martedì 21 dicembre 2010
Follow that Dream
Scarabocchiato sul margine di un foglio del taccuino di viaggio, resta un barlume di visione. Come se il viaggio potesse essere ripreso, dopo una breve pausa, il tempo di un caffè o di una stagione. Ma le prime gocce di un temporale ci bagnano la faccia, ci portano via quel barlume di visione, ci lasciano in cambio l’odore di terra bagnata.
Nuvole all’orizzonte (isole sconosciute) scivolano su e giù per le colline. Una nuvola bianca si guarda nello specchio oscuro della strada: sorride; dimentica.
A Firenze, fino alla fine dell’Ottocento alte muraglie, a volte formate dalle stesse case che si affacciavano sull’Arno, si ergevano lungo le sponde, e nascondevano alla vista il fiume e l’opposta parte della città; e da qui, forse, l’origine psicologica del termine Oltrarno, quasi a significare un altrove, un’altra città. Solo quando Firenze divenne capitale d’Italia, nel 1865, si formarono i lungarni attuali (anni settanta), che mutarono per sempre la visione di Firenze e il rapporto dei fiorentini con il fiume.
Solo pochi anni prima Mark Twain ammirava la vista dell’Arno dai ponti: "Ci piaceva fermarci sui ponti ad ammirar l’Arno. È un grande fiumiciattolo, intriso di storia, profondo quattro piedi e solcato da alcune chiatte che andavano su e giù. Potrebbe chiamarsi plausibilmente fiume se ci pompassero dentro l’acqua. Questi neri e maledetti fiorentini lo definiscono fiume, e pensano che lo sia davvero. Sostengono l’illusione costruendovi sopra ponti monumentali. Non capisco come non siano capaci di guardarlo con obiettività". E poi si perde per i vicoli del vecchio centro, e gira per la cittadina tutta una notte. Uno straniero in terra straniera. Alieno come l'indiano Lakota davanti all'affresco del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa, qualche anno dopo.
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Con un forte senso di spaesamento
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domenica 19 dicembre 2010
La Ghost Dance tra Pisa e Milano
Si definiscono Lakota, e sono vegetariani (ma non per libera scelta), anzi fruttivori, infatti, mangiano solo esotici frutti colorati con i colori del Rosso Fiorentino, e bevono pura acqua di fonte, in coppe di bianco vetro opaco. Ma, nonostante la dieta fruttivora e la fede assoluta in una massima pavesiana (Lavorare stanca) nessun Lakota, o quasi nessuno, arriva alla senilità, e perché? Oibò, è presto detto, perché tutt’attorno scavano, bazzicano e cercano un metallo giallo, dentro nere e oleose padelle, brutti mostri albini e pelosi. Sono chiamati (dai Lakota) Wasichu.
I Wasichu non sono vegetariani (ché sarebbe stato chiedere troppo alla Divina Provvidenza), anzi hanno appena accoppato e sbranato l’ultimo bisonte sacro ai Lakota. Sbranerebbero anche i Lakota se il prete di turno distogliesse lo sguardo quanto basta, solo quel tanto che basta per poterli sterminare tutti (che un indiano buono era un indiano morto).
Ma una banda di Lakota fu portata quell’anno dai Wasichu al di là dall’acqua grande su un battello di fuoco, fino ad una città immensa, ed era Londra. La Nonna preparò torte salate e crostate di albicocche per i ragazzi e le ragazze Lakota. La Nonna era piccola ma grassa, e piacque subito ai Lakota perché fu buona con loro. I Lakota danzarono in suo onore. E allora la Nonna disse qualcosa come: “Ho sessantasette anni. In tutto il mondo ho visto ogni specie di gente; ma oggi ho visto la più bella gente che conosco. Se voi apparteneste a me, non permetterei che vi portassero in giro in uno spettacolo come questo” (*)
Ma il circo prosegue il Grand Tour per le città d’Europa. Imprigionati in un incanto maligno i Lakota arrivano a Manchester e lì si smarriscono, in un bosco di strade e case di mattoni. Tre Lakota perdono così il battello di fuoco. Tornano a Londra, e come in sogno arrivano a Parigi. Una ragazza Wasichu si innamora di uno dei tre, lo porta a casa, gli fa conoscere il padre e la madre. La ragazza Wasichu imparò alcune parole in Lakota. Da Parigi i tre andarono in Germania, dalla Germania arrivarono in un luogo dove la terra bruciava da sempre (e nessuno sapeva come spengere il fuoco). “C’era un monte alto, che finiva a forma di tenda, e lassù bruciava. Sentii dire che molto tempo fa una grossa città e molte persone erano scomparse nella terra, in quel luogo.” (*)
In seguito i Lakota tornarono a casa, ma forse prima visitarono il Camposanto di Pisa. Sostarono come turisti qualsiasi davanti all’affresco con il Trionfo della Morte. Videro i tre stadi del corpo dopo la morte. Videro le danze macabre medioevali. Uno di loro sarà in futuro uno sciamano: vedrà l’inferno di neve a Wounded Knee. Le immagini dei morti danzanti erano il tributo che l’occidente cristiano pagava al Bodhisattva. I nove stadi di disfacimento del cadavere nel buddismo erano: (1) viso livido; (2) corpo gonfio; (3) corpo tumefatto; (4) corpo in putrefazione; (5) il corpo è preda dei vermi; (6) il corpo diventa verde, lo scheletro si vede è tinto di sangue; (7) scheletro in connessione anatomica; (8) ossa spezzate, sparse e in polvere; (9) solo una vecchia tomba in mezzo alla vegetazione, nient’altro che gocce di rugiada sull’erba.
Il settimo stadio è il rito di passaggio che deve affrontare lo sciamano del mondo orientale ed americano.
Dunque i Lakota tornarono a casa. E iniziarono subito a danzare per la rigenerazione del mondo, per la fine del mondo, per l’avvento di una nuova terra. Una danza che durava giorni e notti. Era la cosiddetta Ghost Dance Religion degli storici occidentali.
Pochi anni dopo, al di là dall'acqua grande, in una città chiamata Milano, i soldati spareranno con fucili e cannoni su una folla di quarantamila persone (in gran parte donne, vecchi e bambini): protestavano contro il raddoppio del prezzo del pane. Era un giorno di maggio dell'anno 1898.
