiumi (ok, uno è un torrente, e l’altro finge di essere un fiume).
(*) Così ho letto su un blog tempo fa. Qualche esempio di fondamentalismo animalista, dal regolamento comunale sulla tutela degli animali: E’ vietato mettere in atto qualsiasi maltrattamento o comportamento lesivo nei confronti degli animali; E’ vietato tenere gli animali in spazi angusti e/o privi dell’acqua e del cibo necessario o sottoporli a rigori climatici tali da nuocere alla loro salute; E’ vietato tenere animali in isolamento e/o condizioni di impossibile controllo quotidiano del loro stato di salute o privarli dei necessari contatti sociali tipici della loro specie; E’ vietato tenere animali in terrazze o balconi per più di otto ore giornaliere, isolarli in rimesse o cantine oppure segregarli in contenitori o scatole, anche se poste all’interno dell’appartamento; ecc.
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Esiste ancora una minoranza di alieni interessati solo all’arte e alle tradizioni popolari? Un tempo c’era sempre qualche alieno in giro per gli Uffizi, su e giù per il Ponte Vecchio, per via Tornabuoni, per Corso Tintori, per via degli Avelli, in giro ad assistere a qualche genuina manifestazione cittadina che si perdeva nella notte dei tempi, per esempio la festa del grillo.
I babbi etruschi già nel 59 a.C. cacciavano i grilli nel prato delle Cascine, e dopo averli chiusi in gabbiette li recavano in dono ai bimbi. Ritornavano dalla polvere, i bimbi, e uscivano dalle urne di pozzolana per ascoltare il cri-cri del grillo. Un’antica consuetudine, più forte della Costituzione Leopoldina, più antica del cucco, più magica di un incantesimo di mago Merlino, esigeva che il ragazzino buono, allo scoccare della mezzanotte, liberasse il povero grillino nei verdi prati delle Cascine, o nel giardinetto di fronte casa, o sulle piastrelle in cotto dell’Impruneta del terrazzino di pozzolana, o nel secchio marrone della spazzatura organica, cri-cri, ringraziava il grillino riconoscente, con la lacrima al ciglio. Allo scoccare della mezzanotte in punto il ragazzino cattivo aveva da un pezzo schiacciato il grillo sotto il tacco, cri-cri-krok! Libero, tutta la notte, di giocare con la playstation in travertino, o manducare gelati all’Etruscheria.
Con il passare degli anni, impoverendosi i polverosi prati cittadini di grilli e allargandosi le cinte della città e delle brache bianche dei babbi romani e tardomedievali (quest'ultimi nerovestiti e con gli occhi bianchi), svegli commercianti in lenticchie di vetro s’inventarono un mestiere: cacciatori di grilli sul monte Cantagrilli; li vendevano sfusi o in gabbietta per la gioia dei bimbi, ferocemente selettivi nello scegliere il sesso del grillo, rigorosamente maschile, e la lunghezza spropositata delle antenne. Era capitato più di una volta che un alieno grilloforme del sistema di Saiph fosse catturato sul monte Cantagrilli, ingabbiato e venduto come uno schiavo babilonese in catene al mercatino del martedì alle Cascine. Non in grado, l’alieno, di evocare il tipico suono benaugurale, come i suoi morfologici compagni di sventura, trascorreva in ambasce e angosce (con le galosce?) la nottata, tra scuotimenti e sbatacchiamenti alla casetta-gabbietta; ma non era solo - purtroppo - accanto c’era il suo Carma, che vegliava e studiava, studiava e sudava tra telescopio, alambicchi e antichi trattati di magia, chiromanzia, alchimia, egittologia ermetica, settimana enigmistica. Studiava, il signor Carma, se liberare l’alieno-grillo alle Cascine, nel giardinetto di fronte casa, sulle mattonelle in cotto dell’Impruneta, nel secchio marrone della spazzatura organica, o mandarlo al tacchificio.
Quello del grillaio, era un mestiere tramandato con orgoglio di padre in figlio. Un mestiere di cui Firenze era famosa nel mondo, ma un triste giorno del 1999 un assessore comunale, malato di “fondamentalismo animalista, malpancista e smanioso di liberare il mondo tutto e subito” (*), decise di cancellare, vietando il mercato dei grilli, con la motivazione di crudeltà mentale nei confronti dell’insetto (i grilli furono sostituiti da simulacri in ceramica, sonori o muti).
Nessuno sa con precisione cosa ci poteva vedere un alieno pipistrelliforme di Rigel nel Tondo Doni di Michelangelo (e neppure Stendhal), o in un tondone di farina gialla, e che dire della festa della rificolona e della cantonata presa dall’alieno pidocchioforme del sistema di Aldebaran? La mia la ci ha i fiocchi, ma la tua la ci ha i pidocchi, cantavano i ragazzini in strada, e l’alieno pidocchioforme, tornato a casa, elogiava la meravigliosa esterofilia dei ragazzini fiorentini, in una lettera al direttore del Giornale di Aldebaran.
Esistevano cunicoli spazio-temporali che si aprivano nella Firenze della rivolta dei Ciompi, nella città rinascimentale immortalata nella Vita del Cellini, cunicoli che permettevano agli alieni di imbattersi in Leonardo da Vinci che piega un ferro di cavallo con le mani; osservare di nascosto Masaccio – maglione a girocollo e berretto col ponpon – dipingere la "Cacciata dal Paradiso", con Masolino, vestito e calzato tutto di verde ramarro, nascosto in un angolo della Cappella Brancacci, che mugugna che è tutto sbagliato che è tutto da rifare. Cunicoli che permettevano di calpestare le strade di fango di un villaggio, in località Rifredi, nell’anno 1002, e incespicare in una gallina dal feroce occhio inquisitore d’ispettore generale, urtare con il ginocchio il groppone di un inquieto, malpancista maialino bianco e nero, alla ricerca di una patata fondamentalista, al di là delle Colonne d’Ercole. Assistere al falò delle vanità, erano bruciati quadri, libri, vesti, mobili intarsiati in scagliola, i panni e i cenci dei partecipanti del Grande Fratello e i partecipanti dell’Isola dei Famosi. Arrostire un Eusthenopteron sulla spiaggia di Monte Morello davanti a un mare cambriano, dalle acque trasparenti come una lastra di cristallo. Uscir di casa da un portone e sbucare nell’anno 1870, al limitare estremo del parco delle Cascine, dove il torrente Mugnone incontra l’Arno, e assistere, in prima fila tra le autorità cittadine, al rogo di Rajaram Cuttraputti, marajà di Kolepoor, che di ritorno da un viaggio turistico in Inghilterra morì a Firenze, e secondo il rito braminico fu arso alla confluenza dei due fiumi (ok, uno è un torrente, e l’altro finge di essere un fiume).
(*) Così ho letto su un blog tempo fa. Qualche esempio di fondamentalismo animalista, dal regolamento comunale sulla tutela degli animali: E’ vietato mettere in atto qualsiasi maltrattamento o comportamento lesivo nei confronti degli animali; E’ vietato tenere gli animali in spazi angusti e/o privi dell’acqua e del cibo necessario o sottoporli a rigori climatici tali da nuocere alla loro salute; E’ vietato tenere animali in isolamento e/o condizioni di impossibile controllo quotidiano del loro stato di salute o privarli dei necessari contatti sociali tipici della loro specie; E’ vietato tenere animali in terrazze o balconi per più di otto ore giornaliere, isolarli in rimesse o cantine oppure segregarli in contenitori o scatole, anche se poste all’interno dell’appartamento; ecc.
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lunedì 5 aprile 2010
Mattina di pasquetta

Mattina di pasquetta, sta spiovendo; ma la mattina di pasquetta sono aperti i barbieri? (di sicuro sono chiusi i bar).
PkJuM 5
Parametri:
(Insieme di Julia di z^2+c)
steps=100
3 colori (ff0000, 0000ff, e7e7e7)
PkJuM 5
Parametri:
(Insieme di Julia di z^2+c)
steps=100
3 colori (ff0000, 0000ff, e7e7e7)
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Sera di Pasqua
sabato 3 aprile 2010
Oltre Silvio
Un link per ricordarci, non tanto dove avete parcheggiato, ma che - a parte Silvio & Santoro -esistono ancora i piani regolatori delle città e l'arte.
E le due cose dovrebbero coincidere (cioè non Silvio & Santoro, ma le ultime due che ho scritto).
E le due cose dovrebbero coincidere (cioè non Silvio & Santoro, ma le ultime due che ho scritto).
Riflessioni davanti a una finestra senza vetri
La ricerca in Internet è spesso incerta perché in certi casi è veramente difficile (se non impossibile) ottenere un’informazione in un tempo umano. Ecco un esempio. Nella Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine a Firenze è presente in un affresco, dipinto da Masolino (1383-1440), raffigurante un episodio degli atti degli apostoli, una veduta urbana presa dalla vita quotidiana con uno strano particolare di cui dirò più in là. Questa veduta cittadina è attribuita al pittore Masaccio (1401-1428), ed è probabilmente la prima visione realistica di un paesaggio urbano nella storia dell’arte occidentale, anche se «sarebbe impossibile (e arbitrario) procedere ad una precisa localizzazione, nella Firenze dell’epoca, di questa fila di case alte, tetre, addossate l’una all’altra, con le finestre aperte sull’oscurità degli interni e i panni messi a prender aria sui davanzali, di queste viuzze soffocate dai ballatoi». (1)
I palazzi cittadini, nella Firenze a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, sono in genere alti tre piani (piano terreno, più due piani). Il piano terreno è destinato ai servizi, e prende luce dall’esterno tramite piccole e rade finestrelle difese da robuste inferriate; il primo piano è il piano nobile, abitato dalla famiglia; il secondo piano è costituito da ambienti meno frequentati, ad esempio camere per ragazzi e alloggi per domestici. Le finestre sono generalmente chiuse da due robuste imposte di legno (gli usci) che ruotavano verso l’interno. Talvolta, nelle case dei ricchi o almeno dei benestanti, oltre alle imposte, c’erano le «impannate», cioè «pezze di tela leggera cerata e oliata e fissata con bullette a telai di legno […]. Per solito si lasciava alle impannate la tinta naturale, il bianco; ma ve n’erano anche di dipinte» (2). L’impiego di lastre di vetro per le finestre era invece molto raro in Italia, ancora nel corso del Cinquecento.
Se osserviamo con attenzione le case dipinte da Masaccio nell’affresco del Carmine, oltre alla fedele rappresentazione visiva di quanto sopra riportato, abbiamo un’ulteriore prova dello straordinario realismo del pittore: all’ultimo piano della casa, situata quasi al centro dell’affresco, è dipinto, sopra la cornice marcapiano, uno strano animaletto, legato ad una catenella; cos’è? Sappiamo che «agli arpioni da stanghe, o alle stanghe stesse [delle case], venivano attaccati al guinzaglio certi animali domestici, come cani e bertucce, lasciati a prendere aria sui davanzali delle finestre» (3).
Dunque è un cane o una scimmietta, forse il compagno di giochi di un ragazzo, che abitava quella camera all’ultimo piano, intorno alla metà del terzo decennio del Quattrocento.
Vi sfido a cercare su Google questa informazione, senza però descrivere – con precisione - lo strano animaletto dipinto: l’impresa sarà vana come cercare uno stuzzicadenti in un raduno di formichieri. E forse l’informazione è presente in Internet: due passi più in là, appena girato l’angolo. (*)
Qualche riflessione finale. Nella Firenze del Quattrocento solo i benestanti si potevano permettere le pezze di tela alle finestre, i ricchi (i vari strozzi, medici e bischeri assortiti) addirittura i vetri (però con le bolle d’aria), mentre i poveri andavano in giro - allora - con le pezze al culo.
E che dire della miope riservatezza dei fiorentini? Forse è un carattere genetico recessivo collegato - appunto - alla miopia; vedi il condomino di casa, miope e tignoso, aprire gli scuri e con ancora la cispa agli occhi salutare una mattina di aprile del 1416 (mentre inzuppa un Buondì classico nel cappuccino), restando però nel dubbio se rispondere al saluto del coso peloso sul davanzale: è il figlio del vicino o la sua scimmia al guinzaglio?
(*) Claudio Piccini, Opus incerta, Lampi di stampa, 2007
(1) Federico Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi, 1989, p. 6.
(2) Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città, Vallecchi, 1973, pp. 152-153.
(3) Giovanni Fanelli, Op. cit., p. 154.
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I palazzi cittadini, nella Firenze a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, sono in genere alti tre piani (piano terreno, più due piani). Il piano terreno è destinato ai servizi, e prende luce dall’esterno tramite piccole e rade finestrelle difese da robuste inferriate; il primo piano è il piano nobile, abitato dalla famiglia; il secondo piano è costituito da ambienti meno frequentati, ad esempio camere per ragazzi e alloggi per domestici. Le finestre sono generalmente chiuse da due robuste imposte di legno (gli usci) che ruotavano verso l’interno. Talvolta, nelle case dei ricchi o almeno dei benestanti, oltre alle imposte, c’erano le «impannate», cioè «pezze di tela leggera cerata e oliata e fissata con bullette a telai di legno […]. Per solito si lasciava alle impannate la tinta naturale, il bianco; ma ve n’erano anche di dipinte» (2). L’impiego di lastre di vetro per le finestre era invece molto raro in Italia, ancora nel corso del Cinquecento.
Se osserviamo con attenzione le case dipinte da Masaccio nell’affresco del Carmine, oltre alla fedele rappresentazione visiva di quanto sopra riportato, abbiamo un’ulteriore prova dello straordinario realismo del pittore: all’ultimo piano della casa, situata quasi al centro dell’affresco, è dipinto, sopra la cornice marcapiano, uno strano animaletto, legato ad una catenella; cos’è? Sappiamo che «agli arpioni da stanghe, o alle stanghe stesse [delle case], venivano attaccati al guinzaglio certi animali domestici, come cani e bertucce, lasciati a prendere aria sui davanzali delle finestre» (3).
Dunque è un cane o una scimmietta, forse il compagno di giochi di un ragazzo, che abitava quella camera all’ultimo piano, intorno alla metà del terzo decennio del Quattrocento.
