domenica 4 ottobre 2009

All The Roadrunning (Wunderkammer n. 7, parte terza)

Giunto alla terza parte del post dedicato al settimo esempio di wunderkammer vedo bene che è necessario - prima di proseguire il cammino e giungere alla meta - fare una sosta, come se fossi un turista a zonzo per contrade sconosciute, anche se amene. Ok… a parte togliersi le scarpe e massaggiarsi i piedi, e guardare le nuvole bianche che si dipanano lente nel cielo azzurro, il viandante in sosta usa misurare la strada percorsa, dare una occhiata alla bussola e alla carta geografica del territorio, anche solo per non dare l’impressione alla gente del posto di essere una formica scempia e vagabonda, che vaga qua e là cercando la via per fuggire il più lontano possibile dal formicaio.
Quindi ho fatto un disegnino, che non linko qui perché ho lo scanner nell’armadio (non che sia rotto solo che sul tavolo mi manca lo spazio). Comunque, immaginate tutte le wunderkammern del mondo (W) come fossero racchiuse dentro un cerchio, all’interno di questo cerchio disegnate un altro cerchio ma prendendo come centro un punto qualsiasi tranne che il punto centrale del cerchio più grande. Chiamate W’ questo cerchio (sono le "camere delle necessita appagate", per esempio la camera n. 29 di una locanda di Reykjavik). Fatto? Ora disegnate un cerchio più piccolo interamente contenuto in W’ prendendo come centro un punto qualsiasi di W’ tranne che il suo punto centrale. Chiameremo questo cerchio W’’, ovvero l’insieme delle "camere non ortodosse delle necessità appagate" (per esempio la tavola da pranzo del Capitano Nemo).
Fatto? Ora disegnate un cerchio più piccolo interamente contenuto in W’’ prendendo come centro un punto qualsiasi di W’’ tranne che il suo punto centrale. Chiameremo questo cerchio W’’’, ovvero l’insieme delle "aule delle meraviglie dubitative" (per esempio una qualsiasi stanza dove accade un dialogo fra sordi).
Fatto? Bene, vi sembra di disegnare un frattale? Ne siete certi? Vedo bene che è necessario autocitarmi (da Opus incerta, 2007):