(*) Alce Nero parla, J.G. Neihardt (Adelphi, 1983)
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sabato 18 dicembre 2010
Venerdì 17
Lamentazioni, solo lamentazioni.
I turisti guatano, mirano, sghignazzano, e scattano istantanee per l'Eterno. Nulla di simile v’avvenga, o voi che passate di qui! Ecco le ambulanze al trotto per torregalli, per careggi, per gli allegri segaioli del cto, per santa maria nuova, per monna tessa, per dove capita capita. Firenze stende le mani, non v’è alcun che la consoli; circondata da tutte le parti da vesciconi gonfi di fiele è come cosa impura; è questa la città che la gente chiamava una bellezza perfetta, la gioia di tutta la terra? Tutti i tuoi nemici aprono, a culo di gallina (causa la neve a vento), la bocca contro di te, fischiano, digrignano i denti, dicono l’abbiamo inghiottita, sì questo è il giorno che aspettavamo; ci siamo giunti, lo vediamo!
O meraviglia delle meraviglie, sta nevicando, e nessuno lo aveva previsto. Zitto, astrologo del caxo!
Il poeta torna a casa a piedi, e canta:
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti.
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domenica 5 dicembre 2010
La città dei morti
Resta di quel tempo là qualche immagine in bianco e nero... impressionante. Sembrano le vecchie botteghe risalire al tempo, che è solo leggenda, delle città etrusche dei morti.
Immagine n.5: una bottega del vecchio centro di Firenze, da Firenze capitale (1865-1870), di U. Pesci, 1904.
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domenica 17 ottobre 2010
A tavola con king congo
Presentatrici e presentatori tv (per tacere degli opinionisti doc) perché questa mancanza di fantasia, questa assoluta mancanza di tatto per gli amanti della buona tavola? Il mostro chiamatelo zio leopoldo o zio adolfo o zio balilla o zio gomma, tanto gli esempi non mancano nella storia recente della razza umana.
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domenica 3 ottobre 2010
Destini incrociati: il pellicano nel petrolio
Una è la riunione dei nostalgici del film, più spesso di una serie televisiva, esempio classico Star Trek, che si ritrovano tutti assieme perché vorrebbero che il tempo tornasse indietro, ai mitici anni ottanta, settanta, sessanta… cinquanta… quaranta? L’altro è la riunione dei vecchi compagni della terza Z, nel corso della quale è bello rievocare il tempo perduto proprio perché si sa che non ritornerà più: nessuno pensa che si voglia tornare indietro, semplicemente si sta recitando il proprio longtemps je me suis couché de bonne heure, (qualunque cosa questo voglia dire, ma sto copiando Eco) e ciascuno assapora nei discorsi degli altri la propria madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio.
Be', per farla breve, ieri sera ero lì che zitto zitto inzuppavo una madeleine in un infuso di rosmarino (detto anche arromaniu, gusparin, osmari, ramerino, romarin, rosmarin, rosmaren, rosmarinu, rosparein, sgulmarin, stammerino, tresmarino, trisomarino, usmaren e zipiri, infuso di 1 grammo in 100 ml di acqua, ottimo contro la tosse e il torcicollo, usato anche come colluttorio per i gargarismi due o tre volte al dì) quando m’imbatto in uno spot pubblicitario di un film italiano che è il clone di Giù al Nord di Dany Boon (Dany Boon). Uno spot di solito è come un incubo ma questo è peggio (un metaincubo?). Un direttore delle Poste Italiane "è costretto" a lasciare la Lombardia (lo vediamo che abbraccia un cartello indicatore che testimonia la fine dell'amata terra nordica per eccellenza) e trasferirsi in un paesino del caliente Sud, per lavoro… Un film encomiabile, regista autori attori caratteristi precari e maestranze locali hanno evitato di raccontare il solito Sud, fra immondizia camorra e mafia, che in tivù è diventato invece un cliché come il pellicano nel petrolio.
Un bellissimo film di arcadia e metafisica italiana (a ruota seguirà il dividi, ho già messo da parte gli euri).
Vivi e lascia vivere, però, fateci un po' caso, i dvd dei film originali sono quasi sempre fuori catalogo! E così sono arrivato al nocciolo del post (strano, avrei potuto finire lì con gli euri e invece continuo ancora un po'). Alla ricerca dell'introvabile dvd (fuori catalogo), il meraviglioso Sogni proibiti di Danny Kaye (Danny Kaye), invece il suo clone volgarotto e italico - guarda caso - c'è, ed è Sogni mostruosamente proibiti di Paolo Villaggio (Paolo Villaggio).
Scusate l'eco.
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venerdì 1 ottobre 2010
Gli anni luce
Il suo magico regno è un cinema di una cittadina di periferia in una calda notte d’estate…
That pure American brother
Dull-eyed and empty-faced
esce dal cinema e si infila dentro una notte di inizio estate dell’anno millenovecentocinquantasette.
Notte che avrebbe potuto essere una delle tante notti d’estate di quell'anno perso tra gli anni luce.
Ma una locandina di un film horror e fantascienza è lì fuori dal cinema, imita (o plagia) un'altra locandina di un film passato alla storia (non nei cataloghi dei dvd), Il pianeta proibito. Film prodotto dalla M.G.M e distribuito nel 1956, lo sceneggiatore si era ispirato ad un racconto di Irving Block e Allen Adler, a sua volta libera interpretazione in chiave fantascientifica del dramma La Tempesta di William Shakespeare. Il film è ambientato nel XXIII secolo, narra la storia della missione di salvataggio dell’astronave C-57D, diretta sul pianeta Altair IV, sul quale era approdata, venti anni prima, l’astronave Bellerofonte. Il pianeta è deserto, sconfinato, sembra privo di vita o quasi, gli unici esseri umani sono il professor Morbius e sua figlia Altaira. Morbius racconta al capitano dell’astronave la tragica sorte dei componenti del Bellerofonte straziati da una misteriosa forza naturale, e di come poté salvarsi grazie alla scoperta della tecnologia dei Krell, gli antichi abitanti del pianeta misteriosamente scomparsi, milioni di anni prima, in una sola notte d’estate. La tecnologia Krell era capace di generare l’energia sufficiente ai bisogni dell’intero pianeta con il solo aiuto del pensiero amplificato da una Macchina. Sotto la superficie silenziosa del pianeta si estendeva per una profondità vertiginosa la Macchina silente e autistica, talvolta una spia si accendeva, la Macchina registrava il volo di un’ape attorno a un fiore, il lento dipanarsi delle nuvole nel cielo.