Vi sfido a cercare su Google questa informazione, senza però descrivere – con precisione - lo strano animaletto dipinto: l’impresa sarà vana come cercare uno stuzzicadenti in un raduno di formichieri. E forse l’informazione è presente in Internet: due passi più in là, appena girato l’angolo. (*)
Qualche riflessione finale. Nella Firenze del Quattrocento solo i benestanti si potevano permettere le pezze di tela alle finestre, i ricchi (i vari strozzi, medici e bischeri assortiti) addirittura i vetri (però con le bolle d’aria), mentre i poveri andavano in giro - allora - con le pezze al culo.
E che dire della miope riservatezza dei fiorentini? Forse è un carattere genetico recessivo collegato - appunto - alla miopia; vedi il condomino di casa, miope e tignoso, aprire gli scuri e con ancora la cispa agli occhi salutare una mattina di aprile del 1416 (mentre inzuppa un Buondì classico nel cappuccino), restando però nel dubbio se rispondere al saluto del coso peloso sul davanzale: è il figlio del vicino o la sua scimmia al guinzaglio?
(*) Claudio Piccini, Opus incerta, Lampi di stampa, 2007
(1) Federico Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Einaudi, 1989, p. 6.
(2) Giovanni Fanelli, Firenze architettura e città, Vallecchi, 1973, pp. 152-153.
(3) Giovanni Fanelli, Op. cit., p. 154.
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giovedì 1 aprile 2010
Pesce d’Aprile a Firenze
Se un navigatore curioso, in prossimità del primo giorno di aprile, inserisse in un motore di ricerca le parole: indiano cremazione firenze +1878, forse otterrebbe un elenco di pagine riportanti il seguente raccontino sull’origine del Pesce d’Aprile.
Nel 1878 un giornale italiano annunciò la cremazione all’aperto, in una piazza di Firenze nei pressi del Parco delle Cascine, di un marajà indiano. La cremazione sarebbe dovuta avvenire il primo giorno di aprile. Molti fiorentini accorsero al parco delle Cascine per assistere all’evento, portandosi dietro anche il gatto e la nonna in carrozzina, ma quando, dopo una lunga e vana attesa, un gruppo di ragazzini sbucò da dietro un cespuglio gridando, Pesci d'Arno fritti!, improvvisamente i fiorentini si tirarono su dall’erba scuotendosi di dosso le briciole dei panini al lampredotto e richiamarono i bambini spersi nel vasto prato, Telemachino, Amletino, Nestorino, Annibalino, Barabbino, vien via vien via che si va via e fa freddo, tira vento, piove e c’è il sole, c'è il sole e piove, o i che è, ecc. insomma il babbo di turno faceva finta di nulla, per non passar da grullo.
Il navigatore riflessivo penserà che non è mai stato bruciato un indiano a Firenze, che vergogna… Ma se spingiamo la nostra ricerca, oltre la prima pagina di pagine suggerite da Google, approderemo a pagine forse più attendibili, purtroppo nascoste tra l’erbaccia delle informazioni ridondanti sul Pesce d’Aprile. Là apprenderemo che verso la fine del marzo 1878 apparve su un quotidiano fiorentino la notizia che il primo d’aprile la cittadinanza tutta avrebbe potuto assistere, nel parco delle Cascine, alla cremazione di un principe indiano morto in quella città pochi giorni prima. E giacché un evento simile era realmente accaduto nel 1870, molti lettori non ebbero dubbi sulla veridicità della notizia, insomma erano passati solo otto anni mica cinquecento. E la notizia passò di bocca in bocca, e una gran folla di boccaloni si riunì speranzosa, peraltro priva di cellulari e di macchine fotografiche digitali, proprio nel punto dove avrebbe dovuto svolgersi la curiosa cerimonia, dove avrebbero dovuto bruciare un secondo indiano. Da lì la storia vera si incolla alla storia falsa, infatti, sbucarono di corsa dalle frasche tre o quattro ragazzini neri e maledetti gridando, Pesci d’Arno fritti, be' per loro non era mica uno scherzo, facevano la reclame ambulante di un friggitore che aveva aperto il baracchino da poco, il friggitore vendeva appunto pesci d’Arno fritti, e anche ranocchi fritti se è per questo e guarda un po’ pure i panini col lampredotto. E allora come avranno fatto i fiorentini a capire che era uno scherzo? (probabilmente molti fiorentini tornarono a casa per la cena con un cartoccio di pesci e di ranocchi fritti)... no, non ci voglio pensare, ma ora che ci penso mica sarà stata un'abile mossa di marketing del venditore di ranocchi fritti?
Dunque, dunque perché uno scherzo sia creduto vero deve essere edificato su un fondamento di verità, cioè su una storia vera. (*) Un po’ come la notizia che l'ex presidente onorario della Fiorentina ha lasciato la presidenza onoraria della Fiorentina, tutti hanno creduto vera la notizia (peraltro vera), molti tifosi del gioco del pallone hanno pianto amaramente pensando al tempo in cui - dolore chiama dolore - i Medici si tolsero dalle palle lasciando in eredità, un po’ qui un po’ là, i loro stemmi araldici gratis, con le tre palle e un soldo.
(*) “Al limite estremo del parco delle Cascine, si giunge al piazzaletto dell’Indiano, pittoresco spazio articolato sulla conoide alla confluenza del torrente Mugnone nell’Arno; vi si dispongono, attorniati da leggiadri elementi di arredo, la casetta e il monumento funebre dell’Indiano, composto da un busto protetto da una cupola a pagoda, opera di Charles Francis Fuller (1874); il luogo è dedicato a Rajaram Cuttraputti marajà di Kolepoor, che di ritorno dall’Inghilterra morì ventenne a Firenze nel 1870 e secondo il rito braminico fu cremato alla confluenza di due fiumi”. Firenze e Provincia, Touring Club Italiano, 2005, p. 436.
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Nel 1878 un giornale italiano annunciò la cremazione all’aperto, in una piazza di Firenze nei pressi del Parco delle Cascine, di un marajà indiano. La cremazione sarebbe dovuta avvenire il primo giorno di aprile. Molti fiorentini accorsero al parco delle Cascine per assistere all’evento, portandosi dietro anche il gatto e la nonna in carrozzina, ma quando, dopo una lunga e vana attesa, un gruppo di ragazzini sbucò da dietro un cespuglio gridando, Pesci d'Arno fritti!, improvvisamente i fiorentini si tirarono su dall’erba scuotendosi di dosso le briciole dei panini al lampredotto e richiamarono i bambini spersi nel vasto prato, Telemachino, Amletino, Nestorino, Annibalino, Barabbino, vien via vien via che si va via e fa freddo, tira vento, piove e c’è il sole, c'è il sole e piove, o i che è, ecc. insomma il babbo di turno faceva finta di nulla, per non passar da grullo.
Il navigatore riflessivo penserà che non è mai stato bruciato un indiano a Firenze, che vergogna… Ma se spingiamo la nostra ricerca, oltre la prima pagina di pagine suggerite da Google, approderemo a pagine forse più attendibili, purtroppo nascoste tra l’erbaccia delle informazioni ridondanti sul Pesce d’Aprile. Là apprenderemo che verso la fine del marzo 1878 apparve su un quotidiano fiorentino la notizia che il primo d’aprile la cittadinanza tutta avrebbe potuto assistere, nel parco delle Cascine, alla cremazione di un principe indiano morto in quella città pochi giorni prima. E giacché un evento simile era realmente accaduto nel 1870, molti lettori non ebbero dubbi sulla veridicità della notizia, insomma erano passati solo otto anni mica cinquecento. E la notizia passò di bocca in bocca, e una gran folla di boccaloni si riunì speranzosa, peraltro priva di cellulari e di macchine fotografiche digitali, proprio nel punto dove avrebbe dovuto svolgersi la curiosa cerimonia, dove avrebbero dovuto bruciare un secondo indiano. Da lì la storia vera si incolla alla storia falsa, infatti, sbucarono di corsa dalle frasche tre o quattro ragazzini neri e maledetti gridando, Pesci d’Arno fritti, be' per loro non era mica uno scherzo, facevano la reclame ambulante di un friggitore che aveva aperto il baracchino da poco, il friggitore vendeva appunto pesci d’Arno fritti, e anche ranocchi fritti se è per questo e guarda un po’ pure i panini col lampredotto. E allora come avranno fatto i fiorentini a capire che era uno scherzo? (probabilmente molti fiorentini tornarono a casa per la cena con un cartoccio di pesci e di ranocchi fritti)... no, non ci voglio pensare, ma ora che ci penso mica sarà stata un'abile mossa di marketing del venditore di ranocchi fritti?
Dunque, dunque perché uno scherzo sia creduto vero deve essere edificato su un fondamento di verità, cioè su una storia vera. (*) Un po’ come la notizia che l'ex presidente onorario della Fiorentina ha lasciato la presidenza onoraria della Fiorentina, tutti hanno creduto vera la notizia (peraltro vera), molti tifosi del gioco del pallone hanno pianto amaramente pensando al tempo in cui - dolore chiama dolore - i Medici si tolsero dalle palle lasciando in eredità, un po’ qui un po’ là, i loro stemmi araldici gratis, con le tre palle e un soldo.
(*) “Al limite estremo del parco delle Cascine, si giunge al piazzaletto dell’Indiano, pittoresco spazio articolato sulla conoide alla confluenza del torrente Mugnone nell’Arno; vi si dispongono, attorniati da leggiadri elementi di arredo, la casetta e il monumento funebre dell’Indiano, composto da un busto protetto da una cupola a pagoda, opera di Charles Francis Fuller (1874); il luogo è dedicato a Rajaram Cuttraputti marajà di Kolepoor, che di ritorno dall’Inghilterra morì ventenne a Firenze nel 1870 e secondo il rito braminico fu cremato alla confluenza di due fiumi”. Firenze e Provincia, Touring Club Italiano, 2005, p. 436.
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American Land

What is this land America so many travel there
I'm going now while I'm still young my darling meet me there
Wish me luck my lovely I'll send for you when I can
And we'll make our home in the American land
Over there all the woman wear silk and satin to their knees
And children dear, the sweets, I hear, are growing on the trees
Gold comes rushing out the rivers straight into your hands
When you make your home in the American Land
There's diamonds in the sidewalk the's gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
I docked at Ellis Island in a city of light and spires
She met me in the valley of red-hot steel and fire
We made the steel that built the cities with our sweat and two hands
And we made our home in the American Land
There's diamonds in the sidewalk the's gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
The McNicholas, the Posalski's, the Smiths, Piccinis, too
The Blacks, the Irish, Italians, the Germans and the Jews
Come across the water a thousand miles from home
With nothin in their bellies but the fire down below
They died building the railroads worked to bones and skin
They died in the fields and factories names scattered in the wind
They died to get here a hundred years ago they're still dyin now
The hands that built the country were always trying to keep down
There's diamonds in the sidewalk the gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
Who will make his home in the American Land
Who will make his home in the American Land
I'm going now while I'm still young my darling meet me there
Wish me luck my lovely I'll send for you when I can
And we'll make our home in the American land
Over there all the woman wear silk and satin to their knees
And children dear, the sweets, I hear, are growing on the trees
Gold comes rushing out the rivers straight into your hands
When you make your home in the American Land
There's diamonds in the sidewalk the's gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
I docked at Ellis Island in a city of light and spires
She met me in the valley of red-hot steel and fire
We made the steel that built the cities with our sweat and two hands
And we made our home in the American Land
There's diamonds in the sidewalk the's gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
The McNicholas, the Posalski's, the Smiths, Piccinis, too
The Blacks, the Irish, Italians, the Germans and the Jews
Come across the water a thousand miles from home
With nothin in their bellies but the fire down below
They died building the railroads worked to bones and skin
They died in the fields and factories names scattered in the wind
They died to get here a hundred years ago they're still dyin now
The hands that built the country were always trying to keep down
There's diamonds in the sidewalk the gutters lined in song
Dear I hear that beer flows through the faucets all night long
There's treasure for the taking, for any hard working man
Who will make his home in the American Land
Who will make his home in the American Land
Who will make his home in the American Land
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martedì 30 marzo 2010
Ultimo bestiario
Si vede una rosa, in un barattolo con etichetta illeggibile appoggiato sul davanzale di una finestra chiusa, nell’angolo superiore del rettangolo, quello a sinistra di chi guarda, è una rosa rossa con tre foglie verdi; nell’angolo inferiore del rettangolo o vignetta (sempre a sinistra di chi guarda) c’è un telescopio rifrattore montato su strambe ruote e ingranaggi, forse equatoriali forse per inseguire le stelle forse divinare il futuro; sul telescopio è installato e vincolato un canocchialino galileiano, dicesi cercatore, ma in questo momento il telescopio guarda il soffitto della stanza e il cercatore può solo cercare le mosche; tra il telescopio e la finestra e la rosa rossa c’è uno strano alambicco, in attesa di alambiccare forse composti chimici o forse distillati omeopatici. Al centro del rettangolo si vede un grosso libro aperto, tenuto in mano da un papero balzano (scarsamente barksiano), vestito con un maglione a girocollo e un buffo berretto a ponpon ritto sulla testa; il papero balzano sta seduto in una grande poltrona, ma non appoggia la schiena alla spalliera, dal berretto a ponpon fuoriescono radi lunghi capelli a fil di ferro; una lampadina accesa sopra la testa del papero, è sospesa per aria grazie a due rozze assicelle di legno, illumina e guida il papero elettrico nella lettura del libro che ha per titolo il “Gattalogo”. Il papero non riesce a credere a quello che ha appena letto nel libro, e felicemente incredulo telefona ad un suo lontano cugino, infatti, nella vignetta successiva dice, Paperino, ho appena letto nel mio "Gattalogo" che Malachia è un raro esemplare di gatto tasmaniano. All’altro capo del filo gli risponde un tranquillo e disincantato papero casalingo (con strofinaccio e piatto bagnato in mano, stava rigovernando il suo passato): Malachia, gatto raro? Non dire sciocchezze! E’ solo un grasso gatto casalingo!, nella vignetta seguente il grasso gatto casalingo guarda il papero con il piatto in mano e pensa, Un gatto grasso, eh? Troppo gentile!
E improvvisamente, in questa prima pagina di una storia di Dick Kinney e Al Hubbard, la straordinaria wunderkammer di Carl Barks (1942-1967) scoppia come una bolla di sapone.