“Il termine frattale deriva dalla parola latina frangere, cioè suddividere un oggetto in frammenti irregolari. Il termine frattale è stato coniato dal matematico Benoit Mandelbrot nel 1975. Mandelbrot scoprì che alcune strane curve inventate nel corso degli ultimi due secoli dai matematici Peano, Cantor, von Koch e altri, non erano stramberie matematiche da nascondere in solaio ma elementi di una nuova geometria: la geometria frattale. Di questa geometria sono membri onorari anche alcuni oggetti naturali come le nuvole, i cristalli di neve, le coste della Gran Bretagna, le montagne (ma non le colline): «Le nubi non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste non sono cerchi né la luce di un lampo viaggia in linea retta» (B. Mandelbrot, The Fractal Geometry of Nature). Sono oggetti frattali.
Il tipico esempio di oggetto frattale è il frammento di roccia, ha una forma simile alla montagna da cui è stato staccato, e un frammento del frammento ha ancora una forma simile alla montagna, e così via… Ma il gioco non può durare all’infinito, poiché molto prima di arrivare all’atomo la somiglianza con la montagna scompare.
In realtà affermare che un frammento di roccia è simile a una montagna è solo un’astrazione mentale, e non solo perché se cambia la dimensione dell’oggetto cambia anche lo strumento usato per l’operazione di frammentazione (una piccozza da geologo non può spezzare un granello di sabbia). Noi, fedeli spettatori di SuperQuark lo sappiamo: esiste un avvoltoio che spacca le uova di cui è ghiotto con un sasso; la lontra marina utilizza un ciottolo come martello e la propria pancia come incudine per rompere le conchiglie; le cornacchie spaccano le noci facendo cadere sopra delle piccole pietre; e infine certe cornacchie gettano le noci sopra le strisce pedonali della strada (e in questo caso le pietre sono le ruote delle automobili) e poi quando il semaforo è verde, ne mangiano i gherigli. Ma costruire uno strumento significa avere un’immagine mentale di un oggetto che non esiste in natura. Il primo manufatto umano è un ciottolo scheggiato per ricavare un margine tagliente (chopper), e risale a circa due milioni e seicentomila anni fa. Ma se il ciottolo scheggiato assomiglia al ciottolo integro perché lavorarlo?
Non solo gli oggetti frattali non sono veri frattali, ma anche i frattali generati dal computer sono solo pseudo-frattali (analogamente i numeri generati da un programma informatico non sono veramente casuali), perché le operazioni matematiche eseguite da un computer, in un tempo finito, non sono infinite.
Con buona pace dell’etimologia il termine frattale non spiega cos’è un frattale, anzi l’azione di suddividere un oggetto in frammenti irregolari non necessariamente è un’azione frattale. Puoi dividere un capello in quattro per la lunghezza, ma il risultato non è un frattale ma quattro capelli spessi un quarto il capello originario.
Una figura geometrica è un frattale se rispetta due proprietà: deve essere autosomigliante, cioè al variare della scala assomiglia sempre a sé stesso, e deve avere una dimensione frazionaria. Perché una figura geometrica frattale deve avere una dimensione frazionaria? Per rispondere a questa domanda si deve riflettere sulle due proprietà che definiscono il frattale (autosomiglianza e dimensione frazionaria): esse sono connesse l’una con l’altra.
Consideriamo tre entità geometriche: la linea, il quadrato e il cubo. La linea ha dimensione uno. Il quadrato ha dimensione due. Il cubo ha dimensione tre. La dimensione è data dall’esponente del rapporto tra le unità di misura: ad esempio una linea lunga 20 cm è formata da 20 segmenti di 1 cm, ovvero da 200 segmenti di 1 mm, il rapporto tra 200 e 20 è 10:1 cioè 10'. E uno è la dimensione della linea.
La dimensione può essere determinata anche calcolando il logaritmo del rapporto tra le misure. Ad esempio scalando di quattro unità il lato di un quadrato di lato x si ottiene un quadrato contenente 16 quadrati di lato x, quindi log 16 / log 4 = log 4'' / log 4 = 2(log 4 / log 4) = 2. Scalando di quattro unità il lato di un cubo di lato x si ottiene un cubo contenente 64 cubetti di lato x. La dimensione del cubo è log 64 / log 4 = log 4''' / log 4 = 3(log 4 / log 4) = 3.
La linea gode della proprietà dell’autosomiglianza, cioè può essere divisa in n parti (n = n'), e ogni parte è grande 1/n della linea originale. Il segmento di linea può tornare identico alla linea originale se ingrandito di un fattore n. Un quadrato è una figura autosomigliante a due dimensioni, e si può ottenere unendo insieme n'' quadrati grandi 1/n la grandezza del quadrato d’origine. E infine un cubo è una figura autosomigliante a tre dimensioni, infatti può essere scomposto in n''' cubetti di grandezza 1/n del cubo originale. Queste figure geometriche sono autosomiglianti, però possiedono dimensioni intere, quindi non sono frattali.
Consideriamo due punti sul piano α e β. Noi siamo in α e vogliamo giungere in β. Percorriamo il primo terzo della strada in linea retta, poi deviamo a sinistra di 60°, quindi a destra di 60°, e poi di nuovo a sinistra di 60°, sempre coprendo un terzo della distanza tra α e β. Alla fine otteniamo una curva lunga 4/3 della distanza da α a β. Se si ripete per un numero infinito di volte la procedura, su ogni tratto della curva, si ottiene una curva di lunghezza infinita, e di dimensione frazionaria, infatti log 4 / log 3 = 1,2618... E ogni tratto della curva ripete il profilo della curva completa, cioè la curva è autosomigliante. Questa curva è un frattale, ed è chiamata curva di Koch.
Le curve frattali possiedono una dimensione compresa fra uno e due, esclusi. Le superfici frattali possiedono una dimensione compresa fra due e tre, esclusi.”