La Macchina era l’ultimo vestigio dell’antica civiltà dei Krell, delle città maestose con torri di metallo splendente non restava traccia sul suolo del pianeta, e non esistevano immagini dei Krell, si poteva fantasticare sul loro aspetto osservando la forma di una porta Krell.
Si pensi a un grande triangolo col vertice in alto ma i cui lati, prima di raggiungere la base, si pieghino anch’essi ad angolo e in maniera sghemba, verso la base stessa. Il vertice era circa a due metri da terra, e la larghezza massima del vano toccava i tre. (*)
Morbius si era sottoposto ad una Macchina del Sostegno, capace di sviluppare le facoltà intellettive nei bambini Krell tardivi, ed era riuscito ad aumentare la sua intelligenza al punto di decifrare l’antica lingua dei Krell e a costruire un robot capace di sintetizzare qualsiasi sostanza, naturale o artificiale: dalla cioccolata fondente a quella al latte, dalla Coca-Cola alla Coca-Cola decaffeinata, dai pezzi di vetro ai diamanti naturali, dal caffè d’orzo al caffè ecosostenibile. Robby, così si chiamava il robot, era dotato di una forza straordinaria ma vincolato ad una Legge ancora più straordinaria, la Legge gli proibiva di nuocere ad ogni essere umano, da Silvio Berlusconi a Terzo Aristotele Escluso, compreso.
Le petulanti insistenze del capitano dell’astronave nel convincere Morbius a tornare sulla Terra fanno inevitabilmente precipitare gli eventi, e agitare la trama della storia. Una notte un misterioso essere invisibile visita l’interno dell’astronave e compie un atto di sabotaggio. Il mattino dopo da un’impronta della creatura si ricava il calco in gesso. Il calco, che avrebbe colmato di mistica letizia il cuore del Fisiologo ma anche trafitto dolorosamente il fianco di Darwin con una spina, causa dubbi e perplessità nella mente del medico di bordo.
L’amore che avviluppa il Capitano e Altaira oltre che stizzire Morbius pare misteriosamente potenziare l’aggressività dell’informe creatura. Gli attacchi alla nave si susseguono, sempre più violenti e rabbiosi. Finalmente, dopo un ultimo attacco alla nave la creatura sceglie di colpire il bersaglio grosso, la casa di Morbius, dove si sono asserragliati, insieme al professore, il Capitano e Altaira, che si è decisa a lasciare il pianeta per seguire l’amato. Robby, l’unica difesa attiva contro la creatura, misteriosamente si rifiuta di attaccarla e si autofulmina. I tre si rifugiano nel laboratorio, difeso da porte di un impenetrabile metallo krell. Mentre la creatura è occupata a fondere il metallo krell delle porte, che tengono duro come un panetto di burro krell lasciato al sole di Altair in un pomeriggio d’estate, Morbius è incalzato e infilzato dalle domande impietose del Capitano, che ha compreso la vera natura del mostro (non più informe), grazie al sacrificio del medico di bordo che, di nascosto, curioso come una scimmia (o il gatto) o un qualsiasi scienziato degno di questo nome o ricercatore alla ricerca del nome, si era sottoposto alla Macchina del Sostegno danneggiandosi irreparabilmente il cervello, se è vero che la curiosità uccide il gatto questa volta è il medico a lasciarci lo zampino, ma non prima di svelare la verità al Capitano. Così Morbius scopre che la misteriosa creatura sterminatrice della civiltà Krell era stata generata dai loro stessi desideri inconsci e belluini, amplificati e materializzati dalla Macchina. Poveri Krell sterminati in una sola tragica notte d’estate, dalla loro natura animale repressa ed inconscia e dimenticata, come un fiore tra le pagine di un libro, nel fondo del fondo del cuore dai loro antenati selvaggi. Ma non esiste più un solo Krell su Altair, ribatte trionfante il professore al Capitano, come spiegare allora la presenza del mostro? Il Capitano scuote la testa, Morbius ancora non è in grado di affrontare tutta la terribile verità: il mostro che sterminò l’equipaggio del Bellerofonte e ora sta per penetrare nel laboratorio per farli a pezzettini è della materia dei sogni e degli incubi del professore. È il demone di Morbius alla porta.
Quella notte l'umanità di quel tempo là, lontana anni luce, fu salvata dal coraggio di un singolo eroe, dalla solidarietà di tutti (compreso il reduce) e anche dal freddo. Tutti perduti, via nel diluvio.
Oggi, noi, molto meno ingenui di quella gente di quei tempi là (prima del diluvio), siamo qui fermi al semaforo, sotto un'uggiosa pioggia d'autunno, sognando l'estate, con le gocce di pioggia che scivolano sopra gli ombrelli.
(*) W. J. Stuart, Il Pianeta Proibito, Mondadori Urania, 1977, pp. 105-106.
giovedì 30 settembre 2010
Molto obbligato, Gooogle
martedì 28 settembre 2010
Tutto scorre (come un fiume)
domenica 26 settembre 2010
io sono qui
L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera.
F. Kafka (La costruzione della muraglia cinese)
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giovedì 23 settembre 2010
Coprendo Federico Moccia
Copio dal post del link due citazioni dal romanzo:
“Io farei tutto mare… Ma se qualcuno è allergico?”
“Al pesce? Non lo invitiamo!”
“Ma dai, non è carino!”
“E i fritti?”
“Ci devono essere!”
“E un po’ di prosciutto crudo?”
“Ci deve essere!”
E un po’ di parmigiano?”
“Ci deve essere!”
Be'?
Poi nel libro c'è una che si chiama Olimpia e si meraviglia di uno che si chiama Egidio:
"Egidio. Che razza di nome. Ma chi è, uno del Mille avanti Cristo? E’ un nome troppo antico."