Questo papero disperato, questo papero matto e strampalato, figlio dei fiori, figlio di una notte d’estate, cugino alla lontana di un ex giramondo, ex dannato dai mille mestieri e dalle diecimila sfortune – ma che fine hanno fatto Qui Quo Qua? – legge manuali fai-da-te, si cura da sé, inventa diete e filosofie e religioni, non cammina ma corre, perché tra il suo dire e il suo fare c’è solo un singolo battito del cuore.
I contorni non chiudono e rinsaldano la forma, ma acuti e continuamente spezzati la frantumano, le impediscono di realizzarsi in volume, la costringono nella realtà del piano, nella realtà del foglio bianco e delle matite. Le figure sono disarticolate; sono figure allungate, accartocciate, bruciate e bagnate, deformate, sputacchiano saliva in faccia al lettore; vivono accanto a ottusi e feroci cani da caccia all’evaso. Il papero ondivago, creato e disegnato dalla coppia Kinney & Hubbard, è come un lampo d’estate, vive solo dal 1964 al 1969. Dopo sarà il deserto dell’accademia disneyana e degli epigoni di Barks.
Soltanto Hubbard non tradisce gli schizzi di Kinney: guardate (outducks) il papero casalingo con il raffreddore, se ne sta tranquillo a letto a leggere un libro, e il gatto grasso sulla coperta tutto contento, e poi guardate il papero spiritato che gli piomba in casa improvvisamente laureato in medicina (e pure esperto in allergie da pelo di gatto), e poi guardate il gatto improvvisamente pelato – il papero soddisfatto con il rasoio di sicurezza in mano – pensa che tutto ciò è imbarazzante... e il papero casalingo si chiude in bagno, prende un’aspirina, e ne esce improvvisamente guarito (la battuta più divertente della storia).
Ora, cos’è un bestiario? qui Wikipedia aggiunge una parola in latino, e allora qui ci starebbe bene quel terribile papero di un tempo passato, se ne andava in giro con una scintilla nell'anima, e correndo guardava le pozzanghere sulla strada, improvvisamente abbacinato dal sole d'agosto, e dalla casa alla casa (del cugino e del gatto) ripensava a una paroletta letta in UN LIBRO e poi da quella partiva, con una sermone di due ore e mezza (anche tre, quando era particolarmente divertito, in altre parole "in vena"), al povero cugino infelice e al suo gatto grasso, e dicono andasse così inventando una filosofia dalle fondamenta; il papero sognava di tornare a vivere, un giorno, in un luogo, quasi un'isola di pagani dei mari del sud, là dove un papero e una mosca e l'anima sono uguali, là dove stava e voleva quello che era, ed era quel che voleva, tutti liberi dagli accoliti e dagli epigoni di Barks; e i lettori, alla fine della storia, chi saltava in aria chi batteva i piedi per terra chi parlava tutte le lingue del mondo chi piangeva chi rideva chi gridava, Siamo stati accecati dalla luce liberi come Paperoga, fuggitivi verso le isole dei mari del sud - tremavano i muri dell’accademia, tremavano le fondamenta della Accademia - e tutti lo imploravano di continuare e gli chiedevano ancora un bis (voi sarete testimoni di tutto ciò, perché non resterà neppure un cartone pirata, bootleggers, roll your tapes!), e chi nulla: troppo intento a disegnare le orecchie a Topolino.
E a noi, in questo tempo senza più fedi né speranze né ideali, cosa ci resta tra la cenere... forse una scintilla, nella cenere degli analfabeti vincenti e delle vite senza sbagli e tra mille sbadigli, una scintilla. Forse.
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E improvvisamente, in questa prima pagina di una storia di Dick Kinney e Al Hubbard, la straordinaria wunderkammer di Carl Barks (1942-1967) scoppia come una bolla di sapone.
Questo papero disperato, questo papero matto e strampalato, figlio dei fiori, figlio di una notte d’estate, cugino alla lontana di un ex giramondo, ex dannato dai mille mestieri e dalle diecimila sfortune – ma che fine hanno fatto Qui Quo Qua? – legge manuali fai-da-te, si cura da sé, inventa diete e filosofie e religioni, non cammina ma corre, perché tra il suo dire e il suo fare c’è solo un singolo battito del cuore.
I contorni non chiudono e rinsaldano la forma, ma acuti e continuamente spezzati la frantumano, le impediscono di realizzarsi in volume, la costringono nella realtà del piano, nella realtà del foglio bianco e delle matite. Le figure sono disarticolate; sono figure allungate, accartocciate, bruciate e bagnate, deformate, sputacchiano saliva in faccia al lettore; vivono accanto a ottusi e feroci cani da caccia all’evaso. Il papero ondivago, creato e disegnato dalla coppia Kinney & Hubbard, è come un lampo d’estate, vive solo dal 1964 al 1969. Dopo sarà il deserto dell’accademia disneyana e degli epigoni di Barks.
Soltanto Hubbard non tradisce gli schizzi di Kinney: guardate (outducks) il papero casalingo con il raffreddore, se ne sta tranquillo a letto a leggere un libro, e il gatto grasso sulla coperta tutto contento, e poi guardate il papero spiritato che gli piomba in casa improvvisamente laureato in medicina (e pure esperto in allergie da pelo di gatto), e poi guardate il gatto improvvisamente pelato – il papero soddisfatto con il rasoio di sicurezza in mano – pensa che tutto ciò è imbarazzante... e il papero casalingo si chiude in bagno, prende un’aspirina, e ne esce improvvisamente guarito (la battuta più divertente della storia).
Ora, cos’è un bestiario? qui Wikipedia aggiunge una parola in latino, e allora qui ci starebbe bene quel terribile papero di un tempo passato, se ne andava in giro con una scintilla nell'anima, e correndo guardava le pozzanghere sulla strada, improvvisamente abbacinato dal sole d'agosto, e dalla casa alla casa (del cugino e del gatto) ripensava a una paroletta letta in UN LIBRO e poi da quella partiva, con una sermone di due ore e mezza (anche tre, quando era particolarmente divertito, in altre parole "in vena"), al povero cugino infelice e al suo gatto grasso, e dicono andasse così inventando una filosofia dalle fondamenta; il papero sognava di tornare a vivere, un giorno, in un luogo, quasi un'isola di pagani dei mari del sud, là dove un papero e una mosca e l'anima sono uguali, là dove stava e voleva quello che era, ed era quel che voleva, tutti liberi dagli accoliti e dagli epigoni di Barks; e i lettori, alla fine della storia, chi saltava in aria chi batteva i piedi per terra chi parlava tutte le lingue del mondo chi piangeva chi rideva chi gridava, Siamo stati accecati dalla luce liberi come Paperoga, fuggitivi verso le isole dei mari del sud - tremavano i muri dell’accademia, tremavano le fondamenta della Accademia - e tutti lo imploravano di continuare e gli chiedevano ancora un bis (voi sarete testimoni di tutto ciò, perché non resterà neppure un cartone pirata, bootleggers, roll your tapes!), e chi nulla: troppo intento a disegnare le orecchie a Topolino.
E a noi, in questo tempo senza più fedi né speranze né ideali, cosa ci resta tra la cenere... forse una scintilla, nella cenere degli analfabeti vincenti e delle vite senza sbagli e tra mille sbadigli, una scintilla. Forse.
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domenica 28 marzo 2010
CEIsAAA, VI

La parola orzoweiana per "crisi" (Ahytè in Orzoweiano Corsivo) è di frequente invocata nei discorsi motivazionali insieme all'affermazione fallace che i due segni di cui è composta rappresentino sia il concetto di "crisi" che quello di "opportunità". In realtà l'affermazione è mutuata dalla errata convinzione diffusa negli Stati Uniti, e poi nel Resto del Mondo, che i due segni significhino uno "pericolo" e l'altro "opportunità".
Il Socio C. Pancalakaprakampa ha chiamato l'interpretazione popolare di Ahytè nel mondo anglofono una "idea completamente sbagliata e tuttavia largamente diffusa". In effetti, Ahy significa approssimativamente "dente cariato, pericolo, assai pericoloso, rappresentare un pericolo, punta di freccia, precario, orante seduto in bilico su un palo, timoroso, sacro, divinità", ma il segno tè non significa necessariamente "opportunità". E’ vero che la parola Tèeh significa "opportunità", ma tè è solo una parte di essa, e la meno significativa. Tè assume numerosi significati, tra cui "macchina a pressione, cavalletta fritta, occasione adatta, punto cruciale, perno, gradiente termico, nottolino, saliscendi, opportunità, occasione, cesta tra le onde, lumaca sgusciata, esame di coscienza".
Il Socio C. Pancalakaprakampa ha chiamato l'interpretazione popolare di Ahytè nel mondo anglofono una "idea completamente sbagliata e tuttavia largamente diffusa". In effetti, Ahy significa approssimativamente "dente cariato, pericolo, assai pericoloso, rappresentare un pericolo, punta di freccia, precario, orante seduto in bilico su un palo, timoroso, sacro, divinità", ma il segno tè non significa necessariamente "opportunità". E’ vero che la parola Tèeh significa "opportunità", ma tè è solo una parte di essa, e la meno significativa. Tè assume numerosi significati, tra cui "macchina a pressione, cavalletta fritta, occasione adatta, punto cruciale, perno, gradiente termico, nottolino, saliscendi, opportunità, occasione, cesta tra le onde, lumaca sgusciata, esame di coscienza".
Pancalakaprakampa suggerisce che tè in Ahytè sia più vicino a "cavalletta fritta", o “lumaca sgusciata”, che a "opportunità". L'archeologo A.O. Saknussen ha interpretato la parola Ahytè alla luce del contesto del sito archeologico: i rilievi rupestri del monte Montbrillhà. L'archeologo islandese è convinto che le iscrizioni e i rilievi rupestri devono essere letti all'interno di uno schema topografico, grazie al quale sarà possibile ricostruire una catena sintattica organica, in quest'ottica Ahytè è un sintagma-fossile, e deve essere letto come "ricerca del tempo passato", o "ricerca delle ossa degli avi".
Pancalakaprakampa ha percorso a ritroso la storia della fortuna di Ahytè nell'inglese addirittura fino a un editoriale del 13 gennaio 1946, firmato dal prof. Pio de Pio, in un giornale per missionari del Tao a Lamporecchio.
L'uso del termine ha probabilmente guadagnato la sua immeritata fama quando il famoso chirurgo omeopata Benjamin B. B. House Senior tenne un memorabile discorso all’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, il 1 Gennaio 1947:
Scritta in orzoweiano corsivo la parola “crisi” è composta di due segni.
Uno rappresenta “pericolo” ma l'altro rappresenta un’opportunità (per noi).
Benjamin B. B. House Senior utilizzava questo tropo regolarmente nei suoi discorsi di capodanno, nell’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, e tutte le volte otteneva grandi ovazioni e grandi risate, fino alle lacrime, tra i ricoverati, i medici e il personale paramedico tutto. In seguito l’uso del termine è stato adottato da consulenti finanziari, esperti di marketing, santoni di sette, insegnanti di scuola di ogni ordine e grado e oratori motivazionali, guadagnando grande popolarità nelle università, nella stampa popolare e in numerose edizioni radiofoniche del reality show Island for Dummies.
Alcuni linguisti hanno attribuito il successo di questa cattiva lettura della parola al fatto di averla a portata di mano come strumento retorico e come "chiamata alle armi" in chiave ottimistica.
A causa dell'attrazione esercitata da questa pseudoetimologia, Pancalakaprakampa ha suggerito che la sua popolarità sia in parte dovuta al "pio desiderio" ("wishful thinking") del prof. de Pio di rilevare la presenza di un’onomastica biblica nell'archivio di Favbrillhà. (**)
(*) Rilievo rupestre di Montbrillhà (6 km in direzione S-E dal sito di Favbrillhà), con la parola “crisi” in orzoweiano corsivo classico (foto di P.K. Bark, campagna di scavo 1939).
Pancalakaprakampa ha percorso a ritroso la storia della fortuna di Ahytè nell'inglese addirittura fino a un editoriale del 13 gennaio 1946, firmato dal prof. Pio de Pio, in un giornale per missionari del Tao a Lamporecchio.
L'uso del termine ha probabilmente guadagnato la sua immeritata fama quando il famoso chirurgo omeopata Benjamin B. B. House Senior tenne un memorabile discorso all’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, il 1 Gennaio 1947:
Scritta in orzoweiano corsivo la parola “crisi” è composta di due segni.
Uno rappresenta “pericolo” ma l'altro rappresenta un’opportunità (per noi).
Benjamin B. B. House Senior utilizzava questo tropo regolarmente nei suoi discorsi di capodanno, nell’ospedale universitario Princeton-Plainsboro Teaching Hospital, nel New Jersey, e tutte le volte otteneva grandi ovazioni e grandi risate, fino alle lacrime, tra i ricoverati, i medici e il personale paramedico tutto. In seguito l’uso del termine è stato adottato da consulenti finanziari, esperti di marketing, santoni di sette, insegnanti di scuola di ogni ordine e grado e oratori motivazionali, guadagnando grande popolarità nelle università, nella stampa popolare e in numerose edizioni radiofoniche del reality show Island for Dummies.
Alcuni linguisti hanno attribuito il successo di questa cattiva lettura della parola al fatto di averla a portata di mano come strumento retorico e come "chiamata alle armi" in chiave ottimistica.
A causa dell'attrazione esercitata da questa pseudoetimologia, Pancalakaprakampa ha suggerito che la sua popolarità sia in parte dovuta al "pio desiderio" ("wishful thinking") del prof. de Pio di rilevare la presenza di un’onomastica biblica nell'archivio di Favbrillhà. (**)
(*) Rilievo rupestre di Montbrillhà (6 km in direzione S-E dal sito di Favbrillhà), con la parola “crisi” in orzoweiano corsivo classico (foto di P.K. Bark, campagna di scavo 1939).
(**) La parola orzoweiana per "crisi", Nota del prof. O.K. Allright, presentata dal Socio S. Spikspan, nella seduta del 7 dicembre 1959. Estratto dal vol. VI, serie 6°, 2° sem., fasc. 10, dei "Rendiconti della Accademia degli Orzoweiani". (***)
(***) Libera interpretazione di La parola cinese per “crisi”, da Wikipedia.
(***) Libera interpretazione di La parola cinese per “crisi”, da Wikipedia.
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sabato 27 marzo 2010
Ora legale
Se sarà un maschio, lascerà il cordone ombelicale sui tegoli e i coppi del tetto, perché sia portato via dai merli neri, per la sua fortuna e per la sua gloria, ma se sarà una femmina allora lo pianterà in un vaso di terra nera, perché possa mettere radici in una storia.