Ora che siamo dentro un’aula delle meraviglie dubitative possiamo sempre fuggire da una finestra - se l’aula si trova al pianoterra - e andare a spasso per il Giardino di Boboli, ché non siamo prigionieri di un insieme frattale, ma di una semplice routine.
Per chiudere degnamente il post devo ancora esaminare la figura del “direttore di orchestra”, ma prima un’ultima citazione (sempre da Opus incerta) per chiarire tutti i lati del problema:

“Il fenomeno psichico della pareidolia (1) è antico almeno quanto l’arte figurativa. Nel suo Trattato della Pittura Leonardo consiglia un utile espediente per «aumentare e destare l’ingegno»:

Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l'ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di varî misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lí vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne' loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t'immaginerai.
Non isprezzare questo mio parere, nel quale ti si ricorda che non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de' muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne' quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l'ingegno del pittore a nuove invenzioni sí di componimenti di battaglie, d'animali e d'uomini, come di varî componimenti di paesi e di cose mostruose, come di diavoli e simili cose, perché saranno causa di farti onore; perché nelle cose confuse l'ingegno si desta a nuove invenzioni
[…] (2)

È stato fatto notare che la «nuova invenzione» di Leonardo era già stata inventata in Cina, dal pittore Sung Ti, vissuto nell’XI secolo d.C.:

Scegliete un vecchio muro in rovina, stendete su di esso un pezzo di seta bianca. Guardatelo poi sera e mattina, finché attraverso la seta possiate vedere questa rovina, le sue protuberanze, i suoi livelli, gli zig-zag, le fenditure, fissandoli nel vostro spirito e nei vostri occhi. Fate delle prominenze le vostre montagne, delle parti più basse le vostre acque, degli incavi i vostri burroni, delle fenditure i torrenti, delle parti più chiare i punti più vicini, di quelle più oscure i punti più lontani. Fissate tutto ciò profondamente in voi e ben presto vedrete uomini, uccelli, piante, alberi e figure che volano e si muovono in mezzo a essi. Voi potrete allora usare il pennello seguendo la vostra fantasia. E il risultato sarà una cosa del cielo e non dell’uomo (3).

Sono state trovate profonde analogie nei due passi sopra citati, solo il pezzo di tela, teso davanti alle pietre del muro, è assente in Leonardo; «ma l’uomo occidentale è forse incapace di vedere le ombre e i tratti ricoperti da un tessuto quando perfino un figlio del Celeste Impero li vede solo dopo una lunga contemplazione» (4).
Fermo restando le analogie è il caso di evidenziare anche le notevoli differenze: se in Leonardo l’immagine balza fuori, per così dire, dal muro e desta la fantasia del pittore (così come improvvisa è l’associazione tra un nome e il suono delle campane), per Sung Ti l’immagine evocata è il portato di una lunga e quasi ipnotica contemplazione. E un conto è farsi sorprendere dal profilo di un animale fantastico, che si staglia nella trama accidentata di un muro, e un altro è fissare, attraverso una tela, un vecchio muro in rovina «sera e mattina», fino ad evocare un’immagine fantastica.
Leonardo nel suggerire la sua invenzione (quasi scusandosi con il lettore: «benché paia piccola e quasi degna di riso») esorta a «vedere nelle macchie de' muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi» il volto fantastico della natura. Il Maestro Sung Ti (al di qua del cielo e al di là dei soliti rimandi triti e ritriti allo Zen e all’arte di riparare i motorini) a conti fatti ci rifila una ricetta di pittura.
Non è un fatto contingente se questa visione improvvisa che afferra e ammalia lo sguardo, questa epifania (nel significato attribuito alla parola da Joyce (5)) di un muro scrostato, è fissata da Leonardo in figure naturalistiche; poiché è possibile vedere nelle macchie di un muro il profilo di un animale solo se quel muro, attraverso un gioco di segni, di rilievi e di ombre, ci suggerisce una figura che noi già conosciamo.
Una conseguenza di questa riflessione su un muro muffito è che quel muro (e tutti i muri crostosi e muffiti del mondo), quel tronco d’albero muschioso (e tutti i tronchi d’albero), le nuvole nel cielo questa mattina alle 6,30 (e tutte le nuvole che si sono dipanate nel cielo dalla prima alba sul mondo) possiedono una straordinaria fantasia immaginativa. Nascondono in sé un serbatoio di immagini ancora non sognate (e segnate) dal genio di un Leonardo da Vinci, o di un Walt Disney:

If you can dream it you can do it

In una scena del film Contact quando la scienziata astronoma, dopo un viaggio in un tunnel spazio-temporale, si ritrova su una spiaggia deserta davanti a un mare nero, su un pianeta al di fuori del sistema solare, e vede avvicinarsi in lontananza, lungo la battigia, una forma aliena che dopo pochi istanti riconosce essere una figura umana e quindi una persona familiare, è come se da un incerto scarabocchio emergesse, in virtù di un’epifania di segni e consuetudini, la conferma di un’identità perduta e ritrovata. D’accordo, è solo un trucco degli alieni (che proprio perché alieni sono inimmaginabili) per instaurare un primo contatto, ma il concetto vale lo stesso: possiamo riconoscere solo ciò che già conosciamo.
Vorrei porre l’accento su un’ultima differenza tra i due passi sopra citati, a proposito del paragone fatto da Leonardo da Vinci tra la capacità di tradurre un’immagine fantastica in una figura disegnata e alla capacità di riconoscere nel suono delle campane un nome o una parola: «come del suono delle campane, che ne' loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t'immaginerai». Parafrasando una famosa frase di Lévi-Strauss si può affermare che come i colori e i rumori appartengono all’ordine della natura (6), così il disegno e i suoni si collocano nella cultura. Infatti, il canto degli uccelli - animali sociali - si colloca ai confini del linguaggio, ed è il legame che unisce i membri di una comunità (anche se volatile).
La musica e il disegno richiedono attenzione e disponibilità sociale. Infatti, se si apprezzano i rumori, i colori e gli odori naturali nel tempo di una camminata nel bosco, lo scarabocchio «alternativo» sull’intonaco dei muri delle case, i cellulari che suonano durante un concerto di musica o un funerale, e in generale lo squallore dei centri e delle periferie urbane - e delle genti che le abitano - ci colpiscono come un sopruso alla nostra libertà di persone (animali sociali). Se il colore è strettamente legato alla materia, al pigmento e quindi alla natura, il disegno è invece «cosa mentale»: come non esiste in natura il suono delle campane così non esiste il disegno.
Secondo Plinio il Vecchio, la pittura nasce in Grecia, e in particolare a Corinto, grazie ad una fanciulla: «la quale presa d’amore per un giovane, e dovendo questi partire, alla luce di una lanterna fissò con delle linee il contorno dell’ombra del viso di lui» (Storia naturale, XXXV, 15). Leonardo da Vinci nel Trattato della Pittura riprende il mito di Plinio: «La prima pittura fu sol di una linea, la quale circondava l'ombra dell'uomo fatta dal sole ne' muri» (7).
È un dato di fatto - allo stato attuale delle ricerche - che le più antiche testimonianze d’arte risalgono agli inizi del Paleolitico (8) superiore (circa 35.000 anni a.C.) e si manifestano in un modo già tecnicamente maturo in tutti i generi canonici dell’arte figurativa: pittura, disegno, rilievo e plastica, sia con raffigurazioni veristiche di animali e persone sia con figure astratte e probabilmente simboliche.
I sostenitori dell’origine dell’arte preistorica da forme geometriche e astratte, non naturalistiche, nel tentativo di scoprire testimonianze ed evidenze fossili anteriori alle figurazioni naturalistiche, hanno ipotizzato un’«alba delle immagini» (Leroi-Gourhan), caratterizzata da oggetti e manufatti non «artistici» e tuttavia portatori di segnali «artistici». Oggetti meritevoli di essere esposti, a mio parere, in una stanza delle meraviglie, forse la prima (e forse anche l’ultima) sala di un ipotetico museo dell’arte occidentale.
Visitiamo dunque questa sala. Entrando, alla nostra destra, in una vetrinetta fanno bella mostra di sé frammenti di ocra rossa trovati in numerosi siti risalenti alla fine del Mousteriano (periodo culturale caratterizzante il Paleolitico medio), cioè intorno a 50.000 anni fa. Non sono stati trovati oggetti naturali né manufatti dipinti con ocra rossa risalenti a quest’epoca, tuttavia s’ipotizza l’uso dell’ocra rossa per decorazioni corporee, maschere, e forse primitive forme di magia.
Poco distante, sopra uno squisito tavolino di fine settecento, un mucchio di sassi sferoidi (scavati in siti francesi e tunisini dello stesso periodo, non del tavolino ma dei frammenti di ocra rossa).
E a sinistra, a ridosso di un silente custode, seduto e leggente un giornale cittadino, muti oggetti portatori di un enigma millenario, stanno in una vetrinetta dai vetri polverosi. Sono «due masse di pirite di ferro formate da sfere ruvide agglomerate, uno stampo interno di una grossa conchiglia di gasteropode fossile, un polipaio sferico dell’Era secondaria» (9). Raccolti dai nostri lontani cugini neandertaliani (10), forse perché strani, bizzarri, vere curiosità naturali, furono custoditi nel fondo del cuore della loro caverna, nei pressi di Arcy-sur-Cure. Essi rappresentano la prima collezione naturalistica di una specie umana non sapiens (ma in fondo c’è qualche cosa di non sapiens in tutti i veri collezionisti).
In mezzo alla saletta, alloggiati dentro una vetrina sotto un lucernario, il pezzo forte della sala: oggetti d’osso e di pietra decorati da serie di tratti scalfiti. Gli oggetti più antichi sono databili alla fine del Mousteriano, dunque contemporanei dei coloranti d’ocra e manganese, ma si fanno più numerosi verso il 35.000 a.C., all’inizio del Paleolitico superiore e con le prime testimonianze d’arte.
Il significato di queste incisioni parallele ed equidistanti è ignoto agli studiosi, anche se è indubbio che rappresentano una ripetizione, forse un ritmo. L’archeologo francese Leroi-Gourhan gli paragonò ai churinga australiani: piccole lastre di pietra o di legno incise con motivi astratti, simboli dell’antenato mitico.