Fermo restando che non ho mai letto Moccia, il titolo di questo post potrebbe far pensare, a qualche lettore malizioso, alla lettiera del gatto (magari quella che poi si appalla) soprattutto se connesso il titolo al titolo del mio post precedente. Addirittura di Thurber ho letto un racconto (1) sulla carta (L'età degli scrittori, in Gli uomoristi moderni, Garzanti 1971). Ma non è così. Perché voglio spezzare una lancia in difesa dell'umorismo forse involontario ma comunque presente in Moccia, come del resto nei film di Dario Argento.
Purtroppo Argento non è Carpenter né Moccia è Thurber: i due non ci hanno mai pensato e ora è troppo tardi.
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sabato 18 settembre 2010
domenica 12 settembre 2010
Scoprendo James Thurber
sabato 4 settembre 2010
Case in capo al mondo, IX
Toh, due sempliciotti sui tetti di Parigi. Uno dei due è un aviatore inglese “generico”, mentre l’altro è uno "specialista" nell’arte di miscelare i colori e pitturare con pennelli e pennellesse i muri e le facciate delle case. E' proprio con un pennello (e non con una pennellessa), tenuto saldo e leggero nella mano, il pittore, quella mattina passate da poco le 9 di un giorno di inizio estate, toccava e ritoccava la superficie da verniciare senza uno sbaffo di colore. Il pittore stava in equilibrio, sospeso ad un paranco, tra precisione e determinazione, e nel caso contingente dipingeva una griglia di verde. Il lavoro per quanto fino non gli impediva di guardare attorno e anche giù in basso, dove la Storia, tra stracci penduli e divise ariane, se ne stava, come un levigato sasso nero addormentato sul fondo di un torrente montano, nell’attesa non di un salmone né di una trota salmonata ma nientepopodimenoche di un obergruben fűhrer qualunque, oggi novantenne pensionato sbrodolone. Il generico si picca, fin da quando è atterrato con il paracadute sulla testa del pittore francese (A) di essere messo in salvo dal pittore, (B) essere accompagnato ai bagni turchi (a quel punto, esaudite le desiderata A e B, il pittore potrebbe anche cavarsi il gusto di fumare un sigaro toscano e chiamare l’aviatore Ismaele o Melampo). Lo specialista si chiama Agostino (o Agostina), del generico adesso mi sfugge il nome (tanto è un generico). I due sono stranamente amici e s’incoraggiano a vicenda nella ricerca di una via di fuga sopra i tetti di Parigi (che la città sia proprio Parigi e non Peretola è provato dalla torre Eiffel - coordinate: 48°51′30″N 2°17′40″E come scriverebbe Verne - visibile in lontananza). Al loro passaggio sui tetti tutti i tedeschi del posto giù in basso sgranano tanto d’occhi, non alla vista dell’imbianchino, gliene importa assai ai tedeschi occupanti (ce l’hanno uno a casa che vocia alla radio dal millenovecentotretatre), ma perché li vedono (il generico e lo specialista) così vicini vicini e pure così lontani lassù in alto sopra i tetti di Parigi.
Bene, dai e dai i due fuggitivi vedono un utile abbaino e vi si calano, poi scendono le scale di un palazzo, intenzionati ad approdare al piano stradale. Scendono di corsa al sesto piano e poi al quinto. Afferrando la ringhiera della prima rampa di scale che mena al quarto (ci sarebbe anche un ascensore volendo ma è ignorato dai due, causa la trama) i due odono il rumore di stivali tedeschi che calpestano gli scalini della prima rampa di scale al piano terreno, uno sgradevole rumore che li fa desistere dall’impresa di approdare al piano terra, che fare? stare per sempre sui tetti? be', mentre risalgono la prima rampa di scale che porta al sesto piano la porta dell’appartamento del quinto si apre ed esce una ragazza preoccupata per un possibile rastrellamento tedesco (si preoccupa per il prossimo e pure per i vicini), i due la vedono e vedono la porta aperta e vedono la salvezza, a portata di mano questa volta e non di piede, e scendono ed entrano dentro l’appartamento.
Ai due tapini basterà farfugliare qualche parola e saranno salvi. Tutti salvi, anche gli animali con la clonazione, e il resto è Storia... cioè è una commedia francese (Tre uomini in fuga, 1966). Resterà un mistero come la rappresentazione imbastita lì per lì o là per lì o lì per là di una scenetta familiare di un litigio fra marito e moglie, con l'aviatore in bilico sul tetto dell'ascensore, possa confondere e deragliare l'attenzione di esseri così superiori e razionali come erano i tedeschi di una volta.
Bene, chi non ha sognato, guardando fuori dal finestrino di un treno che corre sferragliando in un pomeriggio d’estate, di scendere alla prima stazione e dopo pochi metri di strade sconosciute entrare in un portone di una casa, passare da stanza a stanza come se fosse nostra. Case in capo al mondo, case dietro l’angolo, case nascoste da un muro di giardino. Case sconosciute eppure familiari, case come ultimo rifugio sicuro o il primo (dipende dai punti di vista).
Egli trasse un profondo respiro. “Sono tornato”, disse.
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sabato 28 agosto 2010
Case in capo al mondo, VIII
La strada tutta sepolta tra due crinali di colline, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca, o almeno così avrebbe scritto il Manzoni, e nella fanga passano e sostano cose, persone e animali; ecco per esempio un bianco bove che trascina un carretto, dappresso quattro portantini con cappelli bianchi trasportano una portantina, e un vecchierello canuto poco distante sta strascinando un baule fornito di quattro ruote cigolanti e in fondo alla strada c’è un pastore dietro un branco di pecore (anch'esse bianche), un pellegrino dal cuore nero è diretto in Terra Santa, ma per ora sta seduto su un sasso e si riposa. I crinali delle colline disegnano il profilo di una città perduta, forse etrusca, dalla quale, estrema propaggine, si dirama quel che resta di un muro e di una fonte con una vasca d’acqua fangosa, o forse nascondono i crinali le vertebre e le membra di un drago azzurro. Al confine con il cielo radi alberelli stanno di sentinella ad avvisare il drago dell’invisibile presenza di una tigre bianca che sbadiglia e si stira, appena dietro le colline. E’ un paesaggio che nemmeno alla lontana assomiglia a quel luogo perso nei meandri della memoria, silenzioso, verde ombroso e arcadico che i nonni forzisti di una volta sognavano essere l’Italia-Magica, piuttosto è un paesaggio brullo, un tempo antropizzato e ora perennemente fatiscente, pare masticato e sputacchiato da generazioni di barbari, barboni e barbagianni in saio. Paesaggio ingombro di rovine e ruderi di una estinta civiltà, da innumerevoli secoli i ruderi hanno preso il colore della terra, semiaffioranti tra i sassi e le erbe aromatiche che crescono spontanee nei campi incerti sono solo d’inciampo al pellegrino e agli sparuti coltivatori diretti.