Domani qualcuno darà da mangiare ai gatti del giardino abbandonato.
Nel cielo di fine di marzo corrono nembi neri e bianchi cirri, piove fitto fitto per qualche minuto e poi di nuovo via, il sole asciuga con un sorriso la strada e gli stracci penduli.
Domani verrà con un’ora in meno; ohi ohi, un’ora in meno anche per votare, come si farà, come si farà… ché domani avrà un'ora in meno per alambiccare intrugli di buoni e altruistici pensieri e far di conti per recuperare un'ora in meno.
Domani qualcuno darà da mangiare ai gatti del giardino abbandonato.
Nel cielo di fine di marzo corrono nembi neri e bianchi cirri, piove fitto fitto per qualche minuto e poi di nuovo via, il sole asciuga con un sorriso la strada e gli stracci penduli.
Domani verrà con un’ora in meno; ohi ohi, un’ora in meno anche per votare, come si farà, come si farà… ché domani avrà un'ora in meno per alambiccare intrugli di buoni e altruistici pensieri e far di conti per recuperare un'ora in meno.
venerdì 19 marzo 2010
A cavallo di un'anatra frittellata (Incontri con l'arte, 4)
Frittelle di riso di San Giuseppe.
Ingredienti e dosi:
100 gr. di riso
½ litro di latte
2 cucchiai scarsi di zucchero
scorza di un limone grattugiato
H. 14.15. Versate il latte in una pentola e accendete il fuoco. Aggiungete lo zucchero e la scorza di un limone. Grattugiate il limone nel latte, se il limone cade nel latte pescatelo con un cucchiaio (pulite i fori ostruiti della grattugia dai pezzetti di scorza di limone con un po’ di latte caldo, oppure inzuppate la grattugia nel latte). Quando il latte bolle versate dentro il riso. Girate spesso e volentieri per evitare che il riso si attacchi al fondo della pentola. Attenzione a non fare uscire il latte dalla pentola! Dopo qualche minuto aggiungete un pezzetto di burro (aggiungere alla lista degli ingredienti). Dovete girare il riso fino a quando non lo sentite denso, il cucchiaio deve girare a fatica, quasi deve restare ritto da solo se piantato nel latte e riso. Insomma si deve formare una pastetta bella densa.
H. 14.50. Spegnete il fuoco (sotto la pentola).
h. 18.00. Scolate il riso in una ciotola, capace di contenere il riso, indi aggiungere 2 tuorli d’uovo (aggiungere alla lista degli ingredienti). Ah, anche le due chiare, precedentemente montate a neve.
Volendo un po’ di uvetta prima ammollata e poi ben asciugata (allontanate, con le buone maniere, l’anatra dalla cucina).
Friggete in abbondante olio di oliva; attenti agli schizzi! Usate una pentola fonda, per friggere. La pastella raccolta in un cucchiaio andrà a fondo come il Nautilus, aspettate qualche secondo e poi staccate la frittella dal fondo della pentola fonda con una forchetta non bagnata, come per miracolo la frittella galleggerà sulla superficie dell’olio. Fate passare ancora qualche secondo poi rigirate la frittella nell’olio. Levate la frittella quando il colore della frittella sarà di un bel fulvo dorato, anzi più fulvo che dorato. Terra di Siena Bruciata? Ocra gialla?
Con le frittelle successive non ci sarà bisogno di staccare la pasta dal fondo della pentola con la forchetta.
Lasciate ad asciugare le frittelle su carta gialla; la stessa che usate per tirare fuori i bachini bianchi con la testina nera (o è un granello di pepe?) dai funghi porcini cosparsi di sale e di pepe.
Invitate Magico Primario a tavola, e ascoltate in silenzio il suo giudizio critico sulle frittelle; sosterrà che solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, solo e soltanto ciò potrà dare un valore e un senso a queste frittelle di San Giuseppe.
Magico Primario si volta e ruota la testa sull'esile collo gommoso, Dr. Frittella di San Giuseppe, se tu fossi un’anatra grigia frittellata, come frittelleresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito estatico nella visione di un piatto di frittelle di San Giuseppe. Dove se n’andrà? Dove è già andato? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile di una ricetta di frittelle di riso. Vieni, vieni sotto l’ombrello che in cucina l’olio schizza da tutte le parti, sta piovendo dal soffitto olio di oliva. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, che in cucina fa freddo, tira vento, c’è la finestra aperta per il puzzo di olio bruciato e siamo solo al 19 di marzo. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… O Magico Primario.
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Ingredienti e dosi:
100 gr. di riso
½ litro di latte
2 cucchiai scarsi di zucchero
scorza di un limone grattugiato
H. 14.15. Versate il latte in una pentola e accendete il fuoco. Aggiungete lo zucchero e la scorza di un limone. Grattugiate il limone nel latte, se il limone cade nel latte pescatelo con un cucchiaio (pulite i fori ostruiti della grattugia dai pezzetti di scorza di limone con un po’ di latte caldo, oppure inzuppate la grattugia nel latte). Quando il latte bolle versate dentro il riso. Girate spesso e volentieri per evitare che il riso si attacchi al fondo della pentola. Attenzione a non fare uscire il latte dalla pentola! Dopo qualche minuto aggiungete un pezzetto di burro (aggiungere alla lista degli ingredienti). Dovete girare il riso fino a quando non lo sentite denso, il cucchiaio deve girare a fatica, quasi deve restare ritto da solo se piantato nel latte e riso. Insomma si deve formare una pastetta bella densa.
H. 14.50. Spegnete il fuoco (sotto la pentola).
h. 18.00. Scolate il riso in una ciotola, capace di contenere il riso, indi aggiungere 2 tuorli d’uovo (aggiungere alla lista degli ingredienti). Ah, anche le due chiare, precedentemente montate a neve.
Volendo un po’ di uvetta prima ammollata e poi ben asciugata (allontanate, con le buone maniere, l’anatra dalla cucina).
Friggete in abbondante olio di oliva; attenti agli schizzi! Usate una pentola fonda, per friggere. La pastella raccolta in un cucchiaio andrà a fondo come il Nautilus, aspettate qualche secondo e poi staccate la frittella dal fondo della pentola fonda con una forchetta non bagnata, come per miracolo la frittella galleggerà sulla superficie dell’olio. Fate passare ancora qualche secondo poi rigirate la frittella nell’olio. Levate la frittella quando il colore della frittella sarà di un bel fulvo dorato, anzi più fulvo che dorato. Terra di Siena Bruciata? Ocra gialla?
Con le frittelle successive non ci sarà bisogno di staccare la pasta dal fondo della pentola con la forchetta.
Lasciate ad asciugare le frittelle su carta gialla; la stessa che usate per tirare fuori i bachini bianchi con la testina nera (o è un granello di pepe?) dai funghi porcini cosparsi di sale e di pepe.
Invitate Magico Primario a tavola, e ascoltate in silenzio il suo giudizio critico sulle frittelle; sosterrà che solo l’esigenza di un recupero etico e formale, solo l’impossessamento formale ed etico di una anatra grigia decapitata spennata e appesa a frollare, solo l’osservazione verticale e orizzontale, della sincronia e diacronia delle cose nello spazio, dello spazio nelle cose, solo e soltanto ciò potrà dare un valore e un senso a queste frittelle di San Giuseppe.
Magico Primario si volta e ruota la testa sull'esile collo gommoso, Dr. Frittella di San Giuseppe, se tu fossi un’anatra grigia frittellata, come frittelleresti? All right all right, ma adesso cambiamo di posto? Magico Primario è spinto di lato, fuori quadro, sparisce, inghiottito estatico nella visione di un piatto di frittelle di San Giuseppe. Dove se n’andrà? Dove è già andato? O piccolo e nero calimero, critico d’arte tascabile di una ricetta di frittelle di riso. Vieni, vieni sotto l’ombrello che in cucina l’olio schizza da tutte le parti, sta piovendo dal soffitto olio di oliva. Vieni via, ma mettiti prima il cappottino… vien via, vien via, mettiti il cappottino che si va via, che in cucina fa freddo, tira vento, c’è la finestra aperta per il puzzo di olio bruciato e siamo solo al 19 di marzo. Vien via, piccolo critico d’arte, ma prima mettiti il cappottino… O Magico Primario.
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lunedì 15 marzo 2010
Bestiario n. 13 (butter-fly, butterfly)
Una farfalla sul corno di un camoscio, (*)
generazioni di farfalle bianche su un corno insanguinato,
di un camoscio che mastica il ciuffo di cima lasciato sui tronchi d'alberi abbattuti,
e un vecchio cacciatore che soffia via, soffio di vita, dalla canna del fucile una farfalla bianca.
La vita è una tazza di latte dove galleggia una mosca morta?
La vita è una farfalla bianca, petalo di vita nel vento, su un corno insanguinato?
(*) Erri De Luca, Il peso della farfalla
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generazioni di farfalle bianche su un corno insanguinato,
di un camoscio che mastica il ciuffo di cima lasciato sui tronchi d'alberi abbattuti,
e un vecchio cacciatore che soffia via, soffio di vita, dalla canna del fucile una farfalla bianca.
La vita è una tazza di latte dove galleggia una mosca morta?
La vita è una farfalla bianca, petalo di vita nel vento, su un corno insanguinato?
(*) Erri De Luca, Il peso della farfalla
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domenica 14 marzo 2010
CEIsAAA, V
Gli eredi di Oliver (Ollio) Sassu, direttore degli scavi archeologici a Favbrillhà, offrono al popolo di Internet la trascrizione fedele, da un supporto magnetico – ahimè, ahinoi, ahivoi, purtroppo parzialmente smagnetizzato -, degli atti di una riunione estemporanea della Fondazione Favbrillhà (FF), tenuta in un giorno di fine estate dell’anno mille novecentoquarantasei, nel retro bottega di una pizzicheria al Mercatino di San Piero, a Firenze.
L’argomento all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile di fine estate, fu il seguente:
"lettura e commento della Tavoletta 1111.b", con contributo del Socio Pio de Pio, del Socio O.K. Allright, e in parte (noi eredi sospettiamo) del vino della locale cantina.
PIZZI-CHE-RIA-E-CA-NOVA-DI-VI-NI
VEENDITADI-PA-NE-PASSTE-E-GE-NE-RI-ALI-MEN-TA-RI.
Grazie mille, dottor Arne Otto Saknussen ma sappiamo tradurle anche noi le insegne! [rumori, parole intraducibili] Io invece vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci o in una soffitta o in una cantina! Questa sembra più una buca scavata nella terra che… non era proprio possibile chiedere ospitalità nel locale museo archeologico cittadino? Vada via! Vada via! un c’è posto! Non sentite di essere dentro la Storia? O un lo vede che un c’è posto! Passeggiando per queste antiche strade, passando sotto l’Arco dove un tempo i casigliani arrovesciavano sugli avversari pietre e pece bollente… Vada viaaa! E le botteghe, son fantastiche le botteghe, guardate! E casco! E’ da stamane che sto in piedi a servire! Secolari e bui antri, come bocche nere spalancate, alitano su noi il fiato dei millenni di droghe e salami che fermentano e di pesci che si corrompono nell’ombra della sera, O Cencio, non son mica un uomo da pigliarsi in giro io! E il vino che si tramuta in aceto nei fondi fiaschi, avvoltolati come morti feti nella paglia muffita. Il mommo, amore, un po’ di mommo… E la macelleria?, ricordate il manzo intero… Spaccato a metà, con sotto la segatura fradicia di sangue nero che ancora sgronda dalla cervice. Bovi bovi dove andate… E accanto a quell’odore bestiale ricordate i freschi odori dell’orto fuori porta, fuoriuscivano dalla bottega dell'erbaiolo, dal fruttivendolo… Telemachino, non ti mettere il ditino in bocca… E poi di sotto l’arco passava e ripassava sempre identico a se stesso, il popolo antico… Che si ordina qualche fico? A me, questo odore di formaggi, di insaccati e di baccalà, mi rivolta lo stomaco! …E vino! L’olio ti piace? Razza di topo! T’à a venir ghiotto a caso. Che peccato dover aspettar tanto, prima di poter mettere un figlio a scuola! Che anni sprecati quelli del seno, dei giochi, del fai ciao con la manina! Ikké ha da bofonchiare il dottor de Pio? Colleghi, vorrei farvi notare la conformazione cranica del padrone della pizzicheria, è un capolavoro ambulante… Bandone! E’ bandone! Un capolavoro della natura… Poverino! Bisognerebbe ch’io non sapessi… Meravigliosa testa a pera! Probabilmente l’omacciolo è un diretto discendente delle antiche genti etrusche… E allora forse gli potrei anco credere... Noi sappiamo… Piuttosto, il segreto della vernice… Asia Anteriore Antica… Già, la vernice! Sconosciuto staterello… Gli antichi le avevano certe vernici. Segretario!… Si potrebbe far un saggio, se lei crede, domani, porto gli acidi! Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Grazie: troppo gentile. Tanto, se lo metta in capo… Si sta facendo tardi! E io vorrei iniziare… [rumori, parole non tradotte da Google]… la cantinflora la non me la leva di sotto! ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque…
Così parla Hinscuppapandira’hinu (?), il Gran Re, il Re dello Stagno, il Re di (?):
A P[upo, il Gran Re], il Re di Egitto dì:
Fino a me tutto è bene. Io sto bene. Possa fino a te essere tutto bene!
Per quanto riguarda le lame di ferro su cui mi hai scritto, buon ferro a (?), nella mia Casa del Sigillo non è disponibile. Tempo non buono, per produrre lame di ferro. (Cmq) quando l’avranno finite, te le manderò. Intanto ti mando una lama di un pugnale di ferro.
Poi tu mi chiedi: “ Quando sarà pronta quella famosa corazza di bronzo?”
Vedi, per quanto riguarda la corazza di bronzo che ti avevo promesso, il mio mas(tro di forno?) Karciuphinu è fuggito a piedi a Lukka, (e) dalla [città di Luk]ka così (mi ha scritto):
“ O Gran Re! la vostra opera si è guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo! A Lukka ti rividi!”
