mercoledì 28 ottobre 2009

La soffitta (tra 2 e 3)

Tutte le volte che il ragazzo tirava fuori la testa dal pavimento, salendo gli ultimi scalini della scala a chiocciola, la prima cosa che gli balzava agli occhi, abbagliati da una lama di pulviscolo infuocato che solcava in diagonale l’ombra stagnante nella soffitta, era un vecchio armadio con le ante di vetro smerigliato, accostato e compresso tra la parete della soffitta e le travi del tetto. Come un grosso androide squadrato e accucciato, in eterna attesa del comando vocale di attivazione, così l’armadio dominava gli altri oggetti in soffitta, grazie al suo essere alto circa due metri e mezzo, largo un metro e mezzo, profondo ottanta centimetri e pesante in proporzione. Eppure un giorno era stato smontato, portato su per la scala a chiocciola e rimontato in soffitta, forse perché non c’era più spazio nelle stanze abitate, o perché stonava con l’arredamento minimalista, o perché le tarme volano basso e non lo avrebbero potuto raggiungere lassù in alto. Non c’erano più i ripiani interni, probabilmente erano andati smarriti nel corso del tortuoso viaggio. Era un armadio del tipo “cristalliera”.

La cristalliera era un mobile in uso alla fine dell’Ottocento per custodire e proteggere oggetti di cristallo. Esistono vari tipi di cristalli: il cristallo di Boemia fatto con l’aggiunta di calce, il cristallo inglese, il cristallo di Flint usato per oggetti d’ottica, ecc. Si chiama cristallo anche il vetro circolare, di forma più o meno convessa, che se ne sta incastrato nel quadrante dell’orologio. Il cristallo è un tipo di vetro, e il vetro è un materiale solido di struttura amorfa, non cristallina. Com’è allora che alcuni vetri sono chiamati cristalli? Ti diranno di dimenticare, cancellare la parola cristallo, quando penserai ad acquistare oggetti di vetro, perché dal punto di vista scientifico è una parola errata. Il vetro è un materiale composto essenzialmente di sabbia (silice), e la silice fonde a circa 2000°C, una temperatura notevolmente alta, e per abbassare il punto di fusione della silice si usavano fin dall’antichità particolari sostanze, chiamate fondenti, ad esempio l’ossido di piombo.
Plinio il Vecchio racconta una leggenda sulla scoperta del vetro. Era già sceso il tramonto quando su una spiaggia deserta di un fiume in Fenicia approdò una nave di mercanti di salnitro provenienti dall’Egitto, per passare la notte. I mercanti pensarono bene di cuocere la cena e per tenere sollevati i pentoloni sopra il fuoco usarono alcuni blocchi di salnitro. Durante la cottura una parte del salnitro si mescolò con la sabbia provocando l’abbassamento del punto di fusione e fondendo la sabbia in una pasta vetrosa.
È opinione comune tra gli storici che il fatto narrato da Plinio non sia realmente accaduto, anche perché un focolare di legna raggiunge al massimo la temperatura di 800° C, insufficiente per la fusione della sabbia, pure se in presenza di un fondente naturale.
A contatto con l’aria il liquido vetroso si solidifica velocemente, acquistando una struttura amorfa, eppure la sabbia silicea ha una struttura cristallina, così come lo zucchero che se si scalda fino alla liquefazione e lo si versa in uno stampo si condensa in un materiale amorfo d’aspetto vetroso.
Si potrebbe affermare che il termine vetro non definisce un materiale quanto una procedura, un metodo, così il termine cristallo ha origine da un procedimento inventato dai veneziani nel XV secolo per ottenere vetri di elevata trasparenza. Essi sottoponevano le ceneri di piante usate come fondente a un processo di depurazione per ricavare il sale di cristallo o così almeno è riportato nel libro delle procedure e delle storie del e attorno al fuoco. [...]

La cristalliera era in legno di noce, con bande decorative orizzontali in alto e in basso e verticali ai lati delle ante, con ornati vegetali applicati in rilievo. Su entrambe le bande laterali si stagliava uno strano essere zoomorfo; una creatura per sempre in bilico sul crinale che separa il regno vegetale dal regno animale, con un volto di sfinge, e la bocca spalancata in atto di urlare o dilaniare. L’essere era dotato di otto coppie di melagrane spaccate alternate a ornati vegetali. Il corpo totemico terminava in basso in una valva di conchiglia del genere “a pettine”.
La cristalliera era un simbolo del Tempo, custode di oggetti in cristallo, un tempo sabbia.
In passato la cristalliera custodiva una coppa trasparente di cristallo, scrigno di caramelle di menta, orzo, rabarbaro, liquirizia, geléè di anice, fragola, ribes, mora, mirtillo, arancia, limone, mandarino, pompelmo, caramelle che frizzano sulla punta della lingua, caramelle di zucchero che si sciolgono in bocca o nelle tasche nei pomeriggi infuocati d’estate, e caramelle gommose che il Tempo trasforma in piccoli ciottoli duri arrotondati dalle correnti di gelidi torrenti montani.
Gli esseri zoomorfi erano forse un presidio odontoiatrico contro le carie infantili? Forse erano un monito ai bambini nell’età delle paure irrazionali, la paura dell’Uomo Nero che gratta alla porta, e dell’essere impalpabile che si vede solo con la coda dell’occhio, dei futuri danni arrecati alla dentizione da una alimentazione basata prevalentemente su banali zuccheri e misteriosi aromi.

Ma se il ragazzo avesse guardato con più attenzione il pavimento polveroso, nei pressi dei pesanti piedi zoomorfi della cristalliera, avrebbe notato alcune collinette di polvere biancastra, formate da trucioli di legno finemente tritato, e piccoli forellini sparsi qua e là sulla opaca superficie della cristalliera. Erano i silenziosi testimoni di una metamorfosi, generazioni di tarli si erano mutati in evanescenti farfalle, che caduto l’ultimo velo di legno erano volate via. E chissà che in fondo ai cunicoli che sprofondavano nel legno ci fosse ancora qualche spaurito tarlo, scampato alle iniezioni di veleno; di notte si sarebbe destato inquieto, battendo la testa contro le pareti del cunicolo, tic-tac, tic-tac, tic-tac. Piccolo orologio della morte che segnava i giorni, i mesi e gli anni che restavano da vivere al vecchio armadio, prima che le zampe spugnose cedessero, sotto il peso del legno e del vetro e del Tempo, in un secco schianto di vetri e legni esplosi.
E lontano lontano, perso nel mare di legno, gli tornava indietro l'eco di un altro solitario naufrago, tic-toc, tic-toc, tic-toc; battiti spaventati del cuore di un fantasma dimenticato. (*)


(*) Claudio Piccini, Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza, luglio 2008)

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