domenica 11 ottobre 2009

La soffitta (2)

...In un angolo oscuro della soffitta c’era un gatto. Non chiedetemi se aveva il pelo lungo o il pelo corto, di che colore aveva il mantello, se era maschio o femmina, se era di razza mediterranea, nordica, persiana, abissina o soriana, o quanti anni avesse visto allora e con quale timbro di voce miagolava. Oscuro il carattere, forse era stato un tranquillo e timido micino o forse come la lince, che in luoghi gelidi e montani agguata cervi e caprioli e li abbranca e sbrana, uccidendo più di quel che non divora, graffiava grandi e piccini, donne di servizio e militari a metà prezzo.
Il gatto era immobile, ritto sulle quattro zampe, la testa protesa in avanti, la coda abbassata: un fermo immagine di un agguato a un topolino dalla memoria di ferro. Era lo scheletro completo di un gatto, dal più fragile ossicino del cranio all’ultima vertebra caudale, ricostruito, con la pazienza di un gatto certosino, in perfetta connessione anatomica. Opera incerta di minuti e levigati ossicini, tenuti assieme con colla Uhu e fili di ferro. Era (era stato) il gatto della figlia adolescente della vecchia signora. Morto, dalla figlia era stato disciolto in acido, e lo scheletro, pulito dalla carne e dal pelo superfluo, era stato rimontato osso su osso, come una bianca casetta in mattoncini lego. La figlia, già insegnante di anatomia artistica in un liceo cittadino, ne parlava talvolta agli studenti, promettendo loro una fotografia, e qualcuno, scarso in materia, lo aveva creduto vero, in carne e pelo.
Amalasunta, se le capitava di pensare al gatto lassù in soffitta, e ci pensava quando il ragazzo saliva la scala a chiocciola per andare sul tetto, chiedeva al ragazzo, con la voce che le tremava un po’, come stava il gattino. Povero gatto, trasformato in oggetto e dimenticato tra gli oggetti che non hanno cittadinanza nel presente, irraggiungibile al di là del bianco soffitto, sopra la bianca fragile testa di passerotto curioso di Amalasunta. E quando ci pensava allora immaginava se stessa, sfuggita per un magico incantamento agli incartamenti dell’anagrafe comunale, alla misericordia dei vicini e dei parenti e agli accertamenti del medico fiscale, coprirsi pian piano di polline e polvere, lassù in soffitta. Tra scatole di cartone e pentole di acciaio inossidabile, le ossa corrose dall’osteoporosi, i neri grani del rosario mescolati alle bianche falangi delle dita, erano in attesa. Muti e immobili, come levigati sassi addormentati in un verde prato di montagna, Amalasunta e il gatto, testimoni involontari di una glaciazione millenaria, erano in attesa, con le gocce di pioggia che cadevano dall’alto di nuvole nere, tamburellando allegramente sulle tegole del tetto e contro il vetro allumacato dell’abbaino, con il saluto incerto e pian piano più esuberante dell’alata genia all’ultimo tuono che rotolava via, lontano; erano in attesa che la luce rosata del tramonto sciogliesse la colla, spezzasse i fili di ferro, ché il gatto si sarebbe strusciato con la testolina pelosa contro le gambe di Amalasunta, fremendo di vita, fissandola con occhi di ambra.
Queste erano le fantasie della vecchia signora, simili alle ultime volontà di Shakespeare, incise sulla lapide:

Benedetto sia colui che risparmia queste pietre e maledetto chi muoverà le mie ossa.

Strano come le ultime volontà del Bardo immortale fossero identiche alle fantasie di una vecchia e sconosciuta signora di Firenze. Ma la conservazione delle ossa o delle ceneri in eterno e il mantenimento del capitale investito in mattoni, non preoccupava il ragazzo, vista l’età e lo scarso interesse nel farsi una posizione elevata (a parte salire sul tetto). Eppure la visione dello scheletro impolverato, del gatto e non della vecchia signora, ché quella era una fantasia inarticolata e nota al narratore di questa storia solo per virtù onnisciente, lo scheletro impecettato dicevo lo portava a riflettere sul paradosso del gatto imburrato... (*)

(*) Claudio Piccini, Erbe aromatiche e frittelle di riso (bozza, luglio 2008)

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