Subito che io ho sentito (questo), ho messo un grido tanto smisurato che si sarebbe sentito fino alla Terra del Tramonto (?). E gettato (me) fuori dal letto, a calci e a pugni ho preso i servi, i cani, i gatti e (pure) gli scribi. (Intanto) volgevo guaiti e preci al Dio del Cielo Azzurro Indifferente;
(così mi dolevo): “Ahi vile traditore! Invidioso mastro di forno Karciuphinu! Io giuro, per gli Dei di Egitto, che invaderò tutta la terra di Lukka, e non lascerò vivo neppure un Genio o un pollo, e lo stesso Faraone ne resterà grandemente meravigliato!”
Ho fatto come te!
Subito dopo andai a vedere la fornace abbandonata dal vile Karciuphinu, e vidi tutto il metallo rappreso che pareva un covaccino.
Ho sfogato la mia ira su un nano ballerino; l’ho preso per la testa e l’ho sollevato da terra urlando: “Ti farò veder ben io Lukka!”.
Ho ordinato a due servi di far visita al vicino, mastro Kapretta, e chiedere una catasta di legne di quercioli giovani, secchi di piú di 1 anno; legne le quali donna Ginevra, sposa del detto mastro Kapretta, le aveva offerte in dono, in dono al Re dello Stagno, in dono al Gran Re della terra di (?);
[…] innumerevoli piatti di stagno […] quando il covaccino cominciò a sentire il terribile fuoco, esso cominciò a schiarire, e lampeggiava
[…] ho urlato: “Mosè! e molla codesta (cesta?) che devo sventolare il fuoco!”
[...] di verso l'orto avevo fatto rizzare tavole e tappeti e pannacci, che mi riparavano all'acqua…
Qui si interrompe la lettura della lettera, ché la tavoletta 1111.b è visibilmente spezzata…
La tavoletta 1111.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante della padronanza di pratiche di lavorazione dei metalli all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda sia la lavorazione del ferro, probabilmente ferro meteorico e la lavorazione di oggettistica artistica in bronzo, (la corazza promessa al Faraone). La lettera comprende un toponimo: la regione di Lukka, occupata probabilmente dal sovrano Hinscuppapandira’hinu, nipote del sovrano Shuppipandira’hinukhaliya, citato nelle lettere 666.b e 969.b, e che noi sappiamo fu spedito in esilio, proprio nella terra di Lukka.
In 1111.b, il sovrano Hinscuppapandira’hinu scrive al Faraone Pupo I (che si lamenta di una corazza promessagli in dono), giustificando il ritardo nella fornitura di lame di ferro; la colpa sarebbe da imputare a un funzionario locale incapace, certo Karciuphinu, che noi sappiamo essere ancora segretamente devoto al nonno del sovrano, il vecchio Shuppipandira'hinukhaliya, i due erano probabilmente ancora alle prime armi nel dominio delle arti metallurgiche; fuggito il funzionario inetto nella regione limitrofa di Lukka, a questo punto tocca al sovrano prendere in mano la situazione, e il forno, e volgere la drammatica questione a suo favore. Bisognerebbe sapere dov’è andato a finire il coperchio della cantinflora… La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, Buona, buona la trovata! Vada, vada: la comprerebbe anche così! Per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al guardiano della fornace, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Kapretta e Ginevra, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori] Dal contesto si evince che la lettera è stata scritta in primavera, o al più tardi in estate, ma di quale anno lo sa Iddio! Probabilmente la lavorazione del ferro del cielo era affidata ai contadini. Io invece credo che sia solo un abile espediente diplomatico del re di Orzowei. Dice di non avere lame e intanto ecco ne spunta una dal cilindro, pronta per essere impacchettata e spedita al Faraone…
Si godèttero, si godèttero e a me nulla, mi dèttero; e’ mi dèttero un uccellino: uccellin verderiò fammi più bello di quel che non so’.
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L’argomento all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile di fine estate, fu il seguente:
"lettura e commento della Tavoletta 1111.b", con contributo del Socio Pio de Pio, del Socio O.K. Allright, e in parte (noi eredi sospettiamo) del vino della locale cantina.
PIZZI-CHE-RIA-E-CA-NOVA-DI-VI-NI
VEENDITADI-PA-NE-PASSTE-E-GE-NE-RI-ALI-MEN-TA-RI.
Grazie mille, dottor Arne Otto Saknussen ma sappiamo tradurle anche noi le insegne! [rumori, parole intraducibili] Io invece vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci o in una soffitta o in una cantina! Questa sembra più una buca scavata nella terra che… non era proprio possibile chiedere ospitalità nel locale museo archeologico cittadino? Vada via! Vada via! un c’è posto! Non sentite di essere dentro la Storia? O un lo vede che un c’è posto! Passeggiando per queste antiche strade, passando sotto l’Arco dove un tempo i casigliani arrovesciavano sugli avversari pietre e pece bollente… Vada viaaa! E le botteghe, son fantastiche le botteghe, guardate! E casco! E’ da stamane che sto in piedi a servire! Secolari e bui antri, come bocche nere spalancate, alitano su noi il fiato dei millenni di droghe e salami che fermentano e di pesci che si corrompono nell’ombra della sera, O Cencio, non son mica un uomo da pigliarsi in giro io! E il vino che si tramuta in aceto nei fondi fiaschi, avvoltolati come morti feti nella paglia muffita. Il mommo, amore, un po’ di mommo… E la macelleria?, ricordate il manzo intero… Spaccato a metà, con sotto la segatura fradicia di sangue nero che ancora sgronda dalla cervice. Bovi bovi dove andate… E accanto a quell’odore bestiale ricordate i freschi odori dell’orto fuori porta, fuoriuscivano dalla bottega dell'erbaiolo, dal fruttivendolo… Telemachino, non ti mettere il ditino in bocca… E poi di sotto l’arco passava e ripassava sempre identico a se stesso, il popolo antico… Che si ordina qualche fico? A me, questo odore di formaggi, di insaccati e di baccalà, mi rivolta lo stomaco! …E vino! L’olio ti piace? Razza di topo! T’à a venir ghiotto a caso. Che peccato dover aspettar tanto, prima di poter mettere un figlio a scuola! Che anni sprecati quelli del seno, dei giochi, del fai ciao con la manina! Ikké ha da bofonchiare il dottor de Pio? Colleghi, vorrei farvi notare la conformazione cranica del padrone della pizzicheria, è un capolavoro ambulante… Bandone! E’ bandone! Un capolavoro della natura… Poverino! Bisognerebbe ch’io non sapessi… Meravigliosa testa a pera! Probabilmente l’omacciolo è un diretto discendente delle antiche genti etrusche… E allora forse gli potrei anco credere... Noi sappiamo… Piuttosto, il segreto della vernice… Asia Anteriore Antica… Già, la vernice! Sconosciuto staterello… Gli antichi le avevano certe vernici. Segretario!… Si potrebbe far un saggio, se lei crede, domani, porto gli acidi! Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Grazie: troppo gentile. Tanto, se lo metta in capo… Si sta facendo tardi! E io vorrei iniziare… [rumori, parole non tradotte da Google]… la cantinflora la non me la leva di sotto! ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque…
Così parla Hinscuppapandira’hinu (?), il Gran Re, il Re dello Stagno, il Re di (?):
A P[upo, il Gran Re], il Re di Egitto dì:
Fino a me tutto è bene. Io sto bene. Possa fino a te essere tutto bene!
Per quanto riguarda le lame di ferro su cui mi hai scritto, buon ferro a (?), nella mia Casa del Sigillo non è disponibile. Tempo non buono, per produrre lame di ferro. (Cmq) quando l’avranno finite, te le manderò. Intanto ti mando una lama di un pugnale di ferro.
Poi tu mi chiedi: “ Quando sarà pronta quella famosa corazza di bronzo?”
Vedi, per quanto riguarda la corazza di bronzo che ti avevo promesso, il mio mas(tro di forno?) Karciuphinu è fuggito a piedi a Lukka, (e) dalla [città di Luk]ka così (mi ha scritto):
“ O Gran Re! la vostra opera si è guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo! A Lukka ti rividi!”
Subito che io ho sentito (questo), ho messo un grido tanto smisurato che si sarebbe sentito fino alla Terra del Tramonto (?). E gettato (me) fuori dal letto, a calci e a pugni ho preso i servi, i cani, i gatti e (pure) gli scribi. (Intanto) volgevo guaiti e preci al Dio del Cielo Azzurro Indifferente;
(così mi dolevo): “Ahi vile traditore! Invidioso mastro di forno Karciuphinu! Io giuro, per gli Dei di Egitto, che invaderò tutta la terra di Lukka, e non lascerò vivo neppure un Genio o un pollo, e lo stesso Faraone ne resterà grandemente meravigliato!”
Ho fatto come te!
Subito dopo andai a vedere la fornace abbandonata dal vile Karciuphinu, e vidi tutto il metallo rappreso che pareva un covaccino.
Ho sfogato la mia ira su un nano ballerino; l’ho preso per la testa e l’ho sollevato da terra urlando: “Ti farò veder ben io Lukka!”.
Ho ordinato a due servi di far visita al vicino, mastro Kapretta, e chiedere una catasta di legne di quercioli giovani, secchi di piú di 1 anno; legne le quali donna Ginevra, sposa del detto mastro Kapretta, le aveva offerte in dono, in dono al Re dello Stagno, in dono al Gran Re della terra di (?);
[…] innumerevoli piatti di stagno […] quando il covaccino cominciò a sentire il terribile fuoco, esso cominciò a schiarire, e lampeggiava
[…] ho urlato: “Mosè! e molla codesta (cesta?) che devo sventolare il fuoco!”
[...] di verso l'orto avevo fatto rizzare tavole e tappeti e pannacci, che mi riparavano all'acqua…
Qui si interrompe la lettura della lettera, ché la tavoletta 1111.b è visibilmente spezzata…
La tavoletta 1111.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante della padronanza di pratiche di lavorazione dei metalli all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda sia la lavorazione del ferro, probabilmente ferro meteorico e la lavorazione di oggettistica artistica in bronzo, (la corazza promessa al Faraone). La lettera comprende un toponimo: la regione di Lukka, occupata probabilmente dal sovrano Hinscuppapandira’hinu, nipote del sovrano Shuppipandira’hinukhaliya, citato nelle lettere 666.b e 969.b, e che noi sappiamo fu spedito in esilio, proprio nella terra di Lukka.
In 1111.b, il sovrano Hinscuppapandira’hinu scrive al Faraone Pupo I (che si lamenta di una corazza promessagli in dono), giustificando il ritardo nella fornitura di lame di ferro; la colpa sarebbe da imputare a un funzionario locale incapace, certo Karciuphinu, che noi sappiamo essere ancora segretamente devoto al nonno del sovrano, il vecchio Shuppipandira'hinukhaliya, i due erano probabilmente ancora alle prime armi nel dominio delle arti metallurgiche; fuggito il funzionario inetto nella regione limitrofa di Lukka, a questo punto tocca al sovrano prendere in mano la situazione, e il forno, e volgere la drammatica questione a suo favore. Bisognerebbe sapere dov’è andato a finire il coperchio della cantinflora… La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, Buona, buona la trovata! Vada, vada: la comprerebbe anche così! Per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al guardiano della fornace, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Kapretta e Ginevra, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori] Dal contesto si evince che la lettera è stata scritta in primavera, o al più tardi in estate, ma di quale anno lo sa Iddio! Probabilmente la lavorazione del ferro del cielo era affidata ai contadini. Io invece credo che sia solo un abile espediente diplomatico del re di Orzowei. Dice di non avere lame e intanto ecco ne spunta una dal cilindro, pronta per essere impacchettata e spedita al Faraone…
Si godèttero, si godèttero e a me nulla, mi dèttero; e’ mi dèttero un uccellino: uccellin verderiò fammi più bello di quel che non so’.
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sabato 13 marzo 2010
A cavallo di un'anatra inquieta (Incontri con l'arte, 3)
...(la vita di Cellini la scrissi io quattrocent'anni fa)...
Ottone Rosai, Via Toscanella
In sogno Magico Primario, prima di lasciarmi ad un sonno profondo e riparatore (fino alle cinque e ½), mi aveva spiegato la causa profonda del malessere, di quella strana inquietudine, che provavo osservando la schiena di G (medico specialista nel reparto del dr. House), schiena coperta da un giaccone rosso fiammante, vale a dire mi ponevo, a me stesso muto, le seguenti domande: perché G mostrava la schiena al cameraman; perché il regista non inquadrava più g (paziente amico di G); perché le beccacce e le pernici e i pappafichi del bosco se ne stavano chiotti chiotti, fingendo peraltro tutti d'essere merli o passerotti, e coi teneri beccucci aperti; perché sentivo che G aveva qualche buona probabilità di finire steso morto fulminato, tra le foglie e i funghi del sottobosco, con il giaccone rosso fiammante bucato.
Colpevole e causa primaria del déjà-vu, secondo Magico Primario, è un famigerato artista manierista, tale Cellini Benvenuto, il quale, plagiando la scena del giaccone rosso, e numerose altre scene della serie tv del dr. House e non solo, era riuscito (con un colpo da maestro di marketing) a convincere gli storici che la sua Vita era antecedente alla serie del dr. House, che lui stesso era il modello ispiratore del cinico clinico zoppo veggente e megalomane, e che la parola americana "pizza" è traducibile in italiano (e in giapponese) solo in modo vago e con un giro di parole, per esempio come una sorta di piatto di pasta con sopra il pomodoro.
Ed ecco la prova del plagio (per maggior chiarezza di lettura e per evidenziare i nessi strutturali ho colorato le parole chiave):
"Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col Papa inistimabile. Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso che questo era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io che ero di sopra a l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in mano, vestito tutto di rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e piú lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva tirare cosí lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s'aveva messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l'uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi dell'omicidio, e d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire particularmente le belle cose che in quella infernalità crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo" (*)
(*) Benvenuto Cellini, Vita (Libro primo, XXXVII)
.
Ottone Rosai, Via Toscanella
In sogno Magico Primario, prima di lasciarmi ad un sonno profondo e riparatore (fino alle cinque e ½), mi aveva spiegato la causa profonda del malessere, di quella strana inquietudine, che provavo osservando la schiena di G (medico specialista nel reparto del dr. House), schiena coperta da un giaccone rosso fiammante, vale a dire mi ponevo, a me stesso muto, le seguenti domande: perché G mostrava la schiena al cameraman; perché il regista non inquadrava più g (paziente amico di G); perché le beccacce e le pernici e i pappafichi del bosco se ne stavano chiotti chiotti, fingendo peraltro tutti d'essere merli o passerotti, e coi teneri beccucci aperti; perché sentivo che G aveva qualche buona probabilità di finire steso morto fulminato, tra le foglie e i funghi del sottobosco, con il giaccone rosso fiammante bucato.