La figurina che trascina il baule, che poi è la sua casa e la sua bottega (e chi non ha sognato almeno una volta di girare il mondo in roulotte), su ruote cigolanti si chiama Abacuc, è un robivecchi ebreo, vecchio più del cucco. Si dice di un oggetto o di un essere animato che è vecchio come il cucco quando è di molto ma di molto vecchio. E’ possibile usare il cucco come pietra di paragone per datare un oggetto o un essere vivente: un macinino del caffè, una macchina per cucire a manovella, Abacuc. Notate bene, questo modo di dire è usato solo in senso peggiorativo, se non dispregiativo. Infatti, non si dirà mai di un Commodore 64 con 48 K di Ram capace di generare il grafico a fil di ferro di una sinusoide dopo appena cinquanta minuti di calcolo che è vecchio come il cucco, ma di un vecchio PC 486 certamente sì. Un ragionamento analogo vale anche per un essere animato: il cane incontinente dei vicini di casa, il gatto spelacchiato della zia, il chiarissimo professore ottuagenario, e così via, sono classificabili vecchi come il cucco.
Una domanda sorge a questo punto spontanea: quanto è vecchio il cucco? E’ possibile trovare su ebay un cucco usato ma ancora in buono stato? E come riconoscere un cucco originale da una vile imitazione, solo dal prezzo esoso? O esistono parametri oggettivi, razionali, una lista razional-tipologica del cucco. E l’esperienza sul campo aiuta? Come quella che consente, per esempio, di distinguere a colpo d’occhio un fungo porcino da un fungo che sembra commestibile al profano ma non lo è. Già, esistono cucchi velenosi?
Per trovare una risposta a queste e simili domande si deve, per prima cosa, sgombrare il campo da un equivoco, duro a morire e anch’esso vecchio come il cucco: il cucco non è un oggetto, il cucco non è un essere animato, il cucco non è un animale o una pianta. Il cucco è un monte, o meglio era un colle, anzi era una collina situata nei dintorni di Firenze, in Oltrarno. Poco dopo la metà del XV secolo, sul pendio di quella collina, chiamata per l’appunto Montecucco, fu fatto costruire da tale Luca Pitti, pare su progetto del Brunelleschi, un palazzo che da allora in poi fu sempre conosciuto come Palazzo Pitti, nonostante i molteplici passaggi di proprietà (vi abitò anche Vittorio Emanuele II). Si potrebbe quindi affermare che Abacuc è vecchio almeno quanto Palazzo Pitti. Ma si può andare ancora più indietro nel tempo. Sembra che Luca Pitti fece pesare tutta la sua autorità per ottenere i permessi necessari per l’edificazione del suo palazzo, ché non poteva vivere altrimenti. In quel tempo di Rinascimento incipiente la mancanza di abitazioni popolari era già notevole, ciò nonostante Luca Pitti fece demolire le case che esistevano su Montecucco. I proprietari delle case, invitati a far fagotto delle loro quattro prugne (un altro modo di dire) e sgomberare, non ebbero né un compenso né un nuovo alloggio, ecco che prendeva campo una consuetudine, vecchia come il cucco. Le macerie di quelle case costituiscono, di fatto, il terminus post quem per datare il nostro macinino del caffè e il cane dei vicini, mentre Palazzo Pitti è il terminus ante quem del cucco.
Possiamo sicuramente datare Abacuc all'Alto Medioevo, prima del cucco.
A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi, osserva il Manzoni. E da quei campi scendevano 3 fuggitivi urlanti come se cavalcassero 3 mountain bike usate o rampichini: un grassone, un mercenario dei paesi del nord e un ragazzino residente in un villaggio limitrofo appena passato a ferro e fuoco. Essi correvano contro il vecchio rigattiere già tremolante di suo e adesso arciconvinto di terminare i suoi giorni davanti a una vasca battesimale piena più di fango che d’acqua; a scanso di equivoci si serra il vecchio a chiave dentro la sua roulotte, ma i tre figuri si rivelano essere ridenti, anche se un po’ selvaggi, venditori di cianfrusaglie. Cosa vendevano e cosa compravano i rigattieri di quei tempi là? Almeno una testa con gambe e strane bestie lumacose fuoriuscenti da seriche conchiglie e il canto di una sirena intrappolato in una conchiglia, e poi piante zoomorfe e facce lunari e ali di pipistrello e creste di drago e code di rospo, forse un carapace di testuggine marina, i denti incisivi persi a scuola dai bambini in un anno scolastico, piattole e ragni (sia vivi sia morti) in abbondanza, erbe aromatiche, erbe medicinali, fiori di Bach, pidocchi, incubi e demoni con ali d’angelo e demoni cinocefali e demoni con proboscide d’elefante, un ornitorinco imbalsamato, la pelle di un tapiro, il cranio di un polifemo siculo, pietre del fulmine, la mappa del tesoro di Teodorico, la dentiera di Attila, le foglie della Sibilla, un prisma ottico, lenti per vecchi e per vedere lontano, tappeti e stracci penduli, vasi ming e attici, cappelli piramidali, un coniglio nel cilindro, tarocchi e carte da gioco, statuette di Budda, barattoli di miele d'acacia e misteriosi animaletti e pesci degli abissi marini conservati in vasi di vetro colmi di alcool, la testa sotto spirito dell’imperatore buono Traiano e interi universi dentro palle di vetro, rocce zoomorfe, il corno di un unicorno, un ciocorì, macchie di muffa sui muri, la vasca con la fontana, una copia autografa della Bibbia e qualche mummia di santo, larve e coleotteri, nere farfalle e maschere polinesiane, polverose uova di emù e di gallina mugellana, uova quadre e una cartapecora con l’autorità di assegnare titolo e feudo al portatore della stessa.