[…] Il churinga mobilità le due fonti dell’espressione, quella della mobilità verbale, ritmata, [dall’officiante durante i riti magici] e quella di un grafismo trascinato nello stesso processo dinamico. Non intendo affatto dire che le serie di incisioni del Paleolitico superiore siano assimilabili ai churinga; ritengo però che, tra le possibili interpretazioni, vada presa in considerazione quella di un sistema ritmico di carattere magico o declamatorio (11).

Ma non tutti i churinga sono decorati da incisioni; tra quelli decorati i motivi astratti più comuni sono cerchi concentrici, linee rette parallele, linee curve e linee punteggiate. Ad esempio in un churinga di un aborigeno del totem rana i grandi cerchi concentrici, rappresentano tre alberi che segnano il luogo totemico, uniti da linee rette: le grosse radici degli alberi. Le linee curve sono le radici piccole, e i piccoli cerchi concentrici rappresentano alberi minori (collegati dalle radici piccole). Le linee punteggiate «sono le tracce lasciate dalle rane saltellando sulla sabbia in riva all’acqua» (12). Un tocco di naturalismo degno di Masaccio.
L’antropologo francese Lévi-Strauss osserva che alcuni churinga - tra i più preziosi - non sono affatto decorati e non sono neppure manufatti. Infatti, anche un masso naturale o un albero può essere un churinga. Lévi-Strauss li assimila ai nostri «documenti d’archivio»:

che noi chiudiamo nei forzieri o affidiamo alla segreta custodia dei notai e che di tanto in tanto esaminiamo con i modi dovuti alle cose sacre, per restaurarli se necessario, o per riporli in cartelle più eleganti. In simili occasioni anche a noi piace recitare i grandi miti, la cui memoria è ravvivata dalla contemplazione delle pagine strappate e ingiallite: fatti e gesta dei nostri antenati, storia delle nostre dimore, dalla loro costruzione o dal momento in cui furono cedute (13).

A chi ipotizza la sacralità dei churinga perché recano, inciso o disegnato, il contrassegno totemico, Lévi-Strauss risponde con una felice similitudine:

Un documento non diventa sacro per il solo fatto di portare un timbro prestigioso, per esempio quello degli Archivi Nazionali: esso porta il timbro perché prima è stato riconosciuto sacro, e anche senza lo resterebbe ugualmente (14).