Colpevole e causa primaria del déjà-vu, secondo Magico Primario, è un famigerato artista manierista, tale Cellini Benvenuto, il quale, plagiando la scena del giaccone rosso, e numerose altre scene della serie tv del dr. House e non solo, era riuscito (con un colpo da maestro di marketing) a convincere gli storici che la sua Vita era antecedente alla serie del dr. House, che lui stesso era il modello ispiratore del cinico clinico zoppo veggente e megalomane, e che la parola americana "pizza" è traducibile in italiano (e in giapponese) solo in modo vago e con un giro di parole, per esempio come una sorta di piatto di pasta con sopra il pomodoro.
Ed ecco la prova del plagio (per maggior chiarezza di lettura e per evidenziare i nessi strutturali ho colorato le parole chiave):
"Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito e una grazia col Papa inistimabile. Non passava mai giorno, che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso che questo era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io che ero di sopra a l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo uno uomo che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in mano, vestito tutto di rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e piú lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva tirare cosí lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli fuoco e presi apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s'aveva messo la spada per saccenteria dinanzi, in un certo suo modo spagnolesco: che giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a chiamare, mi domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l'uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi dell'omicidio, e d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire particularmente le belle cose che in quella infernalità crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo" (*)
(*) Benvenuto Cellini, Vita (Libro primo, XXXVII)
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venerdì 12 marzo 2010
Un giorno da scioperati
La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono "Tutti sono uguali,
tutti rubano alla stessa maniera".
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.
E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.
F. De Gregori, La storia siamo noi
.
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono "Tutti sono uguali,
tutti rubano alla stessa maniera".
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.
E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.
F. De Gregori, La storia siamo noi
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mercoledì 10 marzo 2010
Il pane del sogno (spin-off di CEIsAAA)
Questo post può essere letto come spin-off della serie dei post dedicati alla corrispondenza esterna e interna di uno staterello dell’Asia anteriore antica (CEIsAAA).
Vorrei spendere qualche parola sul perché questo post sarebbe uno spin-off. Dicesi spin-off,
nel mondo dei media, un film, un telefilm, una serie televisiva, un fumetto o una serie fumettistica, un'opera o serie letteraria, un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente o traendo spunto da uno dei suoi personaggi (da Wikipedia).
Spin ha il significato di movimento rotatorio, ma può essere usato, in senso figurato, per descrivere una persona in preda al panico. La frase To spin a yarn, il dizionario, inglese-italiano e italiano-inglese, Hazon-Garzanti la traduce come il raccontare una storia. E off, fuori, fuori da, esterno, ecc.. Mettendo insieme le due parole si ottiene una storia raccontata al di fuori della storia principale, un po’ come un sentiero nel bosco che ad un certo punto si biforca, ponendo il viandante di fronte all’alternativa se continuare sulla vecchia strada o provare la nuova.
Lo spin-off deve sempre avere un personaggio che nella storia d’origine occupava un ruolo secondario, ma interessante; nel nostro caso il personaggio non è ovviamente né la corrispondenza esterna, né quella interna, e neppure l’Asia anteriore antica, il personaggio di questo post è lo strano modo di mettere insieme le parole in una frase che dovrebbe avere, ma non ci scommetterei sopra un calzino usato e bucato, un senso univoco e compiuto.
Oh! Le giornate nelle quali ci si sente la testa vuota! E viene a cullarci la voce di un amico completamente nullo!, così scriveva Charles Cros, mentre preparava il tè e imburrava le tartine (sopra e sotto come Pinocchio), e il tempo si fermava sul binario delle 5 e 3/4, e il gatto del Cheshire aveva appena finito di sparire, solo rimaneva nell’aria il vapore di un sorriso, e il disco di vinile girava sul piatto suonando Foxtrot.
Il primo lato si apre con Watcher of the skies, scritta sui tetti di una Napoli deserta (il gruppo era in Italia per il tour legato a Nursery Cryme). La desolazione della città campana ispira a Rutherford e a Banks l'idea di un mondo in cui la vita si è ormai estinta, osservato con stupore da visitatori alieni. [...]
[...] Un futuro distopico è delineato in Get'em out by friday, scritta intorno ad una prepotente operazione di speculazione edilizia, che porta addirittura ad abbassare l'altezza media del genere umano allo scopo di risparmiare spazio e e a far sloggiare gli inquilini meno abbienti dalle loro case per poi collocarli in abitazioni sempre più anguste ed inumane.
La seconda facciata si apre con il brano strumentale Horizons, eseguito alla chitarra acustica dal solo Hackett ed ispirato al primo movimento della Suite per violoncello BWV 1007 di Johann Sebastian Bach, ed è poi interamente occupata dalla monumentale suite Supper's Ready, in cui i temi biblici affrontati in From Genesis to Revelation tornano prepotentemente ad affacciarsi. [...] per una narrazione elegante, ricca di riferimenti storici, mitologici e biblici, carica di quei giochi di parole che continueranno ad essere una caratteristica delle liriche del gruppo. A tal proposito i testi dei Genesis furono spesso marcati come "intraducibili"; ciononostante, l'affermazione del gruppo fu pressoché inarrestabile al di fuori del Regno Unito prima che in patria (da Wikipedia).
Quando si ha la testa vuota si gira a caso su Internet e si finisce per leggere un articolo di Umberto Galimberti su Giovanni Semerano. Scrive UG:
Verso la fine degli anni Settanta Giovanni Spadolini, conosciuto Semerano, gli commissionò una ricerca dell’etimologia della parola "Italia", che allora veniva resa come "terra dei vitelli", da "vitulus" (vitello). Semerano segnalò che la "i" di "vitulus" era breve, mentre la "i" di "Italia" era lunga e perciò era presumibile che la parola venisse dall’accadico "atulu", che significa "terra del tramonto", cui corrispondeva la parola etrusca "hinthial" che vuol dire "ombra".
Terra del tramonto perché il punto di vista dell'osservatore erano le coste dell’Anatolia. Ecco che accade il miracolo, la testa si svuota completamente come la tazzina da tè della storiella zen; finalmente ci cade di dosso il macigno di vivere in una terra di eterni e allegri vitelli!
Ma è quando UG si mette a parlare male di Pallottino che si accende una scintilla, e anche se Giovanni Semerano non ne avesse azzeccata una in vita sua sai quanto me ne frega!
Straordinaria la fine dell’infinito di Anassimandro: il mare di Omero non è più la vela nera lontana lontana (quasi all'infinito) all’orizzonte, ma acqua e sabbia.
Semerano affermava di basarsi non sul metodo scientifico elaborato dalla linguistica comparata ma su assonanze fonetiche e su affinità di significato, seguendo dunque un procedimento paretimologico (da Wikipedia).
E qui la testa vuota prende il sopravvento, il cappellaio matto danza sul tavolo, parte lo spin-off, perché non è forse così che è nata la scrittura? Nella scrittura sumerica ad ogni segno o gruppo di segni corrispondeva una parola. La scrittura sumerica si sforzava fin dall’inizio di diventare quotidiana, corsiva e di uso comune (al contrario della scrittura egiziana, però gli egiziani avevano dalla loro parte dottori in marketing, infatti, hanno vinto tutte le battaglie e sono ancora tra noi con mummie e piramidi), come è possibile ciò? Ora come è possibile continuare a parlare dell’Egitto questo io non lo so, e m'importa quanto il mistero della prugna secca trovata in bocca a Tutankamon (a Giacobbo svelare il mistero della prugna secca); la mia domanda è come è possibile esprimere con segni, concetti difficilmente raffigurabili con i disegnini scemi degli egiziani? Elementare Watson, usando segni di parole dallo stesso suono, ma di significato diverso, per esempio il nome di persona En-lil-ti, tradotto in “Enlil ti conservi in vita”. Il segno per “conservare in vita” è un pittogramma a forma di freccia e, infatti, vuol dire “freccia”, ma ha lo stesso suono di “vita” in sumerico, concetto assai difficile da rappresentare con una figurina stilizzata. :)
Giacomo Debenedetti, citando Italo Svevo che citava Joyce, scrive nel Romanzo del Novecento (p. 581):
Quando il Joyce mi spiegava che il pane che un bambino sogna di mangiare non può essere lo stesso ch’egli mangia quando è desto perché il bambino non poteva trasportare nel sogno tutte le qualità del pane e che perciò il pane del sogno non poteva essere fatto della solita farina (flour) ma piuttosto di una farina designata con un suono simile (flower), fiore, che le toglieva delle qualità e gliene impartiva delle altre più proprie allo stato del sogno, io subito ricordai l’oggettività dell’Ulisse.
Si potrebbe pensare che molte parole scritte sono nate nei sogni degli scribi al lavoro. Chi era quel filosofo che elogiò l’ozio? Oh, che domanda oziosa... ;)
Ma si può spingere ancora avanti la carretta, accoppato Pallottino, esiliati in Anatolia gli etruscologi, fatti svanire – con una formula magica - gli indoeuropei, possiamo sognare un linguaggio comune che ci lega ai nostri compagni, gli altri animali?
La sensazione che si prova quando si comincia col dire una cosa e si viene a sapere di averne detta un’altra è quanto mai affascinante, una volta abituaticisi.
Un mattino, ricordo, volevo dire: “La fioritura dei ciliegi nel parco di Hibiya è molto bella questa primavera”, quello che in effetti dissi, come Wata-nabe-san mi spiegò più tardi, fu: “Noi uccelli color ciliegia voliamo sempre nel parco di Hibiya a primavera”. E’ un buon esempio di sparizione di parola: la parola “fioritura” era dileguata.
“Che ne è successo di fioritura?” chiesi a Wata-nabe-san quella mattina.
“Fioritura”, mi disse, “è diventata colore”, e combinandosi con la parola ciliegi, è divenuta una frase descrittiva. Vede” aggiunse, “lei ha usato il suffisso per uccelli".
(McKelway, Un suffisso per uccelli, in Gli umoristi moderni, Garzanti, 1971).
C’è stato un tempo, all’inizio della storia, che nessuno cadeva dal pero o si faceva beccare con un panino in mano, ma, come il Renzo del Manzoni che viveva da qualche parte nei pressi del lago di Como e ciarlava liberamente con mezzo mondo, le genti di quel tempo ciarlavano con genti di città e con genti di campagna e tutte le terre porgevano orecchio e, soprattutto, capivano, anche i cani e i gatti capivano (e viceversa). E se Renzo farfugliava fra i denti una frase con i puntini di sospensione l'oste della malora faceva subito sì con la testa, non solo ma Renzo chiamava tutti buoni figliuoli; un po’ come succede in Star Trek (dove anche l'alieno di forma e sostanza di un sasso con il muschio sopra è un bravo figliuolo, infatti, comunica con Spock, e prima o poi farà piangere il Capitano per qualcosa o per qualcuno o per qualcosa che ha perso qualcuno da qualche parte, benedetti 'sti alieni distratti), però Manzoni era nato a Milano, mentre i sumeri chissà da dove venivano, ma un bel giorno erano già lì, ad impastare infinite tavolette di terra e acqua.
.
Vorrei spendere qualche parola sul perché questo post sarebbe uno spin-off. Dicesi spin-off,
nel mondo dei media, un film, un telefilm, una serie televisiva, un fumetto o una serie fumettistica, un'opera o serie letteraria, un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente o traendo spunto da uno dei suoi personaggi (da Wikipedia).
Spin ha il significato di movimento rotatorio, ma può essere usato, in senso figurato, per descrivere una persona in preda al panico. La frase To spin a yarn, il dizionario, inglese-italiano e italiano-inglese, Hazon-Garzanti la traduce come il raccontare una storia. E off, fuori, fuori da, esterno, ecc.. Mettendo insieme le due parole si ottiene una storia raccontata al di fuori della storia principale, un po’ come un sentiero nel bosco che ad un certo punto si biforca, ponendo il viandante di fronte all’alternativa se continuare sulla vecchia strada o provare la nuova.
Lo spin-off deve sempre avere un personaggio che nella storia d’origine occupava un ruolo secondario, ma interessante; nel nostro caso il personaggio non è ovviamente né la corrispondenza esterna, né quella interna, e neppure l’Asia anteriore antica, il personaggio di questo post è lo strano modo di mettere insieme le parole in una frase che dovrebbe avere, ma non ci scommetterei sopra un calzino usato e bucato, un senso univoco e compiuto.
Oh! Le giornate nelle quali ci si sente la testa vuota! E viene a cullarci la voce di un amico completamente nullo!, così scriveva Charles Cros, mentre preparava il tè e imburrava le tartine (sopra e sotto come Pinocchio), e il tempo si fermava sul binario delle 5 e 3/4, e il gatto del Cheshire aveva appena finito di sparire, solo rimaneva nell’aria il vapore di un sorriso, e il disco di vinile girava sul piatto suonando Foxtrot.
Il primo lato si apre con Watcher of the skies, scritta sui tetti di una Napoli deserta (il gruppo era in Italia per il tour legato a Nursery Cryme). La desolazione della città campana ispira a Rutherford e a Banks l'idea di un mondo in cui la vita si è ormai estinta, osservato con stupore da visitatori alieni. [...]
[...] Un futuro distopico è delineato in Get'em out by friday, scritta intorno ad una prepotente operazione di speculazione edilizia, che porta addirittura ad abbassare l'altezza media del genere umano allo scopo di risparmiare spazio e e a far sloggiare gli inquilini meno abbienti dalle loro case per poi collocarli in abitazioni sempre più anguste ed inumane.
La seconda facciata si apre con il brano strumentale Horizons, eseguito alla chitarra acustica dal solo Hackett ed ispirato al primo movimento della Suite per violoncello BWV 1007 di Johann Sebastian Bach, ed è poi interamente occupata dalla monumentale suite Supper's Ready, in cui i temi biblici affrontati in From Genesis to Revelation tornano prepotentemente ad affacciarsi. [...] per una narrazione elegante, ricca di riferimenti storici, mitologici e biblici, carica di quei giochi di parole che continueranno ad essere una caratteristica delle liriche del gruppo. A tal proposito i testi dei Genesis furono spesso marcati come "intraducibili"; ciononostante, l'affermazione del gruppo fu pressoché inarrestabile al di fuori del Regno Unito prima che in patria (da Wikipedia).