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giovedì 26 agosto 2010
Case in capo al mondo, VII
E’ vero, qualcuno sta proprio cantando (a parte il cantastorie) ma non è Bing. Dietro una parete di legno di una casa in stile "casa-di-Paperino" qualcuno sta effettivamente cantando. Bang! Meraviglia delle meraviglie meravigliose, state per incontrare un mito della vostra infanzia bruciata davanti al televisore a colori nel corso dei mitici (per voi) anni ottanta, del secolo scorso.
Vi infilate in una backstreet, ancora qualche passo strascicato, tra muri di calce bianca e pittura rosa e sotto un cielo azzurro senza una nuvola, e siete entrati da una porta finestra nella spaziosa e luminosa cucina di un vecchio robivecchi canterino. E’ lui che sta cantando, Fred Sanford, mentre cucina per il suo primogenito e unico figlio, Lamont. Il vecchio sta preparando la sua “ricetta speciale” per la prima colazione del figlio. Tirate fuori da una delle 100 tasche del vs. giacchetto alla pescatora il vs. taccuino con la copertina nera e prendete appunti della procedura, ché ‘ste occasioni sono da afferrare al volo, capita solo una volta nella vita di incontrare una cesarina così speciale come Fred Sanford (e vi siete già persi la ricetta dei colli di pollo fritti, con la storiella del cugino goloso di colli di pollo fritti che fu punito dagli dèi per la sua smodata avidità, infatti inghiottiva gli ossicini dei colli di pollo invece di risputarli nel piatto come esige il bon ton e così una notte nera e tempestosa gli spuntò un puntuto gozzo di pollo, tanto che da allora non potè più radersi il pomo d’Adamo ma se lo doveva fare spennare tutti i sabati del villaggio dal pollivendolo sotto casa; storiella che pare scappata per la disperazione dalle pagine delle Origini delle buone maniere a tavola di Claude Lévi-Strauss).
La ricetta speciale del vecchio robivecchi per la prima colazione del figlio, Lamont.
Affettate 1 cipollotto bianco e inciotolatelo in una bella ciotola fonda (tipo pappa per mastino napoletano);
affettate ½ pomodoro rosso da insalata, inciotolate;
spezzate 3 uova intere nella ciotola;
pepate e salate in abbondanza, indi mettete in scena un rito scaramantico per il sale versato;
mescolate gli ingredienti con brio, fino a formare un composto eterogeneo;
versate il buglione in una padella e date fuoco al gas;
mescolate, dall’esterno all’interno della padella, con un mestolo di legno per ben 35 secondi;
impiattate sopra 2 stringhe di pancetta, precedentemente (chissà quando) rosolate in un po’ di strutto;
grattate il bruciaticcio in eccesso da un paio di fette di pane in cassetta dimenticate nel vecchio fornetto elettrico, quindi spezzatele a metà;
decorate il piatto con i ¾ dei toast, mi raccomando con modi alla francese (e intascate il restante ¼ di toast caduto in terra).
Giudizio estemporaneo di Lamont: ha un aspetto orribile!
Giudizio organolettico di Lamont: non pervenuto.
La finestra scomparsa nella casa dei Sanford è quella a destra nell’immagine-collage, sembra che l’immagine abbia catturato anche lo spettro irrequieto del vecchio rigattiere, si agita qua e là, ovviamente sta solo fingendo di spazzare un tappeto. Niente paura, ché non c'è da aver paura dell'uomo nero... a meno che non siate leghisti, ma in questo caso sono ben altre le paure, be' comunque non siate tristi, piuttosto date un'occhiata fuori dalla finestra. Si vede la parete esterna della casa, e al di là della parete ci sarà ovviamente la cucina. Ma, come si è visto nel post n. 6 (punto A) non siamo in un interno borghese, quindi la cucina diventa ben presto uno spazio vivibile e autonomo, il cuore della casa, il focolare dove Lamont trascina il padre in accese discussioni. Ma la finestra in quel punto limitava fortemente il nuovo spazio scenico.
E sicché scomparve la finestra e fu come se non ci fosse mai stata.
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mercoledì 18 agosto 2010
Case in capo al mondo, VI
Il collage di frame che apre questo post mostra una veduta panoramica, quasi veneta, quasi fiamminga, della casa-baracca-magazzino di Fred Sanford e figlio, Lamont. E' la scenografia del primo episodio della prima stagione (1971-1972) della serie tv, ed è già perfetta così. Un uomo canta allegramente con accompagnamento di pianoforte. A sinistra c'è una porta finestra, la telecamera ruota e mostra una stanza che nemmeno alla lontana assomiglia a quel luogo perso nei meandri della memoria, silenzioso e in penombra e quasi atemporale e magico che i nonni buoni di una volta definivano il salotto-buono, piuttosto è una stanzaccia assolata, illuminata da 3 finestre e 1 porta finestra. Stanza perennemente crollante pare masticata e sputacchiata da un boxer di ventuno mesi, ingombra di oggetti che hanno preso il colore della tappezzeria, e viceversa, di cianciafruscole guaste e sparpagliate sui tappeti sbiancati dai soli di innumerevoli estati. E' il vecchio Fred Sanford, il robivecchi, che canta e suona; ma poi il cameraman muove la telecamera in avanti quanto basta per permetterci di vedere: meraviglia, il vecchio sta solo spolverando il piano, di fatto una pianola. E' abbiamo già capito che (A) non siamo in un interno borghese e (B) che è una radicata abitudine quella del vecchio di passare il tempo in ozio canicolare, libero il vecchio come un usignolo o il giglio del campo da preoccupazioni gioie e doveri borghesi (ben presto al posto della pianola spunterà un suonato televisore in bianco e nero, nella seconda stagione Lamont porterà a casa un divano spelacchiato e alé al vecchio resterà solo di sognare un tv-color con telecomando a tre tasti). Tanto è il figlio Lamont che lavora e suda, scrutando dall'ombra del suo pick-up giacimenti di materiali di scarto ai bordi delle strade di Los Angeles, e accumula indifferentemente dentro e fuori casa hardware, porcellane inglesi e bare e mode e manie e nere radici d’Africa di religioni vagamente orientali.