Inutile quindi ammantare i churinga di un carattere sacro e magico perché sono maneggiati da officianti, decorati da incisioni (i timbri totemici), e spalmati (restaurati) con ocra rossa:

quando un’usanza esotica ci attira a dispetto (o a cagione) della sua apparente singolarità, il motivo generalmente sta nel fatto che ci suggerisce, come fosse uno specchio deformante, un’immagine familiare che riconosciamo confusamente come tale senza però riuscire a identificarla (15).

Sulla base delle nostre osservazioni sulla citazione dal Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, e sulla scorta di questa riflessione del grande antropologo francese, l’ipotesi di leggere negli oggetti d’osso e di pietra paleolitici una «testimonianza dell’origine della figurazione distaccata da una concreta figuratività» (16) non ci convince affatto. Tuttavia Leroi-Gourhan scrive che «se c’è un punto sul quale abbiamo raggiunto ormai l’assoluta certezza, è che il grafismo inizia non nella rappresentazione ingenua della realtà bensì nell’astratto» (17), partendo da segni (le tacche incise su oggetti naturali) che sembrano aver espresso prima di tutto dei ritmi e non delle forme. Per Leroi-Gourhan l’arte figurativa delle origini è «direttamente collegata al linguaggio e più vicina alla scrittura nel senso più ampio della parola, che non all’opera d’arte» (18).
Nella raccolta e conservazione di strani e bizzarri oggetti naturali da parte dei neandertaliani si è voluto trovare l’origine della ricerca del fantastico nella natura, e la conseguente nascita di un «sentimento estetico che spinge verso il mistero delle forme bizzarre, conchiglie, pietre, denti o zanne, impronte di fossile» (19). Quindi per Leroi-Gourhan «l’arte figurativa propriamente detta è preceduta da qualcosa di più oscuro o di più generale che corrisponde alla visione ragionata delle forme» (20).
Affine a questa teoria dell’origine dell’arte da forme astratte, fantastiche e ritmiche (e ancora non disegnate, cioè non figurate), è l’ipotesi delle irregolarità naturali, per esempio le sporgenze della roccia, come stimolo per una germinazione spontanea di forme di animali o di figure fantastiche nella mente dell’artista paleolitico, poi stabilizzate con integrazioni a disegno o in pittura. Ma non è affatto dimostrabile che l’utilizzo di accidentalità naturali caratterizzi specificamente la fase iniziale dell’arte preistorica (21). Infatti, esempi di utilizzo di accidentalità naturali sono presenti un po’ dovunque nella documentazione etnologica, ad esempio:

Egli [Koch-Grünberg] racconta che gli Indiani [del sud-america], quando si accampano nei pressi di un guado, in attesa che il fiume sia navigabile scalfiscono segni naturali sulle rocce trasformandoli in forme suggerite dai contorni naturali, oppure continuano le linee lasciate da un gruppo precedente, che si è divertito allo stesso modo […]. Esistono ampie prove del fatto che rocce di forma curiosa non solo sono paragonate a esseri animati ma vengono anche realmente considerate uomini o animali trasformati in pietre (22).

L’usanza di continuare (e modificare) disegni iniziati da altri e lasciati non finiti per motivi forse contingenti, è un fatto assodato nella documentazione etnologica, e riscontrabile nelle varie zone dell’ecumene. Ad esempio presso i nomadi pastori delle tende nere tale fatto potrebbe:

esser interpretato [anche] come una sospensione intenzionale di un lavoro per invitare qualcun altro a continuarlo. Fatto questo di cui si è avuta netta sensazione non poche volte: i motivi chiaramente ci sfuggono, ma inducono a sospettare che la cooperazione di altre mani in un lavoro, al fine di completarlo o migliorarlo, fosse oggettivamente cercata più che lasciata al caso (23).