Quando si ha la testa vuota si gira a caso su Internet e si finisce per leggere un articolo di Umberto Galimberti su Giovanni Semerano. Scrive UG:
Verso la fine degli anni Settanta Giovanni Spadolini, conosciuto Semerano, gli commissionò una ricerca dell’etimologia della parola "Italia", che allora veniva resa come "terra dei vitelli", da "vitulus" (vitello). Semerano segnalò che la "i" di "vitulus" era breve, mentre la "i" di "Italia" era lunga e perciò era presumibile che la parola venisse dall’accadico "atulu", che significa "terra del tramonto", cui corrispondeva la parola etrusca "hinthial" che vuol dire "ombra".
Terra del tramonto perché il punto di vista dell'osservatore erano le coste dell’Anatolia. Ecco che accade il miracolo, la testa si svuota completamente come la tazzina da tè della storiella zen; finalmente ci cade di dosso il macigno di vivere in una terra di eterni e allegri vitelli!
Ma è quando UG si mette a parlare male di Pallottino che si accende una scintilla, e anche se Giovanni Semerano non ne avesse azzeccata una in vita sua sai quanto me ne frega!
Straordinaria la fine dell’infinito di Anassimandro: il mare di Omero non è più la vela nera lontana lontana (quasi all'infinito) all’orizzonte, ma acqua e sabbia.
Semerano affermava di basarsi non sul metodo scientifico elaborato dalla linguistica comparata ma su assonanze fonetiche e su affinità di significato, seguendo dunque un procedimento paretimologico (da Wikipedia).
E qui la testa vuota prende il sopravvento, il cappellaio matto danza sul tavolo, parte lo spin-off, perché non è forse così che è nata la scrittura? Nella scrittura sumerica ad ogni segno o gruppo di segni corrispondeva una parola. La scrittura sumerica si sforzava fin dall’inizio di diventare quotidiana, corsiva e di uso comune (al contrario della scrittura egiziana, però gli egiziani avevano dalla loro parte dottori in marketing, infatti, hanno vinto tutte le battaglie e sono ancora tra noi con mummie e piramidi), come è possibile ciò? Ora come è possibile continuare a parlare dell’Egitto questo io non lo so, e m'importa quanto il mistero della prugna secca trovata in bocca a Tutankamon (a Giacobbo svelare il mistero della prugna secca); la mia domanda è come è possibile esprimere con segni, concetti difficilmente raffigurabili con i disegnini scemi degli egiziani? Elementare Watson, usando segni di parole dallo stesso suono, ma di significato diverso, per esempio il nome di persona En-lil-ti, tradotto in “Enlil ti conservi in vita”. Il segno per “conservare in vita” è un pittogramma a forma di freccia e, infatti, vuol dire “freccia”, ma ha lo stesso suono di “vita” in sumerico, concetto assai difficile da rappresentare con una figurina stilizzata. :)
Giacomo Debenedetti, citando Italo Svevo che citava Joyce, scrive nel Romanzo del Novecento (p. 581):
Quando il Joyce mi spiegava che il pane che un bambino sogna di mangiare non può essere lo stesso ch’egli mangia quando è desto perché il bambino non poteva trasportare nel sogno tutte le qualità del pane e che perciò il pane del sogno non poteva essere fatto della solita farina (flour) ma piuttosto di una farina designata con un suono simile (flower), fiore, che le toglieva delle qualità e gliene impartiva delle altre più proprie allo stato del sogno, io subito ricordai l’oggettività dell’Ulisse.
Si potrebbe pensare che molte parole scritte sono nate nei sogni degli scribi al lavoro. Chi era quel filosofo che elogiò l’ozio? Oh, che domanda oziosa... ;)
Ma si può spingere ancora avanti la carretta, accoppato Pallottino, esiliati in Anatolia gli etruscologi, fatti svanire – con una formula magica - gli indoeuropei, possiamo sognare un linguaggio comune che ci lega ai nostri compagni, gli altri animali?
La sensazione che si prova quando si comincia col dire una cosa e si viene a sapere di averne detta un’altra è quanto mai affascinante, una volta abituaticisi.
Un mattino, ricordo, volevo dire: “La fioritura dei ciliegi nel parco di Hibiya è molto bella questa primavera”, quello che in effetti dissi, come Wata-nabe-san mi spiegò più tardi, fu: “Noi uccelli color ciliegia voliamo sempre nel parco di Hibiya a primavera”. E’ un buon esempio di sparizione di parola: la parola “fioritura” era dileguata.
“Che ne è successo di fioritura?” chiesi a Wata-nabe-san quella mattina.
“Fioritura”, mi disse, “è diventata colore”, e combinandosi con la parola ciliegi, è divenuta una frase descrittiva. Vede” aggiunse, “lei ha usato il suffisso per uccelli".
(McKelway, Un suffisso per uccelli, in Gli umoristi moderni, Garzanti, 1971).
C’è stato un tempo, all’inizio della storia, che nessuno cadeva dal pero o si faceva beccare con un panino in mano, ma, come il Renzo del Manzoni che viveva da qualche parte nei pressi del lago di Como e ciarlava liberamente con mezzo mondo, le genti di quel tempo ciarlavano con genti di città e con genti di campagna e tutte le terre porgevano orecchio e, soprattutto, capivano, anche i cani e i gatti capivano (e viceversa). E se Renzo farfugliava fra i denti una frase con i puntini di sospensione l'oste della malora faceva subito sì con la testa, non solo ma Renzo chiamava tutti buoni figliuoli; un po’ come succede in Star Trek (dove anche l'alieno di forma e sostanza di un sasso con il muschio sopra è un bravo figliuolo, infatti, comunica con Spock, e prima o poi farà piangere il Capitano per qualcosa o per qualcuno o per qualcosa che ha perso qualcuno da qualche parte, benedetti 'sti alieni distratti), però Manzoni era nato a Milano, mentre i sumeri chissà da dove venivano, ma un bel giorno erano già lì, ad impastare infinite tavolette di terra e acqua.
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domenica 7 marzo 2010
CEIsAAA, IV
Gli eredi di Oliver (Ollio) Sassu, direttore degli scavi archeologici a Favbrillhà, offrono al popolo di Internet la trascrizione fedele, da un supporto magnetico – ahimè, ahinoi, ahivoi, purtroppo parzialmente smagnetizzato -, degli atti di una risolutiva e definitiva riunione della Fondazione Favbrillhà (FF). La memoria analogica del nastro magnetico custodiva gli Atti dell’Assemblea di Primavera dei Soci Fondatori, tenuta nella soffitta della sede distaccata di Los Angeles, della Pierpont Morgan Library, il sette di marzo dell’anno mille novecentoquarantasei.
Gli argomenti all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile, furono i seguenti:
1) lettura della memoria del Socio Pio de Pio, Tavoletta 777.b: ornitomanzia e questioni bibliche;
2) lettura della memoria del Socio O.K. Allright, Tavoletta 777.b: la scienza tradita in cucina;
3) varie ed eventuali.
[…] vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci in una soffitta polverosa e piena di topi! Non è proprio possibile affittare l’Auditorium? Manco fossimo comunisti!!!
Segretario, C. Pancalakaprakampa – Di nuovo con ‘sta storia del comunismo… va bene, va bene…
O.K. Allright – Sì?
C.P. – ‘osa?
O.K.A. – Oso?
C.P. – ‘osa osa ‘osa?
O.K.A. – Lei ha detto “osa”…
C.P. - No, io ho detto “’osa”…
O.K.A. – Cosa?
C.P. – ‘osa ikke ‘osa!?
O.K.A. – Chi osa cosa, o ch’io’so cosa?
Pio de Pio – [rumori, pugni sul tavolo] Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Ascolti!… Si sta facendo notte! E io vorrei iniziare… [rumori, parole intraducibili]… ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque… ma dove sono finiti i miei occhiali [risatine in sottofondo]… bah!, sì,… che m’importa a me…
O.K.A. – Per una che va storta una dritta c’è! [rumori, sghignazzi, pugni sul tavolo]
P. de P. - … la tavoletta 777.b io la conosco a memoria, io!
UM.MA LUGAL-MA
A.NA Awauwauwauwauwauwauwaa KI.BI.MA
DINGIRMEŠ eš-da aš-su-li PAP-ru…
Arne Otto Saknussen – Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Io protesto! Non tutti i presenti, e immagino neppure gli assenti, sono disposti ad ascoltare una tavoletta che parla alle 10 di sera! Io chiedo che l’esimio collega e stimato filologo de Pio, ci traduca la tavoletta, in una lingua vivente!
P.de P.- [sottovoce] Che vergogna non conoscere le lingue morte [ad alta voce] Allora, dunque, dunque… sì, nella lettera c’è scritto…
1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che il Dio degli Eserciti possa mantenerti in salute!
4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde una colomba bianca volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.Un’aquila volò da questa parte, con volo bello e maestoso verso la casa del mio signore.
7.Vi recitiamo lo scongiuro. Ci tocchiamo le ali (?)
8.Poi […] un’aquila svenne (?)”
9.[intraducibile]
10.[…] un’aquila voi (auguri) vedeste,
11.[da questa par]te andò, poi [in avanti] da lontano (con volo) basso andò, poi essa volò via.
12.[intraducibile]
13.Voi (auguri) l’aquila individuaste (e fin qui), tutto buono, ma poi guadaste il fiume, (e quella) piantaste in asso!
14.Poi così ci scriveste:“Gli uccelli bianchi del fiume ci circondarono tutti, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(noi) a quel punto ci buttammo (ci lavammo i vestiti?) giù nel fiume BLUBLUBLU!”
16.[…] ali bianche nel cielo […] casa delle tavolette […]
17.Dunque, (dunque gli auguri) agiscono così, così piantano in asso gli uccelli bianchi del fiume!
18.Se (agli auguri) in un qualche posto un’aquila […] nel posto dove si leva, non l’attendono appunto, là?
19.E (voi) perché l’aquila non attendeste?
20.Se essa fosse venuta in avanti con volo bello, sarebbe poi venuta da questa parte con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (vi) ho perdonato la questione dell’aquila.
22.Marciate dritto e non rifatelo più!
23.Se no, vi capiterà di inciampare sui vostri stessi corpi!
24.In verità, (in verità vi dico) che il fannullone dialoga con la propria testa nel cesto!
25.Su, su, disponete uccelli favorevoli giù nel fiume, per favore.
26.E offrite una colomba al Dio degli Eserciti!
27.Su, di grazia, (la questione della consultazione oracolare e l’ornitomanzia) giù al fiume è MOLTO importante (per me)!
28.Osservate bene uccelli favorevoli giù nel fiume.
29.E guadate il fiume, solo quando il fiume è in secca!
30.Ecco, io l’unto del Signore allo scriba Mosè,
31.e molla codesta cesta! (che non sei più un fantolino abbandonato nel fiume) ho detto.
32.Cordiali saluti, un bacio al tuo bimbo IsaU, e uno alla tua sposa REbeccA.
33.P.s. Oh! ricordati della testa nel cesto!
La tavoletta 777.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante dell’esistenza di pratiche divinatorie ornitomantiche all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda l’ornitomanzia e le consultazioni oracolari. La divinazione era una pratica molto usata dai sovrani ittiti, quindi non ci meraviglia scoprire che anche in epoca paleoittita i sovrani di questo misterioso regno, dal nome tuttora sconosciuto, praticassero tecniche mantiche.
Il re comunicava all’augure i quesiti da porre alla divinità e, avvenuta la consultazione, minuziosamente registrata dagli scribi su questa tavoletta, le risposte erano fornite al re.
Lo stile di questa lettera è caratterizzato da una notevole sobrietà, proprietà di linguaggio e stringatezza formale. La lettera è il resoconto dettagliato di osservazioni fatte dagli auguri sul volo di alcuni uccelli: due aquile e alcuni non meglio identificati uccelli bianchi del fiume. La lettera comprende anche un toponimo: il fiume BLUBLUBLU (scritto in sumerico), da identificare probabilmente con il fiume Imrallaja, distante forse una giornata di marcia dalla futura Hattusa. In 777.b, è il sovrano che scrive agli auguri, tramite il funzionario locale Wauwauwauwauwauwauwa, per rimproverarli, colpevoli di non aver seguito fedelmente le norme stabilite per la consultazione: avvistata un’aquila, che dovevano osservare, avevano invece guadato il fiume senza seguirla, come indicava il rituale (Recto, 13). A questo punto il re spiega come in realtà l’osservazione avrebbe dovuto svolgersi (Recto, 18-20); quindi esorta gli auguri a riprendere le consultazioni senza commettere altre negligenze (Verso, 25-29). Il re si comporta paternamente con il funzionario locale negligente, lo perdona, e lo ammonisce dicendogli di non farlo più, infine per rasserenare il funzionario gli racconta una piccola facezia (Verso, 23-24), quindi lo saluta con affetto.
La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al funzionario locale, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Il poscritto, sul margine sinistro della tavoletta, è un erudito commento dello scriba Mosè... [rumori, mugugni]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Isaù e Rebecca, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori]
[nastro magnetico danneggiato]
O.K. Allright – […] Traduzione e interpretazione della tavoletta 777.b:
1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che gli Dei possano mantenerti in salute!
4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde un piccione bello grasso volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.O straziante bellezza del creato, altri stupendi e meravigliosi piccioni s-KA-KA.u hanno seguito il primo, in (volo alto e bello) verso la casa del mio signore.
7.Perché io ho recitato una formula magica, che ha incantato le loro ali.
8.[intraducibile]
9.Se tu, mio signore, questi piccioni hai gradito, allora piaccia al mio signore di scrivermi,
10.ed io manderò da te una nube nera di piccioni, e ancora piccioni e ancora e ancora (per te)!”
11.Vedi, i piccioni, che tu mi hai mandato in volo,
12.non solo non li ho assaggiati,
13.ma neppure visti, per dire se fossero buoni o no. Sei proprio un as(ino)!
14.(volando alti tra le nubi) hanno lordato la mia casa, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(essi) si sono buttati (si sono lavate le vesti?) giù nel fiume BLUBLUBLU.
16.Poi i piccioni sono volati via, (sono tornati alla) casa delle tavolette, (da te!)