Continua…
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sabato 14 agosto 2010
Case in capo al mondo, V
Steve seduto su un letto improvvisato, messo al corrente dell’importo in Yen, del cambio in Sterlina Inglese (British Pound), e del cambio in Dollaro USA, dal cambia valute Sir William, del valore di 1/8 dell’affitto mensile pagato dall’inquilina inglese allo sconosciuto padrone di casa giapponese, convince Sir William a subaffittargli per qualche giorno la metà della sua metà dell’appartamento in cambio di 1/16 dell’affitto mensile. Solo una tradizionale parete in legno e carta di riso difende dai ragionamenti contabili dell’atleta americano il silenzio orientale della stanza accanto, la camera da letto della ragazza. In primo piano un acquario e a destra e al di là del muro c'è la cucina, la porta del soggiorno si apre su un disimpegno: alla nostra destra c'è la porta d’ingresso dell’appartamento, a sinistra la camera e in fondo al disimpegno (o corridoio) e dopo qualche scalino in discesa, il bagno. Nessun’altra stanza né finestra sembra esistere nell’appartamento 2A, che potrebbe essere locabile come bilocale; bazzecole, pinzillacchere, insomma niente che possa finire nella scatola dei gioielli di famiglia (o nel sacco di juta) di qualche parente, parentastro, affine, anfibio con le branchie o collaterale della banda Bass… cioè di un eroe locale della politica italiana.
Sabato mattina. Una veduta del soggiorno visto dalla camera da letto, come se la tradizionale parete in legno e carta di riso fosse aperta.
Sabato pomeriggio. Una veduta del soggiorno, lato ingresso. Steve, in compagnia di un atleta dell’Unione Sovietica, invita a cena Sir William che accetta ben volentieri non avendo niente di meglio da fare, a parte leggere un libro con la copertina rigida di colore rosso, e che fine ha fatto la sovraccoperta? (per tacere di Monica Vitti e Luca Pitteri).
Rieccoci alla mattina di sabato. Sir William ha appena bussato alla finestra del bagno, dove l'inquilina inglese è appena uscita dalla doccia. L’immagine-collage mostra il prospetto dell’appartamento lato strada: la finestra appannata del bagno (con il tondo fatto con la mano dall'inglesina), la finestra misteriosa, la finestra della camera dove entrerà Sir William con la bottiglia del latte per la prima colazione e finalmente la porta finestra del soggiorno, dove Steve sta rifacendosi il letto.
Cary Grant passando accanto alla finestra misteriosa getta un’impossibile occhiata curiosa dentro la stanza fantasma dell’appartamento 2A situato al primo piano di una palazzina, primo novecento stile eclettico moderno, a Tokyo, 235 Osako Road.
Solo un'occhiatina metastorica e la trama è salva.
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venerdì 13 agosto 2010
Case in capo al mondo, IV
Strano ma vero, in quella terra senza misericordia ci vivono creature misericordiose, i bambini. Volendo bastava guardare un frame più là ed eccone due esemplari piccini picciò, maschio e femmina, seduti su un gradino della prima rampa di scale.
Ebbene sì.
Sabato mattina. Sir Rutland mandato a prendere il latte è rimasto fuori casa, causa la porta di casa chiusa per sbaglio da un assonnato Steve, e il destino si è compiuto, il frame ce lo mostra in atto di uscire in vestaglia per strada (e i bambini - come le stelle - stanno a guardare).
Anzi lo seguono in strada, e mentre Rutland guarda la porta-finestra di legno e carta del soggiorno (e a destra nell'immagine si vede la finestra piccola rettangolare della cucina) loro guardano Rutland come se fosse una commedia con Ginger Rogers e Fred Astaire (ma con il tip tap sottotitolato in giapponese, è ovvio). La tettoia in primo piano cela le finestre del lato ovest.
Ma è il mistero, il mistero di una finestra in più nell’appartamento che dà a questa casa un fascino unico? O è il suo essere fragile di carta e legno, un riparo di muri fatti di niente e nonostante è una casa, una casa all’angolo di due vie calpestate da gente orientale notoriamente indaffarata, ma ci siamo distratti e intanto Sir Rutland sta scalando la parete ovest della palazzina (in ciabatte).
A sinistra la finestra che dà aria e luce ad una stanza misteriosa.
Continua…
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domenica 8 agosto 2010
Case in capo al mondo, III
Rutland, la mattina di venerdì, mentre si prepara un caffè all’inglese: una tazzina d’acqua e il filtro del caffè pieno oltre l’orlo.
Rutland con un foglietto in mano, vi legge i rigidi orari nell’utilizzo del bagno dettatigli dalla coinquilina e affittuaria. Alle sue e nostre spalle c’è il bagno, a sinistra la porta d’ingresso dell’appartamento 2A e a destra la porta della camera della ragazza; in fondo al disimpegno (o corridoio) alla nostra destra si apre il piccolo ma luminoso soggiorno, riattato per l’occasione in stanza da letto di Sir Rutland.
Rutland nella stanza da bagno mentre si guarda attorno (notare il foglietto con le note orarie appiccicato allo specchio): calze appese, calendario giapponese e una presa elettrica che oggi in Italia non sarebbe a norma ma forse lo era in Giappone nel 1964.
Sempre la sorte vuole che il venerdì mattina l’industriale si imbatta in certo Steve Davis (Jim Hutton, l’attore della serie televisiva Ellery Queen), architetto e atleta americano, olimpionico di una misteriosa disciplina e ora in attesa di entrare in possesso di una camera nel villaggio olimpico, beccato dalla sicurezza di un edificio, sede di un produttore di transistor con cui l’industriale inglese è in affari, a tracciare schizzi su un taccuino da disegno, in compagnia di un atleta sovietico. Risolto l’equivoco, Steve è interessato alla forma e non ai segreti celati all'interno della costruzione architettonica, esempio notevole di vecchio moderno antico Giapp in nuovo stile occidentale, con originali soluzioni in occorrenza d'eventi sismici (eventi che accadono sempre e solo all’altro capo del mondo), l’atleta convince ben presto Rutland a subaffittargli per qualche giorno metà della metà (qui non è un quarto ma un terzo) dell’appartamento, proprio quello che il giorno prima l'inglese aveva preso in affitto, però pagandogli metà della metà di ¼ dell’affitto che la ragazza una volta al mese paga al proprietario di casa.