La letteratura e la poesia non richiedono uno spazio e un tempo dedicati; infatti, si può comporre una poesia o un canto anche nel corso di un’attività lavorativa, come può essere la caccia o la raccolta di piante selvatiche. Ed è proprio il passo dell’uomo il primo metro della poesia e del canto. Al contrario «la prima condizione per la creazione di prodotti artistici è il tempo libero» (24) e uno spazio dedicato.
Il cacciatore e raccoglitore paleolitico probabilmente (come le popolazioni dei nomadi pastori attuali) segnava in punti strategici il territorio, forse per segnalare un passo particolarmente periglioso, un sentiero, un guado, un luogo ricco di selvaggina, e forse incideva la roccia con motivi figurativi e astratti anche solo per svago, per far passare il tempo. È certo: un padre dell’arte figurativa è sicuramente l’ozio; e l’ozio non doveva mancare nelle società dei cacciatori e raccoglitori paleolitici, al contrario abbondava, ed era probabilmente capitalizzato sotto forma di manufatti artistici.
Studi etnologici su una popolazione nomade di cacciatori e raccoglitori in Africa (25) hanno provato che in media gli uomini vanno a caccia due giorni e mezzo a settimana, e poiché ogni giorno lavorativo non supera le sei ore, questo equivale a una settimana lavorativa di quindici ore. E le donne, in un solo giro attorno al villaggio, raccolgono abbastanza da nutrire la loro famiglia per almeno tre giorni.
Tuttavia, allora come oggi, sono i bambini e gli adolescenti ad avere più tempo libero rispetto agli adulti. E forse sono le pensiline, decorate dalle innumerevoli mani di ragazzini in attesa dell’autobus che li riporta a casa dalla scuola, il surrogato tecnologico delle rocce incise e dipinte dagli artisti del Paleolitico superiore.
Comunque il punto non è se queste manifestazioni pittoriche (delle caverne e delle pensiline) non gallerizzate e collezionate, siano da considerare arte; il punto è il seguente: l’epifania per manifestarsi non necessita di un luogo oscuro, misterioso, «sacro». Indifferente ai luoghi della storia e alle mode dei villeggianti l’epifania si rivela in «non luoghi» (sottopassi ferroviari, strade secondarie, stazioni della metro, ecc.). Così come riporta il resoconto giornalistico dell’ultima teofania di Demetra (la dea madre della terra e della vegetazione, venerata, assieme alla figlia Persefone, nel santuario di Eleusi per più di duemila anni). Il simbolo del passaggio dalla natura selvaggia alla coltura del grano in Occidente rivive per l’ultima volta in Occidente, in un piccolo bozzetto giornalistico di fondo pagina:

All’inizio del febbraio 1940 […] a una fermata dell’autobus Atene-Corinto salì una vecchia, «magra e rinsecchita, ma con grandi occhi molto vivaci»; poiché non aveva denaro per pagare il biglietto, il controllore la fece scendere alla stazione seguente – quella di Eleusi, appunto. Ma il conduttore non riuscì più a mettere in moto l’autobus e, alla fine, i viaggiatori decisero di fare una colletta per pagare il biglietto della vecchia. Questa risalì sull’autobus, che ora poté ripartire. Allora la vecchia disse: «Avreste dovuto farlo subito, ma siete degli egoisti; e già che sono qui, vi voglio dire ancora una cosa: sarete castigati per il modo in cui vivete; vi saranno tolte persino l’erba, e l’acqua!». «Non aveva ancora finito la sua minaccia» continua l’autore dell’articolo pubblicato sull’«Hestia», «ed era scomparsa… Nessuno l’aveva vista scendere. E si andò a riguardare il blocchetto dei biglietti per convincersi che era veramente stato staccato un biglietto» (26).”

La sosta è finita, non è ancora tempo per le frasi di addio, dobbiamo proseguire il cammino.