17.I (funzionari zelanti) non agiscono così, non piantano in asso i piccioni s-KA-KA.u al fiume!
18.Se (ai funzionari zelanti) in un qualche posto, un piccione bello grasso appare, (ebbene) nel posto dove si leva, non l’acchiappano, con le reti, là?
19.E (tu) perché il piccione bello grasso non hai preso?
20.Se esso fosse venuto in avanti con volo bello, sarebbe poi venuto da questa parte, con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (ti) ho perdonato la storia dei piccioni s-KA-KA.u!
22.Marcia dritto e non lo rifare più!
23.Se no, ti capiterà di uccidere (te stesso) con la tua stessa testa!
24.Come sta ZA.ZA?
25.Su, su, non mi mandare più piccioni in volo, per favore.
26.Mandami solo piccioni cotti, (che gli Dei possano mantenerti in salute!)
27.Su, di grazia, cuocere i piccioni in un grande forno, giù al fiume, è MOLTO importante (per me)!
28.E osserva bene il tempo di cottura.
29.E levali dal forno, solo quando la pelle è ben cotta!
30.Ecco, ungili coll’olio!
31.Porgi orecchio a quel che ho detto!
32.Saluti, e baci a Uhu e Bekka.
33.P.s. Ah! ricordati della salsa!
Dalla lettera 777.b si vede come la monarchia orzoweiana sia stata, in ogni epoca, una monarchia fortemente centralizzata, assolutista, dove qualsiasi questione doveva passare attraverso le mani del re, prima di essere portata a termine. E’ quindi scarsamente supportata dalle lettere, la tesi di uno di noi [n.d.t., Arne Otto Saknussen] che vede nello stato di Orzowei, almeno in alcune sue fasi, una monarchia feudale. Al contrario, il re appare interessarsi di tutto, dall’amministrazione della giustizia alla cottura di una coppia di piccioni. La tavoletta 777.b ad una prima lettura sembrerebbe una lettera di argomento gastronomico, ma al suo interno nasconde un vero e proprio dramma storico. Il carattere centralizzato della monarchia orzoweiana impedisce al re di comprendere la portata di una scoperta che avrebbe potuto rivoluzionare il sistema irrigidito delle comunicazioni, e cioè l’addestramento di piccioni viaggiatori (Recto, 7). Il re è vecchio, quasi un bacucco, ed è più interessato alle esigenze del suo triste sacco (Verso, 27), che al radioso progresso nelle comunicazioni, un po’ come il vecchio Nicomaco, nella Clizia del Machiavelli, che, per trovarsi abile a una giostra amorosa, si proponeva di mangiare uno pippione grosso, arrosto così verdemezzo che sanguigni un poco. O la miope ottusità della classe dirigente!... quasi pari all'astigmatismo di certi filologi...
.
Gli argomenti all’ordine del giorno, di quel giorno memorabile, furono i seguenti:
1) lettura della memoria del Socio Pio de Pio, Tavoletta 777.b: ornitomanzia e questioni bibliche;
2) lettura della memoria del Socio O.K. Allright, Tavoletta 777.b: la scienza tradita in cucina;
3) varie ed eventuali.
[…] vorrei sapere perché, dovunque ci riuniamo, in ogni modo dobbiamo riunirci in una soffitta polverosa e piena di topi! Non è proprio possibile affittare l’Auditorium? Manco fossimo comunisti!!!
Segretario, C. Pancalakaprakampa – Di nuovo con ‘sta storia del comunismo… va bene, va bene…
O.K. Allright – Sì?
C.P. – ‘osa?
O.K.A. – Oso?
C.P. – ‘osa osa ‘osa?
O.K.A. – Lei ha detto “osa”…
C.P. - No, io ho detto “’osa”…
O.K.A. – Cosa?
C.P. – ‘osa ikke ‘osa!?
O.K.A. – Chi osa cosa, o ch’io’so cosa?
Pio de Pio – [rumori, pugni sul tavolo] Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Ascolti!… Si sta facendo notte! E io vorrei iniziare… [rumori, parole intraducibili]… ma con la lettura della mia relazione, e che diamine!… Dunque, dunque… ma dove sono finiti i miei occhiali [risatine in sottofondo]… bah!, sì,… che m’importa a me…
O.K.A. – Per una che va storta una dritta c’è! [rumori, sghignazzi, pugni sul tavolo]
P. de P. - … la tavoletta 777.b io la conosco a memoria, io!
UM.MA LUGAL-MA
A.NA Awauwauwauwauwauwauwaa KI.BI.MA
DINGIRMEŠ eš-da aš-su-li PAP-ru…
Arne Otto Saknussen – Segretario!… Segretarioooo cipancalakaprakampaaa!!! Io protesto! Non tutti i presenti, e immagino neppure gli assenti, sono disposti ad ascoltare una tavoletta che parla alle 10 di sera! Io chiedo che l’esimio collega e stimato filologo de Pio, ci traduca la tavoletta, in una lingua vivente!
P.de P.- [sottovoce] Che vergogna non conoscere le lingue morte [ad alta voce] Allora, dunque, dunque… sì, nella lettera c’è scritto…
1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che il Dio degli Eserciti possa mantenerti in salute!
4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde una colomba bianca volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.Un’aquila volò da questa parte, con volo bello e maestoso verso la casa del mio signore.
7.Vi recitiamo lo scongiuro. Ci tocchiamo le ali (?)
8.Poi […] un’aquila svenne (?)”
9.[intraducibile]
10.[…] un’aquila voi (auguri) vedeste,
11.[da questa par]te andò, poi [in avanti] da lontano (con volo) basso andò, poi essa volò via.
12.[intraducibile]
13.Voi (auguri) l’aquila individuaste (e fin qui), tutto buono, ma poi guadaste il fiume, (e quella) piantaste in asso!
14.Poi così ci scriveste:“Gli uccelli bianchi del fiume ci circondarono tutti, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(noi) a quel punto ci buttammo (ci lavammo i vestiti?) giù nel fiume BLUBLUBLU!”
16.[…] ali bianche nel cielo […] casa delle tavolette […]
17.Dunque, (dunque gli auguri) agiscono così, così piantano in asso gli uccelli bianchi del fiume!
18.Se (agli auguri) in un qualche posto un’aquila […] nel posto dove si leva, non l’attendono appunto, là?
19.E (voi) perché l’aquila non attendeste?
20.Se essa fosse venuta in avanti con volo bello, sarebbe poi venuta da questa parte con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (vi) ho perdonato la questione dell’aquila.
22.Marciate dritto e non rifatelo più!
23.Se no, vi capiterà di inciampare sui vostri stessi corpi!
24.In verità, (in verità vi dico) che il fannullone dialoga con la propria testa nel cesto!
25.Su, su, disponete uccelli favorevoli giù nel fiume, per favore.
26.E offrite una colomba al Dio degli Eserciti!
27.Su, di grazia, (la questione della consultazione oracolare e l’ornitomanzia) giù al fiume è MOLTO importante (per me)!
28.Osservate bene uccelli favorevoli giù nel fiume.
29.E guadate il fiume, solo quando il fiume è in secca!
30.Ecco, io l’unto del Signore allo scriba Mosè,
31.e molla codesta cesta! (che non sei più un fantolino abbandonato nel fiume) ho detto.
32.Cordiali saluti, un bacio al tuo bimbo IsaU, e uno alla tua sposa REbeccA.
33.P.s. Oh! ricordati della testa nel cesto!
La tavoletta 777.b dell’archivio di Favbrillhà è la prova lampante dell’esistenza di pratiche divinatorie ornitomantiche all’inizio del terzo millennio a.C in Anatolia, infatti, riguarda l’ornitomanzia e le consultazioni oracolari. La divinazione era una pratica molto usata dai sovrani ittiti, quindi non ci meraviglia scoprire che anche in epoca paleoittita i sovrani di questo misterioso regno, dal nome tuttora sconosciuto, praticassero tecniche mantiche.
Il re comunicava all’augure i quesiti da porre alla divinità e, avvenuta la consultazione, minuziosamente registrata dagli scribi su questa tavoletta, le risposte erano fornite al re.
Lo stile di questa lettera è caratterizzato da una notevole sobrietà, proprietà di linguaggio e stringatezza formale. La lettera è il resoconto dettagliato di osservazioni fatte dagli auguri sul volo di alcuni uccelli: due aquile e alcuni non meglio identificati uccelli bianchi del fiume. La lettera comprende anche un toponimo: il fiume BLUBLUBLU (scritto in sumerico), da identificare probabilmente con il fiume Imrallaja, distante forse una giornata di marcia dalla futura Hattusa. In 777.b, è il sovrano che scrive agli auguri, tramite il funzionario locale Wauwauwauwauwauwauwa, per rimproverarli, colpevoli di non aver seguito fedelmente le norme stabilite per la consultazione: avvistata un’aquila, che dovevano osservare, avevano invece guadato il fiume senza seguirla, come indicava il rituale (Recto, 13). A questo punto il re spiega come in realtà l’osservazione avrebbe dovuto svolgersi (Recto, 18-20); quindi esorta gli auguri a riprendere le consultazioni senza commettere altre negligenze (Verso, 25-29). Il re si comporta paternamente con il funzionario locale negligente, lo perdona, e lo ammonisce dicendogli di non farlo più, infine per rasserenare il funzionario gli racconta una piccola facezia (Verso, 23-24), quindi lo saluta con affetto.
La tavoletta presenta minime incomprensioni e oscurità, da imputare sicuramente ad uno scriba distratto, per esempio l’invito del re allo scriba Mosè di lasciare la presa sulla cesta è interpretato come un oscuro ordine al funzionario locale, ebbene proprio da questi fraintendimenti appare luminosa la presenza nell’archivio di Favbrillhà di un’aneddotica paleobiblica [rumori, fischi, pugni sul tavolo]… Il poscritto, sul margine sinistro della tavoletta, è un erudito commento dello scriba Mosè... [rumori, mugugni]… Fondamentale, non lo dirò mai abbastanza, è la copiosa (e per me commovente) presenza di un’onomastica biblica, per esempio in questa lettera i nomi Mosè, Isaù e Rebecca, nell'archivio di Favbrillhà… [applausi, fischi, rumori]
[nastro magnetico danneggiato]
O.K. Allright – […] Traduzione e interpretazione della tavoletta 777.b:
1.Così parla il re:
2.A Wauwauwauwauwauwauwa, dì.
3.Che gli Dei possano mantenerti in salute!
4.Così tu mi hai scritto:
5.“Dalla valle verde un piccione bello grasso volò via, volò giù al fiume BLUBLUBLU.
6.O straziante bellezza del creato, altri stupendi e meravigliosi piccioni s-KA-KA.u hanno seguito il primo, in (volo alto e bello) verso la casa del mio signore.
7.Perché io ho recitato una formula magica, che ha incantato le loro ali.
8.[intraducibile]
9.Se tu, mio signore, questi piccioni hai gradito, allora piaccia al mio signore di scrivermi,
10.ed io manderò da te una nube nera di piccioni, e ancora piccioni e ancora e ancora (per te)!”
11.Vedi, i piccioni, che tu mi hai mandato in volo,
12.non solo non li ho assaggiati,
13.ma neppure visti, per dire se fossero buoni o no. Sei proprio un as(ino)!
14.(volando alti tra le nubi) hanno lordato la mia casa, mia moglie, i miei figli, i miei servi e (pure) gli scribi,
15.(essi) si sono buttati (si sono lavate le vesti?) giù nel fiume BLUBLUBLU.
16.Poi i piccioni sono volati via, (sono tornati alla) casa delle tavolette, (da te!)
17.I (funzionari zelanti) non agiscono così, non piantano in asso i piccioni s-KA-KA.u al fiume!
18.Se (ai funzionari zelanti) in un qualche posto, un piccione bello grasso appare, (ebbene) nel posto dove si leva, non l’acchiappano, con le reti, là?
19.E (tu) perché il piccione bello grasso non hai preso?
20.Se esso fosse venuto in avanti con volo bello, sarebbe poi venuto da questa parte, con volo bello.
21.Ecco, (io) la Maestà, (ti) ho perdonato la storia dei piccioni s-KA-KA.u!
22.Marcia dritto e non lo rifare più!
23.Se no, ti capiterà di uccidere (te stesso) con la tua stessa testa!
24.Come sta ZA.ZA?
25.Su, su, non mi mandare più piccioni in volo, per favore.
26.Mandami solo piccioni cotti, (che gli Dei possano mantenerti in salute!)
27.Su, di grazia, cuocere i piccioni in un grande forno, giù al fiume, è MOLTO importante (per me)!
28.E osserva bene il tempo di cottura.
29.E levali dal forno, solo quando la pelle è ben cotta!
30.Ecco, ungili coll’olio!
31.Porgi orecchio a quel che ho detto!
32.Saluti, e baci a Uhu e Bekka.
33.P.s. Ah! ricordati della salsa!
Dalla lettera 777.b si vede come la monarchia orzoweiana sia stata, in ogni epoca, una monarchia fortemente centralizzata, assolutista, dove qualsiasi questione doveva passare attraverso le mani del re, prima di essere portata a termine. E’ quindi scarsamente supportata dalle lettere, la tesi di uno di noi [n.d.t., Arne Otto Saknussen] che vede nello stato di Orzowei, almeno in alcune sue fasi, una monarchia feudale. Al contrario, il re appare interessarsi di tutto, dall’amministrazione della giustizia alla cottura di una coppia di piccioni. La tavoletta 777.b ad una prima lettura sembrerebbe una lettera di argomento gastronomico, ma al suo interno nasconde un vero e proprio dramma storico. Il carattere centralizzato della monarchia orzoweiana impedisce al re di comprendere la portata di una scoperta che avrebbe potuto rivoluzionare il sistema irrigidito delle comunicazioni, e cioè l’addestramento di piccioni viaggiatori (Recto, 7). Il re è vecchio, quasi un bacucco, ed è più interessato alle esigenze del suo triste sacco (Verso, 27), che al radioso progresso nelle comunicazioni, un po’ come il vecchio Nicomaco, nella Clizia del Machiavelli, che, per trovarsi abile a una giostra amorosa, si proponeva di mangiare uno pippione grosso, arrosto così verdemezzo che sanguigni un poco. O la miope ottusità della classe dirigente!... quasi pari all'astigmatismo di certi filologi...
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