giovedì 24 settembre 2009

Ascoltando Tom Jones (n.1)

Pongo a confronto due ricette di bollito, per mostrare una verità lapalissiana e cioè che tutto il mondo è paese, almeno fino a quando restiamo all’interno dei confini della Terra. E’ un dato di fatto etnologico che agli Indiani delle Grandi Pianure la carne del bisonte piaceva frollata o al limite affumicata. Alla carne fresca del bisonte appena accoppato con un sasso a punta innestato su un bastoncino d'acero o di betulla e scagliato da un propulsore o da un arco preferivano la carne putrida di un bisonte morto affogato e rimasto a mollo nell’acqua di un fiume numerosi giorni. I maledetti film western ci hanno tutti traviato, ci hanno fatto sognare di pellerossa danzanti allegramente attorno a falò dove arrostivano bisonti sullo spiedo e uomini bianchi al Palo della Tortura. E invece gli indiani non arrostivano neppure un opossum. Essi avevano gusti e manie simili ai nostri antenati ottocenteschi. Escludo fermamente che i nostri nonni urlassero per strada i fatti loro, manco dentro un telefonino, né lo facevano gli Indiani delle Grandi Praterie. Entrambe le razze avevano una spiccata tendenza alla riservatezza e al pudore.
Un mito Mandan certifica questa particolare sensibilità e delicatezza anche in un dio (strano ma vero):

Quando il demiurgo Unico-Uomo decise di rinascere fra gli Indiani, incontrò serie difficoltà per farsi concepire da una vergine. Dopo alcuni tentativi vani, ci riuscì in questo modo: una ragazza assetata che lavorava il proprio campo in pieno sole andò a bere al fiume. Era il periodo delle piene, e l’acqua, che arrivava fino ai salici, trasportava un bisonte morto. Poiché la pelle del dorso era scoppiata, il grasso delle reni sporgeva in fuori: al vederlo, la ragazza ne ebbe voglia. Tirò la carcassa a riva e mangiò un po’ di quel grasso, che la rese incinta. (1)

Italia, fine Ottocento, Pellegrino Artusi fissa su carta lo stato dell’arte e della scienza culinaria in Italia. Non può mancare tra le sue mitiche ricette di bolliti quella del pesce lesso:

…si usa cuocere il pesce lesso nella seguente maniera: si mette l’acqua occorrente, non però in molta quantità, al fuoco; si sala e prima di gettarvi il pesce si fa bollire per circa un quarto d’ora coi seguenti odori: un quarto o mezza cipolla, a seconda della quantità del pesce, steccata con due chiodi di garofani, pezzi di sedano e di carota, prezzemolo e due o tre fettine di limone; […] Il punto di cottura si conosce dagli occhi che schizzano fuori, dalla pelle che si distacca toccandola e dalla tenerezza che acquista il pesce bollendo. (2)

Siamo in un film di Dario Argento? I due racconti mitici sono così identici da incutere un timore superstizioso. Quasi m’immagino un famelico indiano Mandan aggirarsi in cucina alla ricerca della pentola del lesso. Certo, nella ricetta del pesce lesso sono assenti i personaggi del demiurgo e della ragazza messa in mezzo, cioè manca la trama; ma anche Verne era scarso in quanto a presenze femminili nei suoi romanzi. E poi, tanto per drammatizzare la ricetta, Pellegrino Artusi potrebbe benissimo recitare in entrambi i ruoli (gli spettatori-esecutori della ricetta del pesce lesso non faranno caso ad una ragazza con la barba, se la parte è recitata bene).
Ma lasciamo andare i particolari contingenti e confrontiamo piuttosto le evidenze strutturali: il calore del sole estivo con il fuoco vivo sotto la pentola dell’acqua; il profumo dei salici e della cipolla; il bianco grasso del bisonte e gli occhi bianchi del pesce che schizzano fuori; la pelle che si distacca dalla carne putrida. Questo parallelismo nelle usanze culinarie dei colorati selvaggi di remote contrade e dei nostri grigi avi ottocenteschi non è una coincidenza oserei dire peregrina, ma è una costante, un filo rosso che tiene assieme tutte le culture umane. E’ forse il caso di accennare alla caffettiera con crosta perenne di caffè che un francese non pulirebbe mai e poi mai o alla pentola di stufato in servizio attivo per decenni tra gli Indios della Guayana olandese? E le uova centenarie dei cinesi dove le mettiamo? Ovvio, nella credenza accanto al formaggio coi bachi. E chi oserà mai infrangere il terribile tabù e svelare la Grande Madre di tutti gli aceti?
Forse un giorno gli alieni cercheranno un contatto con le galline o con le balene o con i ragni o con il lievito di birra, tutto è possibile, ma mi pare poco probabile che ci scriveranno una lettera d’amore. Siamo troppo strani, troppo alieni, perfino per gli alieni.

(1) Claude Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola (Il Saggiatore, 1971)
(2) Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene (Giunti Marzocco, 1991)


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