1 «La pareidolia (dal latino parìre e idolu(m), derivante a sua volta dal greco είδωλον) è l'illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale. È la tendenza istintiva e automatica a trovare forme familiari in immagini disordinate; l'associazione si manifesta in special modo verso le figure e i volti umani. Classici esempi sono la visione di animali o volti umani nelle nuvole, la visione di un volto umano nella luna oppure l'associazione di immagini alle costellazioni. Sempre alla pareidolia si può ricondurre la facilità con la quale riconosciamo volti che esprimono emozioni in segni estremamente stilizzati quali le emoticon. Si ritiene che questa tendenza sia stata favorita dall'evoluzione perché consente di individuare situazioni di pericolo anche in presenza di pochi indizi, ad esempio riuscendo a scorgere un predatore mimetizzato», dall’enciclopedia Wikipedia, vedi scheda in: http://it.wikipedia.org/wiki/Pareidolia. :)
2 Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, I, 2, 63.
3 Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, 1973, p. 238.
4 ibid.
5 «Notiamo fin d’ora che le epifanie, questo sentimento di epifania, costituiscono il metodo narrativo di Joyce […] Noi che viviamo in un paese dove questo evento della vita di Gesù è molto familiare ed annualmente festeggiato non abbiamo bisogno di arrivare alla didascalica pedanteria di Tindall che ricorda come l’Epifania cada il sei gennaio e commemori l’arrivo dei tre Re Magi ad una mangiatoia dove “mentre videro nient’altro che un bambino, videro qualcosa d’altro”. Ci importa questo fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro». Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, 1983, p. 288.
6 Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, 1980, p.37.
7 Leonardo da Vinci, op. cit., I, 2, 126.
8 La suddivisione della preistoria in età della pietra, età del bronzo ed età del ferro è opera dello studioso Christian Jurgensen Thomsen in occasione della risistemazione del Museo Nazionale Danese, all’inizio dell’Ottocento. In seguito, grazie allo studio di stratigrafie in diverse località in Europa, l’età della pietra fu suddivisa in Paleolitico o della pietra scheggiata (a sua volta suddiviso in tre fasi di sviluppo: antico, medio e superiore) e Neolitico o della pietra levigata. Con fasi di transizione tra Paleolitico e Neolitico (Mesolitico) e tra il Neolitico e l’età del Bronzo (Eneolitico).
9 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, Einaudi, 1977, p. 426.
10 La comparsa di caratteri genetici che caratterizzano la popolazione neandertaliana è iniziata durante l’interglaciale Mindel-Riss, forse alla fine della glaciazione Mindel (circa 350.000 anni fa), per poi stabilizzarsi all’inizio della glaciazione Riss (circa 200.000 anni fa). I neandertaliani sono vissuti per circa 300.000 anni, coprendo l’intero periodo preistorico del Paleolitico Medio (Riss-Würm – Würm II). La loro cultura materiale è conosciuta con il termine di Musteriano, in realtà un complesso di culture, ciascuna delle quali è rappresentata da industrie litiche con caratteristiche ben definite. I neandertaliani allestivano focolari con le stesse tecniche impiegate dalle genti del Paleolitico Inferiore; costruivano lastricati di pietre e ciottoli (forse per proteggersi dall’umidità); erigevano capanne all’interno delle grotte; praticavano il culto dei morti: sono state scoperte vere e proprie sepolture con la presenza di corredi funebri. Non conoscevano l’arte (ma collezionavano strani oggetti naturali).
11 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I. Tecnica e linguaggio, Einaudi, 1977, p. 222-224.
12 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1979, p. 258.
13 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 260.
14 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 261.
15 Claude Lévi-Strauss, op. cit., p. 260.
16 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, I. Tecnica e linguaggio, Einaudi, 1977, p. 222.
17 op. cit., p. 224.
18 op. cit., p. 225.
19 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, II. La memoria e i ritmi, Einaudi, 1977, p. 426.
20 op. cit., p. 427.
21 Herman Müller-Karpe, Storia dell’età della pietra, Laterza, 1984, p. 210.
22 Franz Boas, Arte primitiva, Universale scientifica Boringhieri, 1981, p. 144.
23 Edoardo Borzatti von Löwenstern, Quadri di pietra. 8000 anni d’arte nel deserto, Nuova SI, Sìmata, 2005, p. 76.
24 Franz Boas, op. cit., p. 296.
25 Richard E. Leakey, Roger Lewin, Origini. Nascita e possibile futuro dell’uomo, Laterza-Euroclub, 1981, p. 173
26 Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. II, Sansoni, 1980, pp. 413-414.

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