Rutland e Steve mentre entrano nell’atrio della palazzina, a sinistra si intravede la prima rampa di scale (nel vano scala è allocata una bicicletta, probabilmente di un inquilino, dalle etichette appiccate sopra le cassette postali si evince che gli appartamenti occupati sono 5 su 6).
Il resto della storia è una commedia americana (Cammina, non correre, 1966) e ai fini dei post di questa serie non c’interessa sapere come andrà a finire la storia (non bene per il segretario dell'ambasciata). C'interessa denunciare (purtroppo non risolvere) un mistero, il mistero di una finestra in più nell’appartamento giapponese, comunque un mistero affatto tenebroso, siamo in una classica commedia americana anni sessanta del secolo scorso.
Continua...
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lunedì 2 agosto 2010
Case in capo al mondo, II
Attenzione, in questa casa si entra dalla finestra, difatti da una porta-finestra, che si apre su un “giardino” che in effetti non è un giardino ma una spiaggia situata in Scozia, in altre parole in capo al mondo (dal nostro relativo punto di vista, s'intende).
Chi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di possedere una spiaggia in Scozia? Be’, il protagonista del film Local Hero (1983) ne possiede una, e non la vuole vendere. Il magnate del petrolio Felix Harper, erede della dinastia dei petrolieri Knox, spedisce un suo collaboratore, un certo Mac, in capo al mondo con il compito di comprare spiaggia, villaggio e terreni attorno alla spiaggia, perché proprio lungo quel tratto di costa dovrà essere costruito un impianto per la raffinazione del greggio. Tutti sono più che felici all'idea di vendere le proprie proprietà, anche il prete (però è un prete protestante), cioè tutti meno uno, il proprietario della capanna (in quanto legittimo proprietario della spiaggia), un certo Ben Knox. Perché non vuole vendere la spiaggia? Non è importante ai fini di questo post. Spiagge esotiche da cartolina in cambio di una grigia e umida spiaggia scozzese sono rifiutate dall’eccentrico personaggio. Valigie zeppe di dollari sono respinte al mittente. Che importa sapere perché. Importa la contrapposizione visuale tra un elicottero, una grigia spiaggia deserta e una capanna priva di porta ma con una “porta-finestra”. Ora, noi non sappiamo com’è fatto l’interno della capanna, perché noi guardiamo con gli occhi di Mac e Mac non entra mai nella capanna… Ma i vincoli di questa serie di post sono rispettati (anche quelli edilizi), perché esiste forse un dentro e un fuori in una capanna costruita con materiali di scarto? In altri termini, mica stiamo parlando del mulino bianco della pubblicità o dei fienili riattati a villini…
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domenica 1 agosto 2010
Case in capo al mondo, I
Mettiamo subito un vincolo: queste case non sono wunderkammern. Ci sono tanti esempi di wunderkammern nel cinema ma non sono poi molte le case mostrate da cima a fondo nella cinematografia mondiale. Ok, qualche volta la casa si riduce ad una camera ammobiliata in affitto dove l’assassino scrive una lettera (anonima) alla polizia, ma al regista interessa mostrare la mano grassoccia dell’assassino che scrive la lettera (anonima) mica la camera… Spesso il protagonista è lì che si torce le mani, chiuso in una cella, uno studio, un laboratorio, un ufficio statale, oppure gira, con le mani in tasca, le sale di un museo di storia naturale, ma cosa c’è dietro quella porta e dove portano quelle scale e cosa c’è nelle altre stanze della casa, noi non lo sappiamo e probabilmente (salvo un sempre possibile remake) non lo sapremo mai. E se la stanza è mostrata nei minimi dettagli allora è una wunderkammer, non una immagine del tempo ma una capsula del tempo. Una stanza delle meraviglie, separata per sua natura dalle altre stanze quotidiane di una casa che può essere fatta di nebbia (Solaris di Tarkowskij) o di cartapesta o di finzioni.
E ora poniamo il secondo vincolo. E’ vero, esistono case che il regista ci mostra da cima a fondo ma noi non ci vorremmo mai abitare (La Casa di Raimi), mica per altro ma gli spettri sono presenze troppo ingombranti e inquinanti, ti deformano la visuale in un'assurda prospettiva, non ti lasciano mai bere in pace un caffè… dunque siamo alla ricerca (nella cinematografia mondiale) di case luminose, case serene anche sotto cieli neri di tempesta.
E ora l'ultimo vincolo. Il protagonista di una canzone di Guccini (Argentina), immagina di entrare a caso in un portone, di fresco, scale e odori abituali, posar la giacca, fare colazione e ritrovarsi in giorni e volti uguali… tutto ok fin quando disegnando un labirinto di passi tuoi per quei selciati alieni ti accorgi con la forza dell’istinto che non son tuoi e tu non gli appartieni. Città aliene, e quindi per definizione città deserte di esseri umani (o scarsamente abitate da scarsamente umani), città del dopo bomba, virus, a ferragosto, città canicolari o autunnali, finalmente città metafisiche. Le città sono conglomerati di case, scuole, uffici, banche, ospedali, musei… e soprattutto di persone. L’ultimo superstite in una città deserta entra in una casa, scavalcando la mummia grigia di una vecchietta rattrappita sul pianerottolo, guarda nella credenza in cucina, è alla ricerca oziosa di qualche barattolo di pelati, ceci, caffè; è ozioso perché l’intera città gli appartiene. L’ultimo eroe superstite cammina senza fretta su strade solitarie, attraversa piazze metafisiche… vivere in un quadro metafisico sarà affascinante per qualche giorno, forse un paio di settimane, ma alla lunga sopravvivere in un quadro di De Chirico deve essere di una noia mortale… dunque, cerchiamo esempi di case in mezzo a quartieri affollati (anche se in capo al mondo), anche se nascoste dagli alberi di un giardino mediterraneo, o sul confine di un villaggio di pescatori.
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